Abigail Goldman, Tread Water

Abitanti del non-mondo

Diorami, weird fiction, David Lynch e Philip Dick: piccola guida alla demondificazione

Pubblichiamo un estratto da libro di Gianluca Didino Essere senza casa. Sulla condizione di vivere in tempi strani, ringraziando l’autore e l’editore minimum fax per la disponibilità.

Paesaggi come quello di Kiruna o di Onkalo – luoghi in cui l’umano e il naturale collidono, la cui bellezza nasconde un segreto sinistro – sono lo specchio di un’epoca in cui l’impatto dell’attività umana sulla Terra ha incrinato irrimediabilmente l’ordine naturale delle cose. In questi luoghi è in atto, perpetua e come immortalata nel momento in cui capita, una duplice apocalisse: da un lato è qui che possiamo renderci conto di come l’uomo stia alterando la natura oltre il punto di non ritorno, accelerando un’estinzione di massa che cancella dalla faccia della Terra specie animali e vegetali a un ritmo tra le 1000 e le 10.000 volte superiore a quello naturale; dall’altro vediamo come oggi il mondo sia sempre sul punto di finire anche in un senso più metaforico, strettamente legato alla crisi della casa, poiché in questi luoghi più che in ogni altro il mondo diventa un non-mondo o, meglio, si demondifica.

Heidegger ha chiamato demondificazione (Entweltlichung) il processo che trasforma un mondo in un non-mondo. Secondo il filosofo tedesco un mondo per essere tale deve essere un’unità dotata di senso: gettati nel tempo, gli esseri umani sono costretti a cercare una giustificazione al mondo e per farlo gli danno un significato. Un blando esempio di questo processo capita quando si giunge in un luogo nuovo, diciamo l’albergo dove trascorreremo una settimana di vacanza. Arriviamo la notte, dopo un lungo viaggio in aereo, e mentre l’addetto alla reception ci conduce per i vialetti del villaggio turistico, nell’ombra più fitta della pineta, quel luogo per noi non ha senso: è un intrico qualunque di strade. Nell’arco della settimana seguente daremo a ognuna di quelle strade, a quegli svincoli e a quegli incroci tutto un repertorio di significati personali – il bar dove facciamo l’aperitivo la sera, la piscina dove andiamo a nuotare appena svegli, la pineta che ci tiene al fresco nelle ore calde del pomeriggio – capaci di trasformare quel luogo qualsiasi nel nostro «mondo», per quanto provvisorio.

Tuttavia gli esseri umani non vedono il mondo nella sua interezza ma solo negli elementi che gli forniscono un senso: nel nostro esempio a costituire il mondo della vacanza sono il bar, la piscina e la pineta. La nostra mente seleziona alcuni elementi per «costruire» un mondo più o meno nello stesso modo in cui un bambino per disegnare un paesaggio seleziona alcuni elementi base (le colline, le nuvole, il sole e l’immancabile casa). Solo in rari momenti, dice Heidegger, il mondo si «schiude» completamente allo sguardo umano, perdendo all’improvviso i propri connotati familiari. Il mondo che abbiamo costruito ritorna a essere quello che era originariamente, un panorama alieno: in altre parole si demondifica. Questi momenti in cui la visione si fa più ampia e profonda corrispondono alla dimensione dell’angoscia, quella paura senza oggetto nella quale vacilliamo e arriviamo a un passo dall’essere perduti ma nella quale, anche, ci viene offerta la rara opportunità di trovare una dimensione più autentica dell’esistenza.

In quanto terremoto ontologico, la demondificazione ha molto a che vedere con il weird. La letteratura dello strano ha sempre proliferato negli interstizi che si creano nel momento in cui il mondo comincia a diventare un non-mondo. I salici, la novella di Algernon Blackwood del 1907 che Lovecraft considerava il miglior racconto soprannaturale mai scritto, deve il suo carattere inquietante proprio alla capacità di narrare questa soglia. Nel racconto due amici risalgono il Danubio in canoa e vengono a contatto con forze misteriose incarnate dal paesaggio naturale che circonda il grande fiume, e in particolare dalle masse scure dei salici. Dissezionandone il meccanismo narrativo, Thomas Ligotti ha mostrato come l’inquietudine sgorghi dal paesaggio senza che niente davvero accada nel corso della storia: a spaventare è l’estraneità dei salici, la loro profonda, aliena alterità. Nulla capita nel mondo del racconto se non che progressivamente questo si demondifica.

