“È oscuro ed è deprimente e ti fa il culo, ma al di sotto c’era come una specie di bellezza”. Sei anni fa è comparso su YouTube un video intitolato “Dark Souls Saved Me”. Nel video, un ragazzo rannicchiato nel letto sotto una copertina di lana nella sua cameretta descrive in modo stranamente intimo il suo primo incontro con il videogioco dark fantasy alcuni anni prima. “All’epoca ero super depresso e non avevo una direzione e tutti i miei amici erano all’università e a malapena guadagnavo quattro soldi”, racconta il ragazzo. “Per quanto possa sembrare stupido, Dark Souls mi ha fatto sentire come se avessi uno scopo”. Questo video è solo una tra le molte testimonianze disseminate tra YouTube e Reddit di come l’incontro con il mondo crepuscolare e opprimente di Dark Souls abbia aiutato le persone a superare momenti di crisi personale, depressione e lutto. Anche a noi è successo qualcosa di simile quando l’abbiamo incontrato per la prima volta. La lenta e inevitabile agonia del mondo del videogioco ci ha trasmesso una sensazione di conforto che non riuscivamo a comprendere fino in fondo.
Dark Souls è famoso per essere uno dei videogiochi più inclementi di sempre, e parte di questa crudeltà deriva dalla freddezza con cui il giocatore è privato di qualsiasi indicazione chiara sulla meccanica del gioco, sulla sua missione, o su come portarla a termine. Svegliandosi in una cella umida e infestata dai ratti, spoglio di ogni arma e in un corpo cadaverico che è solo un’ombra dell’immagine costruita pochi momenti prima nel character creator screen, si è immediatamente colpiti dalla realizzazione di essere soli: di essere gli unici, o quasi, con un barlume di umanità rimasta, e forse non ancora per molto. Abbandonati in mezzo a una mappa labirintica e immensa, senza nessuna indicazione su quale direzione prendere salvo le parole indecifrabili di un NPC sarcastico e sfiduciato, come mai sarà possibile portare a termine un compito di cui non si riesce neanche a capire il senso?
un mondo terminale che sembra avvicinarsi lentamente alla fine ma senza concederci la clemenza di una vera e propria apocalisse
Il percorso di Dark Souls è una spirale discendente: insieme all’universo del gioco, anche il tempo e lo spazio sembrano lentamente sfaldarsi. I piccoli fuochi da campo sparsi attraverso la mappa – gli unici luoghi di riposo tra una morte e l’altra – condannano il giocatore a ripetere le stesse battaglie all’infinito. Spesso per procedere nel gioco si ritorna indietro, allo stesso punto da cui si era partiti molto tempo prima, solo per accorgersi che i personaggi incontrati lungo la strada stanno uno ad uno perdendo la ragione. Forse il motivo per cui un videogioco come Dark Souls è stato un percorso terapeutico per così tante persone è proprio la sua capacità di riflettere, in un modo del tutto inattuale, la condizione esistenziale contemporanea. Il gioco rievoca la sensazione di smarrimento individuale in un mondo che si fa contemporaneamente sempre più intricato e sempre più oscuro: un mondo terminale che sembra avvicinarsi lentamente alla fine ma senza concederci la clemenza di una vera e propria apocalisse.
Secondo la mitologia dell’Antico Egitto, Apep – divinità serpente associata all’oscurità e al caos – cerca costantemente di divorare il sole; se mai dovesse riuscirci, il tempo finirebbe senza però davvero scomparire. Oggi forse viviamo in un’epoca simile: gli spettri del passato infestano il presente e viceversa, producendo un mondo non-lineare dai contorni indecifrabili. Da circa un decennio siamo ossessionati dall’immagine di un nuovo Medioevo, da una nuova, incombente era oscura. Pensiamo di vederla nell’apparente neo-feudelesimo della Silicon Valley o nel simbolismo occulto dell’alt-right, ma ogni tentativo di definire o controllare l’esito di una modernità ormai pienamente dispiegata – e consumata – è destinato a tramutarsi in uno sguardo falso e paranoico. Oggi, davanti all’orrore della guerra genocida di Israele in Medio Oriente, è impossibile non pensare che forse il nuovo Medioevo nasconderà qualcosa di ben più spaventoso di un impero mondiale guidato dagli Elon Musk del settore tecnologico o dai complotti di una nuova destra esoterica. Come sostiene Mattia Salvia, per capire che faccia avrà il nuovo Medioevo bisognerà piuttosto guardare agli angoli di mondo in cui la democrazia liberale capitalista è già collassata, o si è fusa con forme premoderne di sovranità.
Eppure esiste una radicalità dirompente che può nascere soltanto nell’incertezza delle epoche di transizione. Attraverso le vite di santi come Smaragdo, Eugenia e Maria d’Egitto, Angelica Turba ci guida nella dimenticata tradizione transessuale dell’agiografia cristiana medievale, dove, tra top surgery miracolose e crossdressing monastico, si delinea una santità così queer e anarchica da essere una vera e propria anti-identità: un esempio di vita inassimilabile e sovversiva. Il passato, invece che essere un bacino da cui attingere valori reazionari, svela così prospettive sorprendenti e trasformative. Invocando potenze ancestrali come l’indomabile dea Inanna, gli spiriti in transizione della tradizione mestiza e le divinità queer del Voudou, il gruppo Ippolita ripensa dunque la nostra idea di attivismo rivendicando un nuovo materialismo magico in grado di destabilizzare i confini del potere. Zoë de Luca Legge rievoca le pratiche erboristiche e psichedeliche delle nostre antenate streghe, sante e scienziate per risvegliare la magia perduta dei nostri corpi. Mentre nel loro dialogo Silvia Federici e K-assandra esplorano la possibilità di reincantare il mondo, sottraendoci alla guerra psichica tra le tenebre del neo-oscurantismo e le false promesse del tecno-illuminismo.
In Dark Souls, uno dei pochi momenti di tregua dallo smarrimento è rappresentato dai fuochi da campo: checkpoint in cui riposare e da cui ripartire ogni volta che veniamo uccisi. Il senso di sollievo di questi luoghi, misto all’inquietudine di una ripetizione incessante, ha qualcosa di così vicino alla nostra esperienza esistenziale che è diventato non a caso uno dei meme più celebri di questi anni. Come scrive Thomas Ligotti nel racconto La Medusa, “possiamo sfuggire all’orrore soltanto nel cuore dell’orrore”. Al punto da poterne ridere, memarlo e risignificarlo, aggiungiamo noi. Forse, sostiene Chiara Franchi, i medievali lo sapevano già. Scrollando la sua ricerca iconografica, riconosciamo all’improvviso il Medioevo come un’epoca più edgy e post-ironica della nostra: i confini tra pagina memetica e marginalia si confondono, Ildegarda era già brat prima delle nostre brat summer, i conigli non sono quello che sembrano, e alla gente sembra non fregare nulla di morire nei modi più cruenti.
Il nostro tempo si attorciglia su sé stesso come le spire di un serpente; in questa spirale il futuro collassa nel passato producendo strane connessioni. Forse, racconta Mariabruna Fabrizi, frati domenicani e monaci benedettini avevano già immaginato il cyberspazio di William Gibson, con le loro arti della memoria e i loro palazzi mentali; i loro viaggi intellettuali ci aiutano a immaginare le architetture possibili dell’Internet del futuro. Dal passato e da dimensioni invisibili, del resto, a volte ci arrivano messaggi da interpretare. Toni Cutrone – attraverso alcune trance medianiche di sua madre trascritte e arrangiate in tracce sonore – ci apre le porte di realtà invisibili, in un viaggio personale dove gli Spiriti possono costituire un pericolo oppure guidarci fuori da un tempo prossimo al collasso.
“Dark Souls mi ha dato un qualche senso di controllo sulla mia vita”, bisbiglia il ragazzo su YouTube da sotto la sua copertina. “Era come un’esperienza religiosa. Ho pensato che se qualcosa del genere può esistere in questo mondo… questo è il mondo in cui voglio vivere”. Nel gioco si è portatori di una speranza inutile: la possibilità di sacrificare sé stessi per permettere al fuoco dell’umanità e della ragione di bruciare ancora per poco, sapendo che, qualsiasi decisione prenderemo, la fine sarà ugualmente inevitabile. Che cosa sceglieremo di fare? Nel frattempo riposiamo ancora una volta vicino al nostro fuoco da campo, prima di tornare a camminare nel buio di questa Era Oscura.
“La luce diurna e razionalista della storia moderna si va spegnendo, il suo astro declina, avanza il crepuscolo, e ci avviciniamo alla notte”. Così scriveva il filosofo russo Nikolaj Berdjaev, cristiano e anticomunista, nel 1923, in un’opera intitolata Nuovo Medioevo. Nella prospettiva misticheggiante di Berdjaev la modernità era un progetto fallito, che aveva esaurito la sua spinta propulsiva, perché nel momento in cui aveva inteso liberare l’uomo dall’ambito spirituale si era tolta il terreno da sotto i piedi. In realtà, col senno di poi, la modernità è andata avanti ancora per un bel po’. Ma oggi – un secolo esatto dopo le parole di Berdjaev – le suggestioni sul “nuovo Medioevo” sono tornate d’attualità. Lo scrittore e artista James Bridle le ha popolarizzate nel suo saggio Nuova era oscura, sottolineando le conseguenze impreviste della rivoluzione digitale.
