Accelerazionismo incondizionato!

Il tardo capitalismo ha prodotto una realtà troppo complessa per essere governata dall’uomo. Per comprendere l’accelerazione bisogna quindi accettarla: e da lì, ripartire all’insegna del «Fa’ ciò che vuoi»

Pubblichiamo un estratto da How to Accelerate. Introduzione all’accelerazionismo, il libro di Tiziano Cancelli da poco uscito per Tlon, ringraziando autore e editore per la disponibilità.

Nato grazie alla costante elaborazione collettiva permessa da internet, principalmente su blog, forum e social network, l’accelerazionismo incondizionato [U/acc, Unconditional Accelerationism, ndr] è riuscito negli anni a ritagliarsi uno spazio non indifferente all’interno del dibattito accelerazionista, anche e soprattutto in risposta alla crescente polarizzazione fra le correnti di destra e di sinistra.

L’U/acc sostiene innanzitutto la necessità di non appiattire il movimento dell’accelerazione all’interno della sfera politica. Infatti entrambe le correnti, sia a destra che a sinistra, hanno nell’ottica dell’accelerazionismo incondizionato la responsabilità di aver dimenticato la vera essenza dell’accelerazione emersa con l’esperienza della CCRU: da un lato hanno ceduto alla volontà di «pilotare» l’accelerazione, rendendola niente più che una colorata variante di un socialismo ipertecnologico; dall’altro di averla oggettificata e identificata a tal punto con il capitale da dimenticare la sua irriducibilità profonda rispetto a ogni categoria dell’umano. Nelle parole del blogger Xenogothic, fra i più attivi nella diffusione e nell’approfondimento delle tematiche accelerazioniste:

«Da quando Deleuze e Guattari hanno sottolineato la necessità di accelerare il processo di deterritorializzaione, piuttosto che ritirarsi da esso, abbiamo forse assegnato troppa importanza al ruolo dell’umano in questo “noi”, come se la propulsione teleologica di questo processo fosse aperta ai condizionamenti dettati da un “noi”; come se il tempo stesso fosse suscettibile al nostro volere. Dobbiamo concepire noi stessi come all’interno profondo delle cose per poter riconoscere pienamente il flusso che passa attraverso, con e intorno a noi. Il nostro compito è solo di rendere noi stessi degni del processo. In questo modo, c’è una considerazione dell’evento dell’accelerazione piuttosto che la considerazione dell’accelerazione come oggetto di studi. La prevalenza di una tendenza verso quest’ultima ha non di meno preso piede, creando la divisione degli accelerazionismi in una dicotomia di ismi nello spettro politico della destra e della sinistra.»

Nel tentativo di «condizionare» l’accelerazione verrebbe quindi meno la sua peculiarità, quel rapporto con l’Altrove profondamente indisponibile e inafferrabile messo in luce originariamente dal lavoro della CCRU. Tentare di orientare l’accelerazione sarebbe, sotto questo punto di vista, un contravvenire alla sua natura più propria, riportando l’intero discorso alle gabbie e ai limiti del ragionamento antropocentrico.

L’accento è posto in particolare sul ruolo dell’agire umano: la vera sfida posta dall’accelerazione è quella che richiede all’umanità di vivere nel mezzo del caos, di abitare lo spazio fluido degli eventi e di lasciarsi contaminare da quell’Altrove senza pretenderne il comando, ma partecipando attivamente al suo dispiegamento.

Ancora una volta, l’influenza della filosofia di Deleuze e Guattari (e anche quella di Nietzsche con il suo amor fati) fa sentire la sua influenza sul tema: nell’U/acc è presente una «chiamata» verso un cammino rivoluzionario che sappia fare a meno dell’ego antropocentrico, verso un’accelerazione che accade già nel profondo nucleo delle cose, in maniera del tutto impersonale e incondizionata.

L’accelerazione infatti, nella sua forma originaria, scorre già al cuore di ogni cosa; il compito che spetta all’umanità è quello di captare e intercettare quella forza primigenia, predisponendosi ad accoglierla. Ancora Xenogothic: «L’U/acc sostiene che quello che è aperto per “noi” è solo la possibilità, come scrive Deleuze in Logica del senso, di “divenire quasi-causa di quello che è prodotto dentro di noi”. Rimane molto dell’evento a essere comunque prodotto al di fuori di noi, in ogni caso. Quello che siamo in grado di produrre è “superfici e linee nelle quali l’evento si riflette”».