Quello della demondificazione è un dispositivo centrale in tutta l’opera di Philip K. Dick, uno gnostico convinto che il mondo sensibile non sia altro che una mera rappresentazione sotto la quale si nasconde una realtà «altra» più autentica. Mark Fisher parla di demondificazione in Dick in relazione a Tempo fuor di sesto, ma il tema è radicato nella biografia dello scrittore (Emmanuel Carrère racconta come Dick avesse «capito» di trovarsi prigioniero di un’illusione quando si era accorto che l’interruttore a corda della luce in cucina era scomparso) e ritorna in quasi tutti i suoi romanzi: in Ubik il mondo si decompone se non viene trattato con lo spray miracoloso che dà il titolo al libro, e comunque non è un vero mondo ma la mente di Glen Runciter; nelle Tre stimmate di Palmer Eldritch Eldritch viene adorato come un dio all’interno del mondo immaginato dai consumatori della droga Can-D; la realtà storica della Svastica sul sole, nella quale l’Asse ha vinto la guerra mondiale e San Francisco è sotto il controllo giapponese, non è nient’altro che un’illusione. La demondificazione in Dick avviene spesso sotto forma di episodi psicotici che, lungi dall’essere momenti di follia, mostrano (heideggerianamente) la realtà più autentica, come accade in Noi mar­ziani in cui il protagonista Jack Bohlen osserva il proprio capo e vede «lo scheletro attraverso la pelle dell’uomo. Lo tenevano legato insieme; le ossa erano unite tra loro da sottili fili di rame». Alla fine della sua allucinazione Jack capisce che «forse, un tempo, in passato, quell’uomo era vivo e reale, ma ora non più», e che «niente aveva vita; era in una stanza totalmente meccanica». La demondificazione si è compiuta.

Anche i mondi di un altro gnostico, David Lynch, sono sempre in procinto di diventare non-mondi. Il male che si nasconde sotto la cittadina di Twin Peaks decompone il tessuto della realtà e fa precipitare un intero universo rassicurante nell’orrore e nell’allucinazione, ma lo stesso capita in tutti i maggiori film del regista, che mescolano scene di banale quotidianità con vertiginose discese nell’inconscio. In Lynch, inoltre, proprio come in Tempo fuor di sesto di Dick (nel quale il perfetto suburbio americano in cui vive Ragle Gumm non è altro che il fondale di un ambiente fittizio costruito per scopi militari), è ricorrente il discorso sul carattere «artefatto» dell’idea di mondo. I mondi di Lynch sono sempre costruiti da figure demiurgiche (il Fuochista della terza stagione di Twin Peaks, Marietta in Cuore selvaggio) che hanno il potere di alterarli o distruggerli: in una delle scene più iconiche di Mulholland Drive, Rebekah del Rio sviene sul palco del Club Silencio ma la canzone ultrasentimentale che sta cantando continua. Il mondo costruito dalla cantante era fittizio, ma abbastanza credibile da commuovere Diane e Camilla fino alle lacrime.

L’illusione di trovarsi di fronte a un mondo può dipendere anche da fenomeni quali la prospettiva e la scala, come dimostra l’esempio dei diorami. Ho sempre amato i diorami, e quando ero bambino mi facevo portare regolarmente al Museo di storia naturale di Milano per vedere tigri immortalate nell’atto di balzare addosso a un cervo in una foresta innevata (gli occhi del cervo erano spalancati in una perfetta imitazione del terrore) e orsi grizzly con i salmoni tra i denti, l’acqua del fiume in apparente movimento e un gabbiano che plana vicino alle rocce come sospeso nel nulla. Ad affascinarmi dei diorami era la immersività – quando mai sarei stato tanto vicino a un orso o a una tigre nella vita vera? – ma anche l’illusione che costruivano: quando mi avvicinavo abbastanza alla teca di vetro potevo pensare di essere parte di quel mondo, nella foresta innevata e sulle rive di quel fiume in Canada o in Alaska. Ma bastava allontanarmi di qualche passo perché il mio sguardo comprendesse le cornici della teca, le luci del soffitto si riflettessero sul vetro e un universo più ampio – la sala del Museo, gli altri avventori, Milano – tornasse a esistere, smascherando la finzione prodotta dal diorama. Anni dopo avrei scoperto che il fotografo giapponese Hiroshi Sugimoto aveva sfruttato la stessa idea nella serie Dioramas, scatti in bianco e nero che fotografano diorami escludendo le cornici, in modo da fornire un’apparenza di naturalezza. Come capita in altre illusioni ottiche (gli occhiali 3d o il triangolo di Kanizsa) un mondo può talvolta essere demondificato a piacimento.