“La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Questa celebre frase di Gramsci sull’interregno è ormai diventata senso comune. Pensatori di diverse estrazioni cominciano a riflettere su cosa verrà dopo la crisi sistemica in cui il capitalismo sembra al momento incagliato. Lo storico inglese Eric J. Hobsbawm è stato uno dei primi, constatando alla fine del suo Il secolo breve come il XX secolo fosse avviato a concludersi “in un disordine mondiale di natura poco chiara e senza che ci sia un meccanismo ovvio per porvi fine o per tenerlo sotto controllo”. Nel 2009 l’economista Giovanni Arrighi ipotizzava per il futuro prossimo “un ritorno stabile al caos sistemico dal quale [il capitalismo] ebbe origine seicento anni fa”. E più di recente, il sociologo e economista tedesco Wolfgang Streeck ha profetizzato che la crisi del capitalismo produrrà “una transizione lunga e incerta, un tempo di crisi vissuto come nuova normalità” che offrirà “ricche opportunità a oligarchi e signori della guerra, mentre impone incertezza e insicurezza a tutti gli altri, in qualche modo come il lungo interregno che iniziò nel V secolo d.C. e che viene oggi chiamato Età oscura o Medioevo”.
È più di un secolo, dunque, che continuiamo a essere ossessionati dal Medioevo, a vedere il Medioevo come una sorta di doppio oscuro della società in cui viviamo. Per il pensiero tradizionalista, il Medioevo è un paradiso perduto; per il pensiero progressista è in incubo potenziale, un buco nero da cui la società moderna è emersa e in cui rischia costantemente di ricadere. Ma anche il modo in cui ne siamo ossessionati cambia a seconda dei momenti storici: quando ne scriveva Berdjaev la suggestione di un nuovo Medioevo che fosse dietro l’angolo era una malattia infantile, quando ne scriviamo oggi è un disturbo senile.
A differenza degli anni Venti e Trenta del Novecento, negli anni Venti e Trenta del Duemila la modernità è pienamente dispiegata. Cento anni fa la suggestione del Medioevo era uno dei poli del famoso motto luxemburgiano “socialismo o barbarie”: o il pieno dispiegamento della società moderna e il superamento delle sue contraddizioni interne per arrivare a una forma sociale superiore, oppure la ricaduta nel buio della pre-modernità. Il Medioevo era dunque uno spauracchio che ci invitava all’azione per indirizzare sui giusti binari un processo storico. Oggi è sempre più chiaro che il crollo del socialismo ha rappresentato anche una ridefinizione della modernità novecentesca. Come dimostra l’incapacità di azione della sinistra socialista da trent’anni ad oggi, non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume. Se non possiamo più avere il socialismo, il pensiero di un nuovo Medioevo diventa qualcosa che contempliamo con terrore, un orrore inevitabile che ci aspetta.
La modernità sembra davvero, come scriveva Berdjaev, aver esaurito la sua spinta propulsiva senza essere riuscita a fare il salto evolutivo che l’avrebbe portata a un livello superiore – e il postmodernismo è lì a dimostrarlo. Invischiati in una logica culturale fatta di corsi e ricorsi storici che si avvitano su loro stessi, l’incapacità di immaginare un futuro è tale che anche le più semplici manifestazioni di progresso provenienti da luoghi che per una semplice questione di sviluppo ineguale combinato stanno vivendo ora ciò che l’Occidente ha vissuto nel XX secolo ci sembrano venire dal futuro. I turisti e gli youtuber occidentali affascinati dagli skyline e dalle luci delle città cinesi pensano di star vedendo Cyberpunk 2077, ma stanno invece vedendo i nostri anni ‘50.
A riportare indietro le lancette della storia e resuscitare l’ancien régime non saranno i miliardari di Facebook e Google, ma i signori della guerra e i proprietari terrieri
È questo il punto centrale: non si tratta di fare paragoni tra l’età presente e il Medioevo, ma di vedere il Medioevo come un antesignano di ciò che sta al termine dell’età presente. Certo, la personalizzazione crescente della politica ricorda l’epoca delle dinastie e dei nobili, i colossi tecnologici che dominano l’economia globale rimandano a una concezione feudale dei rapporti di forza, le grandi istituzioni sovranazionali sono paragonabili a papato e impero, la diffusione dell’inglese come lingua franca fa pensare al latino medievale, le teorie del complotto che oggi vediamo ovunque sono intrise dello stesso millenarismo di quelli che chiamiamo “secoli bui”, la proliferazione delle “zone economiche speciali” con ordinamenti giuridici ed economici particolari ricordano la frammentazione della sovranità in spazi come il Sacro Romano Impero. Eppure sono paragoni imperfetti o fuorvianti: le dinastie politiche ci sono sempre state, sono il prodotto della democrazia in contesto di organizzazione sociale borghese; i colossi tecnologici sono comunque imprese capitaliste; le “zone economiche speciali” sono create dagli stati, sono dunque il prodotto di un esercizio di sovranità. Tutte queste cose non sono segni di un nuovo Medioevo; se mai, sono possibili proprio perché non siamo ricaduti in un nuovo Medioevo.
Nel momento storico che stiamo vivendo, la modernità è effettivamente invischiata in una serie di contraddizioni – che riguardano tutte il suo modo di produzione, il capitalismo. Come ha scritto Arrighi ormai vent’anni fa, il capitalismo ha raggiunto per l’ennesima volta i suoi limiti, e se in passato è riuscito a spingerli in un po’ in là e posticipare la sua crisi tramite l’espansione geografica – quella che il geografo David Harvey chiama “spatial fix” – stavolta il meccanismo sembra essersi inceppato per la natura finita dello spazio sul pianeta. Nei suoi cicli di accumulazione, il centro del sistema capitalista è passato dall’essere una città stato all’essere un principato (le Province Unite), poi uno stato (la Gran Bretagna), poi un continente (gli Stati Uniti). L’ultima volta che il sistema si è trovato a far i conti con i suoi limiti, negli anni Settanta, ha risolto temporaneamente la questione integrando la Cina nell’economia globale, ma ogni nuova integrazione aumenta la competizione interna al sistema rendendo meno efficace la cura, e in più nell’attuale epoca di transizione non esiste un’unità politica più grande che possa farsi centro di una nuova accumulazione.
Oltre a questa contraddizione geografica, c’è quella relativa alle risorse e alla distruzione ambientale, anche quella ormai arrivata al suo limite: come hanno notato molti osservatori – su tutti lo scrittore William T. Vollmann nel suo Carbon Ideologies nel 2018 – non possiamo avere gli standard di vita della modernità senza distruggere completamente il pianeta in cui abitiamo, e non possiamo limitare i danni al pianeta senza rinunciare completamente agli standard di vita della modernità. Non è una questione di evocare un futuro alla Mad Max, è una questione – come ha sostenuto l’economista cinese Li Minqi, che li ha fatti per la Cina – di noiosi calcoli sulla percentuale di riduzione delle emissioni del nuovo stock di beni capitali, la percentuale di nuovo stock installato ogni anno, e la crescita del consumo energetico annuale.
Finché abbiamo il tempo di scrivere e di leggere libri sul tecnofeudalesimo – come Tecnofeudalism dell’ex ministro dell’Economia greco Yanis Varoufakis – è un segnale che il nuovo Medioevo non è ancora qui. Per capire che faccia avrà il nuovo Medioevo non bisogna guardare agli oligarchi del settore tecnologico – che non sono certo dei signori feudali, ma dei capitalisti non diversi dagli oligarchi di qualsiasi altro settore – ma agli angoli di mondo in cui il sistema capitalista moderno è già collassato o si fonde con forme premoderne di sovranità creando territori ibridi. Non è un caso che i più grandi fan contemporanei del Medioevo come ideale di sistema economico, gli anarcocapitalisti e i libertarian, guardino a questi esempi: dietro la dicotomia apparente mercato-stato sta in realtà un rigetto del tratto migliore della modernità, l’universalismo. Non sono fondamentalisti del mercato, perché non hanno problemi a detenere rendite di posizione; non sono nemici dello stato, perché non hanno problemi a occuparlo e usarlo per i loro scopi: sono se mai difensori del particolarismo contro l’universalismo, di cui rifiutano l’implicita apertura all’inclusione delle classi subalterne. Siamo ancora (o stiamo tornando) alle Riflessioni sulla rivoluzione francese di Edmund Burke.
Uno di questi esempi è la Somalia degli anni Novanta, collassata nella guerra civile dopo la fine della dittatura di Siad Barre, con lo stato che era quasi scomparso in favore di forme di controllo del territorio basate su unità familiari e di clan, e la legge moderna sostituita dal diritto consuetudinario locale. Michael Van Notte, avvocato olandese fondatore di una serie di think tank libertarian, la vedeva come una forma embrionale di economia senza stato, il sogno di ogni neoliberista conseguente; in realtà era solo capitalismo tribale. Oppure luoghi come Dubai – ma si potrebbe dire anche le campagne agricole del centro-sud Italia – dove il capitalismo è gestito da un’élite di sangue, con una classe media comprata e una sottoclasse di manodopera servile importata dall’estero, segregata e privata di diritti. A riportare indietro le lancette della storia e resuscitare l’ancien régime non saranno i miliardari di Facebook e Google, ma i signori della guerra e i proprietari terrieri.