Comprendere il tardo capitalismo è per l’accelerazionismo incondizionato comprendere la nuova natura del reale nel suo insieme, una natura che non vede più l’uomo al centro del mondo.

Questo punto del discorso conduce automaticamente alla domanda: com’è possibile accogliere concretamente l’accelerazione, predisporsi a questa comunione con essa evitando allo stesso tempo la sua oggettificazione? Come è possibile abitare quella neutralità pur rimanendo fedeli all’accelerazione? In altre parole, come si relaziona l’accelerazionismo incondizionato al tema della prassi umana?

Quello che l’U/acc propone in risposta a queste domande è una prassi alternativa capace di comprendere il capitalismo nella sua totalità e nella sua profonda irriducibilità all’agire umano, recuperando in questo modo la sua originaria spinta antiumanistica. Comprendere il tardo capitalismo è per l’accelerazionismo incondizionato comprendere la nuova natura del reale nel suo insieme, una natura che non vede più l’uomo al centro del mondo, ma come prodotto di un’ambiente tendenzialmente inconoscibile, frutto di una complessità che lo eccede costantemente. Che l’agire umano venga elevato a misura del mondo è per l’U/acc concettualmente intollerabile, difatti è proprio contro questa visione che l’accelerazionismo definisce se stesso come «antiumano», ed è contro questa fondamentale sovversione della questione della prassi che esso si offre come «antiprassi». Questo può difficilmente voler dire «non fare niente»: infatti, vorrebbe dire non solo tornare alla fondamentale questione della prassi, ma offrire anche la più tediosa delle risposte. L’accelerazionismo incondizionato, invece, fa riferimento a quelle mostruose e complesse manifestazioni che soggiacciono al processo di accumulazione capitalistica e che costituiscono la struttura, o forse l’assenza di struttura, della realtà stessa, mostrando la chiara ininfluenza di un processo unidecisionale umano. Scrive Edmund Berger: «Noi “lanciamo la sfida alle stelle”, ma nel loro silenzio, quando le vediamo pienamente, le stelle ci restituiscono solo un disprezzo schiacciante. Alla questione “cosa va fatto”, allora, c’è una sola risposta legittima, “fai ciò che vuoi” – e “lascia andare”.»

L’antiprassi è dunque la risposta dell’accelerazionismo alla domanda sul «che fare?». Comprenderla vuol dire comprendere il ruolo che l’essere umano è chiamato a interpretare, un ruolo importante ma in alcun modo di comando. Il «fai ciò che vuoi», legge primaria della Chaos Magick di Aleister Crowley, sembra qui incontrare l’ultimo Heidegger della Gelassenheit (l’abbandono): una sorta di fatalismo che non impedisce l’agire concreto, ma sottrae all’essere umano il potere di orientare a suo piacimento lo scorrere degli eventi che continuano invece a fluire liberi alla radice delle cose. La libertà che l’antiprassi permette è quella di un’opposizione concettuale che sottolinei l’impossibilità di pilotare la dimensione trascendentale dell’accelerazione; solo attraverso questa consapevolezza e questo ridimensionamento è infatti possibile lasciar emergere quell’incodizionabilità al cuore di ogni evento del reale.

Questa libertà derivata dalla caduta dell’Umano dal suo trono al centro dell’universo ha a ben vedere un duplice effetto: da un lato permette una ricomprensione della contemporaneità finalmente libera di esprimersi in tutta la sua complessità e inappropriabilità; dall’altra gli permette di agire libero dal peso del comando, permettendogli di ricercare una complicità e un’intesa nuova con la realtà che lo circonda, non più condizionata dal fardello dell’antropocentrismo.