Il capitalismo è stato a suo tempo un sistema economico enormemente progressista e la borghesia è stata una classe sociale enormemente rivoluzionaria. Ha spazzato via tutte le relazioni feudali, cancellato le superstizioni religiose, oggettivato – un’oggettività mediata dal denaro – tutti i rapporti individuali, strappato tutti i veli ideologici che ricoprivano e santificavano la società premoderna. Ha rivoluzionato continuamente le forme e i mezzi di produzione, provocato un’esplosione tecnologica senza precedenti a cui dobbiamo le nostre agiate condizioni di vita attuali, inconcepibili persino per i monarchi premoderni. Almeno in Occidente, dove tutto ciò è ormai una conquista antica, tendiamo a dimenticarci di questo ruolo positivo. Ma ne siamo inconsciamente coscienti, perché è da questa coscienza che viene il nostro timore e la nostra ossessione per il nuovo Medioevo.
Nel periodo di ascesa della modernità, il capitalismo era una macchina che trasformava i piccoli produttori agricoli in proletariato; nel periodo postmoderno (almeno in Occidente) il capitalismo è una macchina che trasforma i proletari in piccoli produttori – possiamo riassumere così la fase di passaggio dal fordismo al postfordismo. Se sembra un ritorno indietro è perché è un ritorno indietro. Il capitalismo sembra aver finito la benzina ed essere arrivato a fine corsa, il socialismo non ne ha raccolto il testimone. L’ultimo scherzo che il capitalismo ci farà, dopo averlo odiato così tanto e così a lungo, è che arriveremo a rimpiangerlo.
Ci piace pensare alla storia delle identità di genere come guidata da un inarrestabile progresso. “Maschio e femmina li creò”, almeno finché, scioltesi le grinfie del patriarcato e della chiesa, le possibilità di vivere queer sarebbero presumibilmente proliferate in aperto affronto alle vecchie sensibilità religiose. Ma è davvero andata così? La crescente diffusione di legislazioni anti-trans a livello globale ed i nuovi assimilazionismi liberali ci fanno dubitare di questa teleologia che legherebbe secolarità e libera espressione di genere in maniera univoca. La dimenticata tradizione transessuale dell’agiografia cristiana medievale ci aiuta ad immaginare mondi diversi. Le vite altomedievali di santi come Smaragdo, Eugenia e Maria d’Egitto ci mostrano altre vie. Top surgery miracolosa, crossdressing monastico, transustanziazione: le loro storie, animate dalla fede religiosa eppure derelitte, gioiosamente sovversive, sono così rivoluzionarie da cambiare la realtà intorno. Siamo sicure che non sia la nostra l’era più oscura?
Le moodboard le abbiamo viste tutte: il medioevo era queer. Quel ritratto di Giovanna d’Arco di fronte a Notre Dame, che poi altro non è che un’incisione del 1903, o la vulva nel costato di Cristo, però, sono forse più visibili per noi sui nostri algoritmi che per una congregazione di mille anni fa. Una viva tradizione di rappresentazioni trans però la riconosciamo nell’agiografia, la scrittura della vita dei santi, forse il genere letterario più popolare dello scorso millennio. Quasi ogni fedele della cristianità avrebbe incontrato, a messa, in preghiera, in latino o nelle lingue vernacolari, storie come queste: giovani fuggitive che diventano abati; pronomi che cambiano in mezzo alla frase; corpi che, al momento del martirio, si alterano, riformando il petto e i genitali; abiti che fanno il monaco; neo-barbe e tonsure spontanee.
Questi atti tra miracolosa trasfigurazione, travestitismo religioso e vera e propria sessualità transgender non sono accessori o accidentali, ma necessari per il raggiungimento della santità stessa
Per Bernardo di Clairvaux, fondatore dell’ordine cistercense, del resto, la preghiera più efficace è quella che force-femma, ossia che femminilizza chi prega; così come, per la pietà tardomedievale, Cristo madre porge al fedele un seno allattante. Insomma, per un’intera schiera di santi – le cui storie di transizione sono, in effetti, più spesso female-to-male o ermafroditiche –, questi atti tra miracolosa trasfigurazione, travestitismo religioso e vera e propria sessualità transgender non sono accessori o accidentali, ma necessari per il raggiungimento della santità stessa.
È quasi un cliché che molte espressioni odierne della fede cristiana condannino attivamente la vita trans anche più veementemente dell’opinione secolare, eppure è nella loro alleanza con forze ben più laiche che oggi le loro vene transfobiche emergono di più. In una recente analisi per n plus one, Kay Gabriel parla di una “nuova, goffa unione” ideologica e politica: quella tra fondamentalisti del mercato libero e nazionalisti cristiani, il cui panico anti-trans ha pervaso gli Stati Uniti a partire dal 2021. Gruppi di estrema destra come Moms for Liberty, del resto, forniscono un modello identitario di sciovinismo solo vagamente “cristiano” di cui la nuova destra italiana, volente o nolente, sembra spesso essere un calco.
In effetti, il mainstream confessionale cattolico si è forse recentemente mostrato meno critico. Questo ha dichiarato il Dicastero per la dottrina della fede nel 2023: che le persone trans possano ricevere il sacramento del battesimo, a meno che non ci sia “rischio di generare pubblico scandalo o disorientamento nei fedeli”; che possano essere padrini o madrine di battesimo qualora non si verificasse “pericolo di scandalo, di indebite legittimazioni o di un disorientamento in ambito educativo della comunità ecclesiale”; che, infine, niente nel diritto canonico vieti loro di essere testimoni di matrimonio. Insomma, le persone trans saranno anche ben accette in chiesa – purché la loro transessualità non “disturbi” la vita comunitaria. Se preferibili alla transfobia esplicita di frange più estreme, il tono di queste ammissioni non esula tanto dal “don’t ask, don’t tell” del premillennio: non è la transessualità ad essere di per sé un ostacolo alla partecipazione nella vita religiosa, ma la sua possibile scandalosa rivelazione. Di fronte alle agiografie transgender della premodernità, tuttavia, viene da chiederselo: è questa la santità proposta dalla chiesa contemporanea? Come si diventa santi nel medioevo? Come si diventa trans?
Se ci accostiamo a san Smaragdo, intravediamo una risposta. Questa la sua vita secondo alcune versioni: nato ad Alessandria d’Egitto nel secondo o terzo secolo e battezzato Eufrosine, la sua infanzia afab (“assigned female at birth”) termina quando il padre ne promette la mano in sposa. Preferendo al matrimonio etero-cis la santità monastica, sceglie la transizione, addirittura spiegandola così a noi e a se stesso: “Se andrò in un monastero femminile, sicuramente mio padre mi troverà.” Ricevuto quindi come novizio presso il monastero maschile, nei successivi decenni Smaragdo vive stealth, da uomo tonacato – tra l’altro suscitando, in alcune redazioni, le attenzioni omoerotiche degli altri monaci. Anni dopo, suo padre non lo riconosce: l’abito ha fatto il monaco e il corpo stesso si è trasformato.
La sua transizione è infatti prima di tutto un rifiuto, una negazione dell’ordine costituito così come si incarna nel matrimonio etero-cis. Questa, del resto, la provocatoria tesi di Andrea Long Chu: che il genere, particolarmente quello femminile, sia sempre, prima di tutto, il luogo di un’avulsione. Nel suo Femmine, infatti, Chu sostiene che “l’essere femmina” sia un sesso universale – a cui quindi partecipiamo in un certo senso tutti, anche gli “uomini” – definito dalla negazione di sé, contro cui ogni politica si ribella. Definendo come femminile ogni processo ed operazione psichica attraverso cui il sé è sacrificato per fare spazio ai desideri altrui, slega la femminilità e quindi il genere stesso dalla sfera dell’identità, ricollocandolo in quella del desiderio, positivo o negativo che sia, e rendendo un’identificazione con esso di fatto impossibile. Insomma: tutti siamo femmine, e tutti lo odiamo.
È proprio così che Smaragdo porta la rivoluzione dentro al monastero. Alla sua morte, infatti, i confratelli lo spogliano della tonaca: sono sorpresi, accorati, ma soprattutto essi stessi beatificati, come trasfigurati
In effetti, questi santi dell’agiografia premoderna sembrano essere, senza saperlo, costruttivisti dell’esperienza di genere: per loro, la transizione è qualcosa che si fa, più che qualcosa che si è. Basti pensare a santa Maria d’Egitto, padre del deserto e ex-prostituta. Quando il monaco Zosima ne scorge il vecchio corpo, la veste di peli di cammello discinta come un Giovanni Battista genderswapped, ogni traccia di femminilità è scomparsa, soppressa da una vita di penitenza, come una miracolosa top surgery – più eremitica che euforica. La sua, infatti, non è una storia di identificazione, ma di abiezione.
In questo, la santità transessuale del primo millennio e le meditazioni queer più radicali del ventunesimo secolo sembrano toccarsi. Lontanissimo da Alessandria d’Egitto, nella Roma imperiale ancora pagana del terzo secolo, sant’Eugenia quasi anticipa Lee Edelman nella sua negazione del “futurismo riproduttivo,” una visione del mondo che valorizza la procreazione futura a scapito della vita presente, riconoscibile ad esempio nelle politiche anti-abortiste contemporanee: che ne sarà dei nostri bambini?
La transizione del santo, infatti, prende inizialmente la forma di un crossdressing fuggitivo, il cui scopo è innanzitutto quello di sottrarsi al matrimonio e quindi alla procreazione. Come Smaragdo ad Alessandria, vive per anni da confratello sotto il nome di Eugenio, passing da monaco cis. Tuttavia, alla fine, cade sotto i ferri della centuria romana e viene arrestato per la sua fede. Il suo processo giudiziario è principalmente un atto finale di clocking — quel riconoscimento involontario, spesso violento, in cui l’apparenza esteriore di una persona trans è letta come non-cis. Come un nuovo Cristo di fronte a Pilato, infatti, egli è inquisito e spogliato. La sua transessualità è così doppiamente rivelata: come crimine efferato agli occhi dei suoi persecutori anti-cristiani e, all’inverso, come segno supremo di santità per il suo biografo medievale. È nella sua sfida all’autorità che il santo diviene santo.
La loro transessualità – illegale ma benedetta – sovverte la realtà intorno, alterandone miracolosamente il carattere
Come spesso accade in queste agiografie, infatti, il gesto della spogliatura è stranamente, inaspettatamente liberatorio. Con una caratteristica dialettica di segreto e rivelazione, in questi testi emerge come una celebrazione della radicalità dell’essere clockable – esplicitamente non-cis, leggibilmente trans. È proprio così che Smaragdo porta la rivoluzione dentro al monastero. Alla sua morte, infatti, i confratelli lo spogliano della tonaca: sono sorpresi, accorati, ma soprattutto essi stessi beatificati, come trasfigurati. Acclamano la santità dell’abate; invocano i favori intercessori di Smaragdo, “uomo di femminilità.” È proprio nella rivelazione della sua sessualità transgender che Smaragdo è santificato: quando, alla fine, è clocked, lo è più come santo che come transessuale; o meglio, lo è come santo perchè transessuale. Questo outing, per quanto forzato, ha infatti un effetto beatifico: una canonizzazione trans per acclamazione, l’innalzamento del chosen name del santo nella litania monastica. É il grande miracolo della spregiudicata scelta iniziale di Smaragdo di vivere da uomo, di essere trans nel monastero: che anche il monastero si trasfiguri in un’assimilazione invertita. Quelle messe in atto da Eugenio, Smaragdo e Maria d’Egitto, infatti, sono vere e proprie tattiche rivoluzionarie. La loro transessualità – illegale ma benedetta – sovverte la realtà intorno, alterandone miracolosamente il carattere. Importa poco della Regola: “Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove.” (2 Cor 5,17).
La storia della transessualità sembra sempre più una linea spezzata. In questo clima di crescente panico anti-trans, mentre la radicalità della queerness stessa è insidiata dall’assorbimento nell’identità liberale, queste figure di santi riemergono da un tempo lontano come straordinari esempi di abiezione, di inassimilabilità: le loro vite beate ed anarchiche ci mostrano una sessualità tanto radicale da essere, in effetti, una vera e propria anti-identità. Del resto, a guardarle bene, queste storie oblique, taglienti, di transustanziazione del corpo e dello spirito, di clocking santificato e segreta visibilità sembrano mostrarci modi diversi di essere trans anche oggi. Perché non intrufolarsi nei monasteri del nostro tempo? Forse è proprio qui, lontanissimo dagli sforzi liberatori del Novecento, in grembo al cristianesimo più scolastico, che possiamo ritrovare espressioni davvero sovversive di vita transgender. Rifiuto rivoluzionario, devozione a un ideale radicale: la transessualità forse è prima di tutto questo. Mettiamo la tonaca e passiamo.
Tra i ricordi più vividi della mia infanzia ci sono alcune serate in cui venivo lasciato solo davanti alla televisione nel soggiorno, mentre gli adulti si chiudevano nella stanza in fondo al corridoio per fare cose loro. Avevo forse cinque o sei anni. Quando la televisione trasmetteva programmi noiosi, la mia curiosità mi spingeva ad alzarmi e avvicinarmi silenziosamente alla porta chiusa di quella stanza, per origliare o sbirciare attraverso il buco della serratura. Ricordo lunghi silenzi, interrotti solo da voci basse, quasi incomprensibili. Attraverso il piccolo foro nella porta, riuscivo a vedere gli adulti seduti intorno a un tavolo, concentrati, come se stessero partecipando a un rituale di cui non conoscevo né il nome né lo scopo. A quell’età, tutto ciò era per me avvolto nel mistero. Memoria ed entità invisibili, in fondo, sono sempre connesse. E così i ricordi ci portano dagli Spiriti.
Erano gli anni ’80 e Maria Elisabetta Ratti si era da poco avvicinata al mondo dello spiritismo e dell’occultismo: come accade per molte delle cose più importanti nella vita, per caso. Durante un’estate in una Crotone gremita di gente arrivata da fuori, tra turisti e locali, incontri a base di cene calabresi e sedute spiritiche avevano rivelato a mia madre una verità straordinaria su di sé: ovvero, che era una medium potentissima. A quel punto, da donna di cultura e filosofia qual era, all’attività serale aggiunse lo studio e l’approfondimento della materia, partendo da Allan Kardec, il padre della dottrina spiritica, e proseguendo con i Maestri del Cerchio Firenze 77, un gruppo che indagava i misteri dell’anima attraverso comunicazioni medianiche. Approfondì gli scritti fondamentali dell’occultismo e della teosofia, da Madame Blavatsky ad Aleister Crowley, leggendo e assorbendo tutto ciò che poteva sul potere delle energie invisibili.
Questi testi raccontano storie di incontri con esseri di luce, lotte contro forze oscure, errori commessi e obblighi da rispettare per garantire che la Fine, ormai vicina, potesse coincidere con un Nuovo Inizio
In quegli anni, mia madre visse esperienze straordinarie e altre più inquietanti. Gli spiriti evocati non sempre erano benigni, e le forze chiamate in causa non sempre tornavano da dove erano venute. Dopo una serie di eventi fuori controllo, Maria Elisabetta Ratti cominciò a guardare il mondo dello spiritismo e dell’occultismo con occhio critico, realizzando che, sebbene queste pratiche potessero aprire porte verso straordinarie capacità e poteri, senza il giusto controllo rischiavano di creare fratture energetiche irreparabili. Da allora, iniziò a cercare un modo per raggiungere il controllo tanto desiderato (e necessario) per riuscire a padroneggiare queste energie e questi poteri. Trovò la giusta strada nell’Oriente, tra meditazione, yoga, reiki e tecniche di spiritualità lontane dal ritmo e dall’attitudine occidentali. Ma le porte ormai erano state aperte, e la connessione con altre dimensioni era diventata irreversibile.
Il suo essere medium spiritico si trasformò attraverso la meditazione, diventando capace di mettersi in contatto con energie ed essenze altre attraverso trance guidate. Così, Maria Elisabetta Ratti intraprese un lungo cammino, cercando di perfezionare la sua capacità di comunicare con l’invisibile, consapevole che ogni apertura, ogni contatto con il mondo degli spiriti, richiedeva un profondo rispetto e un’attenzione costante. Si era passati dall’esplorazione per curiosità al camminare su un sentiero di disciplina e saggezza. Di questi trent’anni e più di meditazioni, di trance, di letture auriche, viaggi astrali e incontri con esseri di luce incaricati di custodire i segreti più profondi dell’universo, non rimane molto, ahimè. Un lungo, profondo mitologema che giace tranquillo nella testa e nel cuore di ME.
Ma, fortunatamente, in un periodo che va dal ’97 al 2009, un amico di mia madre, esoterista e occultista (lo chiameremo “D.”), ha approfittato delle sue capacità per esplorare i territori misteriosi della Qabbalah e i segreti racchiusi nei Salmi e nella tradizione mistica occidentale in generale. Le loro sessioni divennero veri e propri rituali. Lo scopo di “D.” era quello di porre domande, chiedere informazioni, conoscere attributi e caratteristiche, poteri e simboli per poter comprendere e dominare queste forze attraverso talismani e icone, strumenti potenti che, se utilizzati correttamente, avrebbero potuto canalizzare energie immense. Le sedute non erano solo momenti di contatto con l’invisibile, ma anche occasioni per documentare e analizzare le rivelazioni ricevute.
Nacquero così le trascrizioni delle trance: un corpus di messaggi, descrizioni e visioni che mia madre riceveva dalle entità spirituali con cui si metteva in contatto. Messo da parte lo scopo di “D.”, non del tutto condivisibile, il suo grande lascito è la conservazione di questo materiale, un’eredità che offre uno sguardo privilegiato su una cosmogonia rivelata attraverso il suo operato. Il materiale raccolto include registrazioni su nastro e trascrizioni a mano e a macchina da scrivere. Questi testi, oltre a rispondere alle domande più tecniche di “D.”, raccontano storie di incontri con esseri di luce, lotte contro forze oscure, errori commessi e obblighi da rispettare per garantire che la Fine, ormai vicina, potesse coincidere con un Nuovo Inizio, più luminoso e armonioso.
Qui un piccolo assaggio, brevi estratti da tre canalizzazioni del 2009, periodo finale delle trascrizioni, all’apparente termine del percorso iniziatico.