In sostanza, l’antiprassi è per l’accelerazionismo incondizionato sia un’affermazione di volontà («fai ciò che vuoi») che un’abdicazione («lascia andare») con cui è possibile ritrovare una dimensione autenticamente libera. Le macerie nel mezzo delle quali ci si trova a vivere dopo aver raggiunto questo grado di consapevolezza devono esser viste come un terreno fertile sul quale ricostruire una libertà finalmente scevra da ogni processo teleologico e unidirezionale. Ancora una volta riecheggia la volontà nietzschiana di fare un passo al di là del bene e del male; la ricerca del senso diviene dal punto di vista dell’U/acc una ricerca consapevole del fatto che ogni punto d’arrivo non è mai presente unicamente per l’uomo, bensì risponde a delle logiche da cui l’uomo è sostanzialmente escluso.

L’atteggiamento di fondo derivante da una tale consapevolezza è quello di chi rifiuta le soluzioni facili, ma non solo, è ancor di più quello di chi rifiuta in questo modo ogni sorta di appello a una fantomatica azione etico/collettiva orientata verso un improbabile quanto impossibile «salvataggio» del mondo da se stesso. Il mondo non può essere salvato da se stesso, perché le sue ragioni, e in generale quelle dell’universo, sono infinitamente più profonde e inconoscibili di quanto l’umanità sia in grado di credere; l’accelerazione è dunque unicamente un’espressione di una forza trascendente verso la quale, come nella migliore delle teologie negative, non rimane che il silenzio. Appare evidente come la pretesa di «salvare il mondo» (accelerazionismo di sinistra) o di «imprimergli un nuovo ordine» (accelerazionismo di destra) rappresentino agli occhi dell’accelerazionismo incondizionato il medesimo atto di hỳbris, rispetto al quale la vera accelerazione non può che prendere le distanze. Indagare ed esplorare questa distanza è l’unico modo per prendere posizione, non all’esterno ma all’interno delle cose, degli eventi e nella complessità della vita stessa.

Vale la pena ribadire ancora una volta il concetto espresso chiaramente da Vincent Garton: quando si parla di antiprassi in questo contesto non si intende la paralisi dell’azione umana, bensì una diversa modalità d’approccio al problema dell’agire umano rispetto al mondo che lo circonda. Più specificatamente, il rifiuto dell’U/acc si condensa intorno al rifiuto della «collettività» intesa come forza in grado di controllare, orientare il profondo e incommensurabile determinarsi degli eventi all’interno del piano del reale.

L’attenzione posta dall’accelerazionismo incondizionato sul tema delle forme d’intervento politico, sia di destra che di sinistra, riguarda la sostanziale incapacità delle stesse di contenere delle forze caotiche necessariamente destinate a straripare e a inondare il piano del reale. Se c’è una cosa che l’accelerazionismo in tutte le sue elaborazioni è riuscito a capire è che qualunque sia il nome che l’essere umano tenta di imprimere sull’originalità selvaggia di queste forze – Cattedrale, capitalismo, Leviatano e via dicendo – non potrà fermare né tantomeno rallentare la terribile (ma a tratti liberante) avanzata di questo mostro senza nome. L’accelerazione quindi diviene simile a una filosofia della natura di stampo ottocentesco: una considerazione intorno a una forza primaria, che fluisce liberamente in noi e al di fuori di noi, sulla quale non è possibile stabilire un dominio, ma unicamente predisporsi alla comprensione della stessa e del ruolo dell’umano all’interno di logiche a lui estranee e spesso indifferenti. La collettività avversata dal ragionamento U/acc non è quella della condivisione tout court, ma quella che pretende di usare la forma collettiva allo scopo di imprigionare le forze in gioco nella complessità del reale, una sorta di delirio psicotico derivato da una mania del controllo narcisistica portata alle sue estreme conseguenze. 

Una volta compreso questo limite invalicabile anche per il progresso tecnologico, oggetto di una costante idealizzazione da ambo i lati della sfera politica, il mondo che il pensiero dell’accelerazionismo incondizionato dischiude è un mondo finalmente libero, ma soprattutto ricco di possibilità di esplorazione e di comprensione, esattamente come doveva essere stato pensato all’origine dell’accelerazione: «Accelerare il processo, lanciare se stessi nel flusso, lasciarci alle spalle l’impossibile spettro dell’azione collettiva. Questa grandezza dell’anti-prassi apre lo spazio per esaminare forme di prassi in grado di rompere con la zavorra del passato. No more reterritorializzing reaction, no more retroprogressivism