Questo suono noi diffondiamo, questa capacità di rendere anime, di creare anime noi la stiamo esercitando negli ultimi istanti di questo micidiale crollo
11.07.09 TRANCE #1
Stiamo per lasciare Leviatan
ME (soffia dolcemente): – È con noi il divino Fratello che insuffla dalle sue labbra le nostre anime di radiosità e di celestiale gaiezza. Il Divino ci porta il soffio vitale, ci porta la potenza creatrice del suono. Quel suono che noi abbiamo consegnato, che abbiamo fatto riconvergere nella sua aurea coppa, adesso ci viene nuovamente insufflato affinché noi, qui e ora, diffondiamo il suono che crea, che resuscita, che rianima coloro che vogliono essere animati. Pochi, come abbiamo detto, ma alcuni noi li stiamo reperendo; alcuni vengono a noi con le mani stese, il cuore aperto, affinché sia loro data una Luce. E questa Luce noi diamo, adesso, fratello. Questo suono noi diffondiamo, questa capacità di rendere anime, di creare anime noi la stiamo esercitando negli ultimi istanti di questo micidiale crollo. Noi stiamo facendo la nostra ultima semina, e speriamo nel nostro ultimo raccolto, e speriamo che se non sarà copioso non sia così esiguo da rendere spopolata la nostra Casa. Stiamo per lasciare Leviatan: le rosse piante hanno dato vita ad una nuova forma di causa ed effetto, hanno dato forma ad un nuovo divenire. E adesso è l’ora di partire per andare oltre. E oltre noi porteremo oltre che la Casa, come sempre, queste anime che ci seguono, questi riflessi, questi accoliti se vuoi, questi seguaci se vuoi, che comunque portano o porteranno in se una scintilla di ciò che abbiamo dato.
Adesso la nostra attività è gioiosa. In mezzo al crollo, alla distruzione, al disfacimento, alla decomposizione, la nostra opera è gioiosa. Per quanto ci faccia male la visione di ciò che va perduto, noi gioiamo di ciò che stiamo riuscendo a recuperare e a portare con noi. È molto gioiosa la nostra opera mentre il nostro cuore è così dolente, dolente, così piangente la nostra mente, così dolorante il nostro corpo, così pesante il fardello che ancora dobbiamo sostenere! E però gioiamo, gioiamo perché stiamo lavorando concordi ad una creazione che avrà un futuro. Se noi non possiamo avere Luci avremo Riflessi, fratello, e da questi Riflessi noi trarremo Soli forse non così incandescenti ma certo capaci di creare nuovi mondi, nuove chiarezze, nuove coscienze e nuovi percorsi. Noi stiamo… abbiamo dato vita all’Eterno Infinito e, quindi, alla riproduzione. E questo, tu sai, che la mia opera è riuscita. Ma adesso il materiale è scarso, quindi tutto ciò che possiamo usare sarà usato, ed io vedo oltre il confine dei confini, e oltre ancora nell’infinito futuro, vedo miriadi di esseri magnifici dall’anima chiara, dal volto splendente, capaci di cantare in coro e di danzare con le mani allacciate. Io vedo in un futuro futuro, oltre il futuro, miriadi di bianche forme flessuose, armoniose, intonate, capaci di creare nuovi mondi e nuove esistenze, e nuovi habitat. È bello, fratello, il futuro oltre il futuro. È bello e mi colma di gioia, e mi da forza ora che abbiamo bisogno di forza.
[…]
Perché ti nascondi in una nube? Perché, fratello? Tu che sei il Sole, perché ti nascondi dietro una nube così minacciosa? Cosa vuoi gettare? Grandine? Pioggia? Fulmini? Cosa? Non sei il Signore della Folgore, del Fulmine. Non sei il Signore della Folgore! La tua nube mi disturba, ed io, poichè non voglio trasformarla in lacrime e farti piangere, la trasformerò in doccia, fresca doccia che ti riporti il senso della tua natura che non è ombrosa e fredda, è lucente, sfolgorante e calda.
12.09.09 TRANCE #2
Shadday il distruttore
D: – Il significato, il potere d’uso della c.d. Croce Essenica, che in aprile, in marzo va pronunciata come El. Yak, Aglà, Hehyeh, Shadday; oggi fino al 20 settembre va pronunciata invece come Aglà, Hehyeh, Yak, El, Shadday. Questi nomi vengono definiti divini. Quest’ordine, questa croce ha potere taumaturgico, terapeutico?
ME: – È questa (con le dita delle mani esegue un mudra), ed è incontro, incastro, l’interferenza, la contaminazione di correnti energetiche che provengono dai poli universali…
D: – Contaminazione?
ME: – Incontro, non fusione, è un incontro energetico che determina nuovi flussi, nuove incidenze a livello cosmico. Non riguarda solamente la Terra e le sue stagioni, riguarda i cicli universali della rotazione, della enfusione dell’una corrente nell’altra. Questo è il disegno, questo che ti sto facendo con le mani, questo!
D: – Le dita incrociate, con i pollici in alto, e gli indici in alto, indici che si toccano.
ME: – C’è tutto un incontro. La figura geometrica è, però, non statica. È un continuo fluire di tutte queste, questi afflussi energetici che in questo punto che potresti chiamare il centro…
D: – È quello che nella croce viene chiamato Shadday. Shadday viene detto, l’unico punto che resta fisso; gli altri ruotano.
ME: – Il centro dell’universo attorno al quale si muove l’infinita teoria delle potenze energetiche per creare e per distruggere. E tu sai che Shadday è il distruttore, è l’eterno fluire da cui l’eterno rinascere. Questa è una rappresentazione schematica ma reale del movimento cosmico intorno ad un centro che potremmo chiamare l’Origine. L’Origine ha dato vita alle varie Potenze Creatrici le quali svolgono nel loro percorso creativo un tracciato che va a riconfluire nel punto centrale sempre in maniera spiralica.
[…]
La malattia e l’equilibrio
È una incessante teoria, è un incessante movimento, è un’incessante creazione-distruzione. Tutto si muove, tutto muta e tutto converge alla fine da cui riemerge l’inizio eternamente. Eternamente fine e inizio. Eternamente apporto di nuove, potremmo dire antichissime ma sempre nuove perché sempre arricchite da nuovi stimoli di azione, di creazione e di induzione. Sempre nuovi apporti ed esiti, sempre, sempre ed eternamente. Questa, che non è in realtà appunto una croce ma una proiezione di quello che è l’andamento cosmico delle potenze energetiche, non può essere preso, fratello, come talismano. È il segno di ciò che è. Tu ne fai parte, tu insieme a tutto ciò che vive e muore e ne fai parte.
Non puoi prendere questo, che è un dinamismo assolutamente continuo, e continuamente mosso, e continuamente trasformato, trasformatore e trasformante, non puoi prendere questo movimento: potresti chiamare la danza di Shiva, la danza della vita, la danza di tutti gli atomi che compongono il cosmo, l’universo, non puoi prendere questo immane dinamismo come punto fisso perché il punto fisso genera il movimento. Quello, però. E quindi tu non puoi; puoi farlo così come, appunto, proiezione di ciò che avviene realmente, ma non puoi assumerlo come talismano terapeutico perché sconvolgeresti il centro e il movimento che sovrintende.
D: – Loro lo intendono usare come riequilibratore di qualcosa che non è in equilibrio, un movimento riequilibratore.
ME: – Loro hanno una visione relativizzata alla terra, al piccolo cosmo, al microcosmo, e non possono comprendere come tutto nell’universo invece è già equilibrio; ed è questo dinamismo delle forze afferenti ed efferenti che crea l’equilibrio.
Se questo non fosse in equilibrio, e non può non essere in equilibrio perché fortunatamente non dipende da una piccola mente malata, se questo non fosse in equilibrio tu vedresti esplodere i mondi, vedresti perché certo non potresti vedere perché faresti parte di questa grande esplosione, di quest’annullamento, di questo reimmergersi in una dimensione di buco nero, di forte contrazione destinata comunque poi ad una nuova esplosione. Questo è l’equilibrio per eccellenza!
D: – Loro quindi, forse, intendevano utilizzarlo per riequilibrare. La rotazione, intendevano riequilibrare, cioè ritrovare l’equilibrio che nel male, nella malattia era compromesso.
ME: – In un momento si può ritrovare l’equilibrio della malattia. Abbiamo detto più volte, la terapeutica è espressione e incisione direi d’amore. Questa è una rappresentazione proiettiva del dinamismo universale. È assoluto equilibrio, è assoluta potenza. A cosa la puoi applicare? Non certo al piccolo elemento che apparentemente sembra essere andato in disaccordo con il verso, apparentemente fratello: la malattia è una forma di riequilibrazione. La malattia è comunque proveniente da qualcosa. Si determina uno scollamento a livello molecolare, a livello psichico per determinate cause. Non le puoi ricondurre in equilibrio con la croce di niente. Le puoi ricondurre in equilibrio agendo su quello che ha causato la distorsione, lo scollamento.
ciò che vuoi è amore, è coscienza del proprio sé come scintilla di questa immane, continua, ordinata deflagrazione del cosmo
Come si agisce sulla causa? Si agisce in maniera compensatoria. Allora, c’è la medicina che va a compensare ciò che manca a livello di sostanze, appunto, equilibratici del corpo umano; c’è l’amore che va a compensare le ferite, i vuoti che si sono creati in una mente, o in un cuore o in un’anima. Si deve agire su quello e con i metodi utili a quel settore minimo che non è l’infinito universo. Tu non puoi, attraverso l’equilibrio dell’infinito universo, riportare in equilibrio la cellula impazzita. L’elemento impazzito di questo immenso equilibrio, l’elemento impazzito non incide minimamente sull’equilibrio del cosmo, dell’universo. La cellula impazzita fa parte di quell’equilibrio perché genera dinamismi ulteriori. Tu pensa alla morte: ti sembra una privazione di energia? Pensa alle conseguenze di una morte, sia a livello materiale-fisico di disgregazione del corpo umano che va quindi a marcire con la sua materia… Le materie consone che ci sono sulla terra e nell’aria, e anche a livello affettivo-psicologico… quanto arricchimento produce una morte, quanta nuova energia. Pensa al dolore, pensa all’eredità mentale-psichica. Nulla muore perché nulla muore, perché tutto si trasforma, perché è così. La morte è vita comunque. Quindi la cellula impazzita non va a turbare l’equilibrio di questo grande equilibrato universo, ma crea nuove forme di assestamento e di arricchimento.
Comunque, abbiamo già detto, tutti i simboli hanno un’impronta e la funzione che tu dai loro in base alla tua volontà d’amore; e il simbolo giustamente può essere un concentrato di pura mentalità, di pura forza psichica, di puro amore. Il simbolo è un concentrato, però chi può usarlo deve essere nel simbolo stesso, deve essere quell’amore, quella pura forza e, soprattutto, quella purezza e quel convincimento, potremmo dire del “Divino”, tra virgolette, cioè di ciò che è magnifico, perfetto, e completamente e perfettamente in empatia con tutto ciò che si realizza e diviene. Se tu, piccola cellula di questo infinito, sei in sintonia, in empatia e in amore con questa grande immane realizzazione, eterna ed eternamente cangiante, puoi veramente fare ciò che vuoi perché ciò che vuoi è amore, è creazione in sintonia con la creazione, è coscienza del proprio sé come scintilla di questa immane, continua, ordinata deflagrazione del cosmo.
16.10.09 TRANCE #3
La spirale del divenire
ME (sovrappone le mani una sull’altra): – Colui che è al nostro cospetto è il Signore che sovrintende alla rotazione del divenire. Egli controlla il coordinamento e l’espletamento dell’espansione. Egli assicura ora e qui che stanno combaciando, non stanno per combaciare, stanno combaciando l’inizio e la fine. Dichiara che tutto sta tornando al punto d’origine, che tutto si sta riconvertendo verso la fine-inizio. Questa spirale, che egli ci mostra in questo momento, è immane, è colma di tutti gli esseri e di tutte le cose, è movimento immenso, corposo, denso per cui tutto va e porta il suo contenuto, i suoi contenuti, innumerevoli contenuti, là dove come in un crogiolo saranno mescolati e rimescolati e assistiti nella loro mutazione che darà il via al nuovo corpo.
Questa immensa spirale sarà ridotta, sta riducendosi, a questo combaciare. E in questo combaciare, compressa in una materia densa, concentrato di energie di ogni tipo, di ogni livello, tutto sarà ricompattato, non per un nuovo big bang, no. Non ci sarà una nuova esplosione questa volta, no, non ci sarà il caos, no; ci sarà questa concentrazione di forze che poi armoniosamente si dilateranno. Come da un sole incandescente prenderanno il via altre infinite innumerevoli direttrici creative che porteranno in se ciascuna il senso, il succo e la materia di ciò che è stato fatto, ma troveranno nuovi sistemi, nuovi percorsi e creazioni del tutto diverse da quelle pregresse.
Noi ci espanderemo senza dolore, senza guerra. La guerra, madre di tutte le cose muore. Ne serbiamo un ricordo amorevole, poiché dalla guerra tutto è nato e tutto è divenuto
Non possiamo immaginare adesso, non possiamo assolutamente immaginare come da questo vissuto si possa creare un nuovo vivente, un nuovo corpo assolutamente diverso, eppure assolutamente adatto alla creazione di nuovi mondi. Colui che sovrintende al controllo del divenire, dice: “Voi siete in questo punto, voi siete qui”. È un momento, potremmo dire secondo il nostro linguaggio, veramente storico. Siamo in questo punto dove il tutto scomparirà apparentemente, ma non noi, noi non scompariremo. Noi saremo il fuoco e la polvere. Di questo fuoco noi saremo i fautori della nuova espansione. Saremo diversi, avremo altre sottorealizzazioni rispetto al nucleo originario della Luce da cui proveniamo? No, non saremo diversi, fratello, perché amore e saggezza, clonazione, bellezza, questi saranno ancora i modelli e le strutture di qualunque possibile espansione. Quali saranno i nostri compiti? Questi. In che modo li porteremo avanti? Ecco, questo cambierà fratello: noi non avremo più paura di dover lottare con il buio. Noi non avremo più l’abbraccio, costrittivo, delle tenebre: sarà pura, incondizionata luce. E tu mi dirai, mi chiederai: “Com’è possibile? Com’è possibile? Com’è possibile?” E io non so come è possibile ancora. Ma questo Egli dice ed io ti dico. Questo io so e questo ti dico. Noi ci espanderemo senza dolore, senza guerra. La tua spada sarà un raggio laser per scandagliare nella luce i momenti da ripetere. Non ci sarà guerra. La guerra, madre di tutte le cose muore. Ne serbiamo un ricordo amorevole, poiché dalla guerra tutto è nato e tutto è divenuto. Ma seppelliamo questa madre, a volte crudele eppure utile, seppelliamola con amore, ma la lasciamo per sempre, per sempre. Sarà solo memoria di altro perché noi andiamo nell’oltre e nell’altro. Noi andiamo dove non c’è diaframma, dove non c’è scoglio.
Il fratello Auiel
Il Signore che è qui dice a te: “In questo momento, il momento in cui combacia la fine con il principio, tu senti il rombare della tempesta, lo sconvolgimento, e hai paura”. Dice: “Fratello, noi siamo qui, legati mano nella mano. Non ci sarà sconvolgimento, non ci sarà rombare di tempesta, per noi non ci sarà. Noi confluiamo questa spirale nel nuovo mondo”.
Egli dice a te: “Dirada le nubi che circondano la tua testa, il tuo cuore”.
Dice: “Senti la mano che stringe la mano e sii forte perché sei forte”.
Dice: “Sii splendido perché sei splendente”
Dice: “Non temere che il tuo operato scompaia in questo crogiolo. Esso rifulgerà, esso sarà seme tra i semi della nuova avventura”.
D: – Mi è parso di capire che è un nostro Fratello? Vorrei avere la grazia di sapere il suo nome. Non me lo può negare!
ME: – Non nega. Lui è il Suono che tu non puoi udire perché hai orecchie umane. Lui è Luce che non puoi vedere con gli occhi della mente. Lui è Aa… Ou… He… L…
D: – Diciamo “Aoriel“.
ME: – Auiel.
D: – Auiel.
ME: – Lui è Auiel.
D: – Grazie!
ME (pone la mano sulla testa di D; si rivolge a R palpando i capelli e poi premendo sulla fronte tra gli occhi): – Da questo momento tu sei Portatore di Luce. Da questo momento hai il compito. Il tuo compito è Portatore di Luce. O Dio!
R: – Un male incredibile ho sentito…
In questi mesi è capitato, parlando con un’attivista milanese e araba coinvolta nelle iniziative per il popolo palestinese, di dirci che avremmo voluto tatuarci la stella a otto punte di Inanna/Ishtar, che indica il pianeta Venere, per sottolineare il sostegno femminista e ancestrale che ci unisce simbolicamente a tutti i territori del medio oriente. È difficile, d’altra parte, prendere parola pubblica in questo momento storico tacendo il genocidio in Palestina. Per affrontare un argomento così alieno ai nostri ambienti politici come l’attivismo spirituale, noi scegliamo di farlo con la Palestina nel cuore. Partiamo dunque dal vicino oriente antico e chiediamo alle grandi dee pre-islamiche di aiutarci nel lavoro politico a sostegno di tutte le popolazioni che subisco l’imperialismo culturale e religioso delle nazioni teocratiche. Invochiamo Inanna regina del cielo e della terra, nata nel cuore dell’Iraq, un tempo Sumer, tra il fiume Tigri e l’Eufrate che nascono sulle grandi montagne kurde per raggiungere poi il Golfo Persico. Inanna Stella del mattino e Tempesta tonante, una dea ancora non addomesticata ai pantheon del patriarcato. Eccoci salire in quota sull’impervia montagna dell’attivismo spirituale per i sentieri dell’immaginario, dove la fabula speculativa di Donna Haraway incontra il mito vivo di Furio Jesi e Károly Kerényi e il fare anima di James Hillman.
Il libro Inanna regina del cielo e della terra pubblicato nella collana Selene, che come Ippolita curiamo per Mimesis edizioni, raccoglie i miti della divinità sumera, ritrovati su tavolette d’argilla circa 4000 anni fa e tradotti dal cuneiforme, la prima scrittura codificata di cui abbiamo conoscenza. Prima di Gilgameš, Ulisse, Enea e Dante, la più antica discesa negli inferi di cui abbiamo registrazione è stata compiuta da una donna, Inanna. È lei che per prima affronta la catabasi iniziatica, guidandoci alle sette porte del mondo infero. Questi miti sono composti vicende che abbiamo sempre attribuito agli eroi dell’antichità, per esempio, nella cultura sumera la conoscenza è contenuta nei me, concrezioni che rappresentano qualità della sapienza stessa; questi codici sono custoditi da Enki, il Dio della Saggezza. Inanna decide di sottrarli con l’astuzia (proprio la metis di Ulisse) e dunque porta in dono la conoscenza rubata agli dei (come Prometeo) al popolo di Uruk.
In queste narrazioni la potente forza cosmica, intellettiva e sessuale delle grandi dee del passato non è stata ancora del tutto asservita alle istituzioni; si tratta perciò di una testimonianza unica e preziosissima. Le figure di filo immaginate da Donna Haraway in Chthulucene, che si intrecciano tra passato e presente, ci indicano che dobbiamo cambiare il modo di raccontare la realtà, non per evadere dalla materialità dei conflitti, ma per stare a contatto con i problemi attraverso un immaginario radicale e trasformativo. Pensare specularmente, razionalizzare, praticare il pensiero critico, dedurre logicamente non sono attività prive di narrazione, rêverie, evocazioni. Il pensiero immaginale lavora sempre assieme a tutte le altre forme di astrazione teoretica. Le attività della mente inoltre sono sempre situate nei corpi, nel posizionamento di genere e classe, in una prospettiva politica.
La parola “spirituale” suona pericolosamente disincarnata, collusa con la violenza patriarcale della Chiesa quanto col dualismo cartesiano. Ma se fosse possibile un materialismo magico che metta in scacco il realismo capitalista?
Questo è il motivo per cui le ricerche della biologa evolutiva Lynn Margulis sono state lungamente respinte. L’idea che la simbiosi mutualistica fosse il motore della selezione naturale era meno gradita alla comunità scientifica di quanto non lo fosse l’idea neodarwinista di competizione, caposaldo del pensiero liberale e antropocentrico. Anche la scienza è una narrazione ed è figlia di una specifica visione del mondo. La vita si basa sulla cooperazione, scriveva la biologa, dallo sviluppo individuale fino ai fenomeni macroevolutivi come la speciazione, tutto dipende in primo luogo da una collaborazione tra viventi, che si realizza spesso sotto forma di unioni simbiotiche. Nei nostri ambienti politici forse (e a fasi alterne) si comincia ad accettare che la scienza sia una narrazione politicamente orientata e meno “oggettiva” di quanto siamo portati a credere, ma l’idea di mettere assieme la parola “attivismo” con “spirituale” risulta terribilmente indigesta. Che l’immaginazione crei mondi può andare bene fintanto che si adegui agli obiettivi politici condivisi dal nostro ceto intellettuale e ai gatekeeper del giornalismo culturale. Qualora la narrazione si discosti dalle posizioni più consolidate, senza confutazioni scientifiche dai precetti del positivismo, è relegata a credenza e superstizione, irrazionalità, terrapiattismo.
Mitologie e riti, divinità e spiriti invisibili facilmente vengono screditati come roba di destra. La parola “spirituale”, per le nostre orecchie lacerate dall’indottrinamento cattolico, suona pericolosamente disincarnata, collusa con la violenza patriarcale della Chiesa quanto col dualismo cartesiano. Ma se fosse possibile un materialismo non riduzionista? Un materialismo magico che metta in scacco il realismo capitalista? Noi mutuiamo la locuzione “attivismo spirituale” da Gloria Anzaldua di cui abbiamo curato la pubblicazione di Luce nell’oscurità / Luz en lo oscuro. Riscrivere l’identità, la spiritualità, la realtà nella nostra collana Culture Radicali di Meltemi.
“Nel tentare di dare un senso a ciò che sta accadendo alcune giungono a una profonda consapevolezza (conocimiento) delle situazioni politiche e spirituali e dei meccanismi inconsci che fomentano l’odio, l’intolleranza e la discordia. Il conocimiento ci esorta a reagire non soltanto con le pratiche della spiritualità (contemplazione, meditazione e rituali privati) o con le tecnologie dell’attivismo politico (proteste, manifestazioni, assemblee), ma con l’amalgama delle due: l’attivismo spirituale, che pure abbiamo ereditato assieme alla sombra. Il conocimiento ci spinge a impegnare lo spirito ad affrontare il nostro morbo sociale con nuovi strumenti e pratiche il cui scopo è dar vita ad uno smottamento. Lo spirito del mondo diviene cosciente, e noi diventiamo coscienti dello spirito del mondo. La guarigione delle nostre ferite sfocia nella trasformazione, e la trasformazione sfocia nella guarigione delle nostre ferite”
Nella cornice di senso di Anzaldua, ma più in generale nello sciamanesimo femminista, la spiritualità è intesa come unità tra mente e corpo, come qualità percettiva, per “sentire” con il corpo oltre i confini della nostra pelle. Anzaldua parla di “viticci di consapevolezza” che tastano fisicamente il mondo prolungamenti dell’anima-corpo che posso arrivare molto lontano, anche a una dimensione trans-specie, anche ai non viventi. La “spiritualità” diventa una qualità percettiva, fisica, somato-psichica attraverso la quale accediamo a una seconda attenzione, in cui le regole del mondo ordinario possono essere sovvertite. Per l’autrice scegliere di percepire la realtà in questo modo è anche un atto politico, perché riguarda l’elaborazione psichica del senso delle cose, in modo decoloniale, queer, femminista. Per esempio ci permette di cogliere che gli umani non sono “la misura di tutte le cose”, ma che abitiamo e siamo abitate da altri esseri (batteri, fantasmi, malattie, antenate) che siamo parte di una sostanza materiale, un tessuto immanente che lega tutte le cose, una trama che alterna vuoti e pieni. In quanto parte del mondo che ci circonda guarire noi stesse dalle ferite del patriarcato e del razzismo significa sanare parti della realtà che condividiamo con altri esseri, viventi e non viventi.
È importante attualizzare le pratiche sciamaniche e le conoscenze sapienziali senza naturalizzare il “femminile”, evitando di farlo diventare l’unico depositario possibile dei saperi ancestrali. Divinità Queer. Candomblé, Santería e Vodou: transcorporeità nelle religioni dell’atlantico nero, un volume di Roberto Strongman che abbiamo pubblicato di recente sempre nella collana Selene, mostra come le persone queer siano state fortemente presenti, anche con ruoli di guida spirituale, nelle religioni afrodiasporiche modificandole e arricchendo di possibilità il rapporto con il divino per l’interezza di comunità. A fare da filo conduttore del saggio c’è il concetto di transcorporeità; la stessa parola declinata in modo diverso, ma in qualche modo affine, dal nuovo materialismo femminista è la base del saggio di Stacy Alaimo, Allo scoperto. Politiche e piaceri ambientali in tempi postumani. In Divinità queer la transcorporeità: “[è un] immagine tipicamente afrodiasporica che rappresenta la psiche umana come molteplice, rimovibile ed esterna al corpo, che le serve da recipiente […] Questa visione peculiare del corpo, nella quale l’ego (lo spirito, l’anima) è orientato verso l’esterno rispetto al corpo fisico, consente la ri-generazione dei corpi che sono montati e cavalcati da divinità di genere diverso da quello della persona iniziata durante l’estasi rituale della possessione in trance”.
occorre fare un hacking del sé. Un ritirasi dell’ego, come nell’esperienza della possessione, in cui lasciarsi andare a una metamorfosi imprevista, un viaggio, una resa alle forze dell’immaginazione
Modificare i nostri saperi ontologici occidentali significa mettere in discussione il modo in cui la realtà del mondo ci è stata presentata, le gerarchie di dominio che si sono andate stratificando nella nostra cultura. La concezione di mestiza di Anzaldua passa dall’identità di chi è una persona razzializzata per arrivare ad abbracciare il vissuto chi è bisessuale e transgender, valorizza in particolare le persone che vivono tra diverse realtà senza mai appartenere pienamente all’una o all’altra. Queste sono le nepantleras, coloro che sono in grado di attraversare il Nepantla, parola nahuatl (lingua originaria della popolazione azteca) che significa spazio di mezzo: “el lugar tra i mondi, tra immaginazione ed esistenza fisica, tra realtà ordinarie e nonordinarie”.
Nel volume di Alaimo Allo scoperto la transcorporeità è intesa in senso ecologista, il soggetto umano è continuamente attraversato dalla materia del mondo, è parte del suo divenire, sia nel suo lato vitalistico e gioioso sia nelle tossicità ambientali nei quali è coinvolto. Sia nella transcorporeità di Strongmann che in quella di Alaimo assistiamo a uno sconfinamento che coincide con una perdita di sovranità del soggetto classico. I nostri corpi sono “abitati” da altre forze e questo diventare spazio aperto del corpo coincide con un impoteramento della nostra coscienza. Alaimo ci invita ad abbracciare una transcorporeità capace di dischiudersi dinanzi a un mondo materiale più ampio, un sé penetrato da ogni genere di sostanza e agentività materiale, siano queste “registrabili” o meno. L’immunità non esiste, dobbiamo accettare la penetrabilità e capire come questo punto di vista sia l’unico che può guidarci nel cammino per costruire nuove alleanze di corpi. “Non si tratta certo di affermare che il «corpo» sia utopico e pacifico e mai violento, o che una scopata salverà le foreste; al contrario, si tratta di ampliare le possibilità di un’etica e di una politica che non prendano più come punto di partenza l’individuo delimitato e capitalista”.
Dall’altra parte, Strongman è chiaro sul fatto che le religioni afrodiasporiche non sono scevre da omofobia, transfobia e misoginia, ma la penetrabilità dei corpi propria di questo peculiare concetto di anima e di possessione, le ha rese parzialmente accessibili anche alle donne, alle persone queer e trans. “La capacità di essere penetrate sessualmente rispecchia quella di servire come ospiti degli orisha più facilmente rispetto agli uomini etero, consentendo ai corpi […] di incanalare meglio le divinità. Le preferenze e capacità sessuali rappresentative di alcuni tipi di corpi funzionano come illustrazione secolare e visibile della sacralità delle tendenze e abilità di questi corpi”. La possessione cross-gender consente una profonda risoggettivazione della persona. Strongman è convinto che tramite la nozione di transcorporeità sia possibile individuare una convergenza femminista e queer nell’uso delle potenzialità del Vodou per sviluppare modelli di incarnazione più abilitanti.
A noi di Ippolita questa visione transcorporea parla di hacking del sé, un’idea che abbiamo usato in diversi contesti per definire il nostro approccio per negoziare la relazione tra il mondo delle tecnologie e i nostri corpi. Se l’informatica del dominio è un dispositivo di assoggettamento, ovvero una tecnologia del sé consustanziale all’infrastruttura che “si prende cura” di come costruiamo la nostra identità e le relazioni, allora occorre fare un hacking del sé. Un ritirasi dell’ego, come nell’esperienza della possessione, in cui lasciarsi andare a una metamorfosi imprevista, un viaggio, una resa alle forze dell’immaginazione. Il rapporto con la tecnologia va interamente rivisto alla luce di un etica ecologica che non riguarda solo il ciclo produttivo delle macchine, ma l’estrattivismo del nostro mondo interiore, assieme naturalmente alla codifica delle nostre relazioni, poiché l’identità si produce solo nella relazione (con umani e non umani). Il discorso è complesso e non abbiamo qui modo per meglio delinearlo, ci sembra però importante lanciare una cima tra mondi che solo all’apparenza sono tra loro distanti.
Un’occasione per allargare un po’ lo sguardo ce l’ha fornita il festival Le Alleanze dei corpi curato da Maria Paola Zedda con la cerchia di discussione Materialismo Magico che abbiamo organizzato invitando a discutere Arianna Forte, Jessica Murano e Marta Palvarini.
Una sala spoglia e immersa nella penombra è gremita di donne, giovani e vecchie, che portano i capelli intrecciati in corone vegetali. Sono tutte a piedi nudi e cantano, ballano, suonano il flauto e la lira, si aggirano per la sala facendo dondolare incensieri, mentre una di loro tiene in mano mazzolini di spighe e canta di fronte a un piccolo fuoco, con le braccia alzate. Ognuna pare assorta nella propria occupazione, ma questi gesti individuali sono connessi tra di loro da una costellazione di coppette, probabilmente in terracotta. Chi serve, chi beve, chi travasa, chi versa sulle fiamme: gran parte delle mani ritratte è impegnata a maneggiare piccole coppe rosse, che uniscono i singoli gesti in un unico atto comunitario. Al centro della scena, isolata dal trambusto eppure in primo piano, una ragazza è accovacciata di spalle, davanti a un’apertura circolare che affiora dal pavimento. Nella mano sinistra tiene una di queste coppe, che sta rovesciando nello specchio limpido della fonte misteriosa.
Il liquido è un fermentato carico di ergotamina, sostanza prodotta da un fungo della segale che contiene una serie di alcaloidi altamente velenosi e psicoattivi, e che nel Novecento porterà alla sintesi di vari composti chimici, tra cui l’acido lisergico (LSD). Seppur di dubbia qualità artistica, l’illustrazione che riproduce questo rituale iniziatico del II secolo a.C. mi ha ipnotizzato, mentre la osservavo sovrapporsi al muro scrostato di una casa di campagna durante la proiezione di un documentario sui misteri eleusini. Scanditi da invocazioni a Demetra e Persefone e guidati da sacerdotesse, i riti misterici che si celebravano nel santuario di Eleusi sono solo una delle evidenze storiche che testimoniano il ruolo focale delle donne nel trattamento delle risorse vegetali e nella pratica di forme primigenie di farmacologia botanica.
“Il mito e la sacra Scrittura collocano l’origine del mondo umano in un giardino, spazio vitale ricco di significati simbolici e metaforici”, scrive Massimo Venturi Ferriolo in Oltre il giardino. “Nelle antiche lingue mediterranee un’unica parola nominava il giardino e il grembo femminile, recinto dell’amore e fonte della vita. Spazio della generazione e della corruzione, simbolo della totalità del cosmo, il giardino è il grembo della vita e si consolida custodia e salvaguardia dell’esistenza, ventre materno da rispettare”. Quella tra il mondo botanico e quello femminile è un’associazione radicata in diverse tradizioni culturali, filosofiche e religiose, anche in quelle fortemente patriarcali, che raramente hanno concesso alle donne ruoli di potere paragonabili a quello oggi attribuito alla farmacologia. Ne è un buon esempio l’iconografia di Maria Maddalena, tradizionalmente raffigurata con un vaso contenente un unguento. Simbolo di trasformazione spirituale e testimonianza della dimensione femminile dell’epoca, quest’olio vegetale è riflesso di un’ampia tradizione di cura della quale le donne erano le principali custodi. Per millenni la cura della famiglia e della comunità fu incentrata su forme di farmacologia primitiva, e vide le donne come depositarie di questa sapienza: antica e profondamente legata al mondo naturale, se non addirittura a quello mistico.
Visionaria, artista, guaritrice, cosmologa, filosofa, poetessa, drammaturga, musicista, linguista canonizzata solo in tempi recenti, la badessa Ildegarda di Bingen è certamente una delle donne più eclettiche ed enigmatiche della cultura medievale. Esperta botanica ed erborista, al punto di venire considerata da molt3 la fondatrice della storia naturale tedesca, Santa Ildegarda promuoveva un approccio olistico alla medicina, in cui la salute era vista come un equilibrio tra corpo, mente e spirito. Incentrava le preghiere delle consorelle, alle quali faceva portare i capelli sciolti e indossare ghirlande di fiori, su meditazioni, canti e composizioni da lei scritte, che celebravano la divinità verdeggiante attraverso un linguaggio poetico e visionario.
Tra i contributi più rilevanti di Santa Ildegarda spicca il concetto di viriditas, parola latina traducibile come “verdura” o “vitalità”: in altre parole, l’aspetto visibile e lussureggiante del divino in natura. Il termine rappresentava la forza soprannaturale e vivificante che permea il creato, un’energia che dà vita a tutte le creature, umane e non. Una vera e propria linfa (sudor) che riempie foglie e germogli. Tale viriditas però non andava solo riconosciuta, o tuttalpiù celebrata attraverso metafore di umidità e crescita: andava ricercata. Secondo la mistica, infatti, quando si consumava una pianta curativa il suo potere veniva trasferito nell’organismo, creando un “momento di viriditas”. Questa energia però non veniva solo assorbita passivamente dall’esterno, poteva essere generata direttamente grazie a pratiche quotidiane di cura, alimentazione o preghiera. In altri termini, era già presente nell3 fedeli, andava solo riattivata.
Ecofemminista ante litteram, Santa Ildegarda professava che la salute umana, sia fisica che spirituale, fosse inseparabilmente connessa a quella della Terra
Un’energia ancestrale, eppure assolutamente mortale. Un potere che bastava risvegliare attraverso l’annullamento dell’immaginario confine tra le persone ed il resto del creato – se non addirittura del Creatore, che in questa visione non appare esattamente come un tutto oltre la somma delle parti, ma quasi come un’entità interconnessa, non separata dal resto. Il verde flusso divino è a tutti gli effetti un collegamento tra microcosmo e macrocosmo, al punto da insinuare il dubbio che l’universo sia un insieme fondato su armonie mutue, più che gerarchiche. Una cosmovisione forse più vicina alla Teoria di Gaia che non a quella dogmatica dell’undicesimo secolo. Ecofemminista ante litteram, Santa Ildegarda professava che la salute umana, sia fisica che spirituale, fosse inseparabilmente connessa a quella della Terra, ora vista come un’unica entità vivente di cui il genere umano è parte.
Elevata a intermediaria tra il mondo naturale e quello soprannaturale, la figura femminile è connaturata al manipolare le forze incorporee attraverso le piante curative, strumenti simbolici capaci di influenzare il mondo spirituale e proteggere la comunità dai pericoli invisibili – siano essi malattie o spiriti maligni. Come sottolinea Piero Camporesi ne Il pane selvaggio, “si delinea l’immagine d’una società febbricitante e insonne che tentava di contrastare le visitazioni notturne, le presenze degli abitatori della notte, di difendersi dall’aggressione tormentosa dei sogni paurosi e orribili con tutta una farmacologia apotropaica che inducesse oblio e serenità”.
Sedativi, digestivi, antidolorifici e antinfiammatori: la demonicità vegetale, sublimata dalle donne nel corso dei secoli, trova ancora oggi spazio nella farmacologia contemporanea. Primo su tutti è il Papaver somniferum, le cui proprietà narcotiche e antidolorifiche erano già note dai tempi dell’antichità. La sua resina veniva somministrata sia per alleviare sofferenze fisiche che per ottenere sollievo mentale. L’assunzione, spesso praticata con dosaggi a cavallo tra il medico e il ricreativo, faceva dell’oppio il farmaco assoluto dell’Europa preindustriale: come spiega Camporesi, “l’Europa dei sogni e delle allucinazioni notturne […] aveva nelle donne di casa, nelle madri, nelle nonne, nelle zie, nelle «comadri», nelle balie che allattavano gl’infanti, nelle dolci fattucchiere domestiche, le prime iniziatrici alle delizie artificiali, alla narcotizzante dolcezza d’un regime onirico affatturato e pilotato.”
Una mano schiusa allunga indice e medio, appoggiando le dita a una piega di carne, e penetrandola con garbo. Il gesto sensuale si ripete più volte, in un moto lento e ipnotico. La porzione anatomica inquadrata è così piccola da risultare quasi inintelligibile, appena al di qua dell’astrazione che carica la scena di un’ambiguità erotica. Non si tratta di un monte di venere ma dell’incavo di un’ascella, che ora la mano strofina con veemenza per permettere alla pelle di assorbire i principi attivi di un balsamo. La camera indugia tra un close-up e l’altro, attardandosi su un bacio vischioso e intontito, prima di interrompersi su due pupille chimicamente dilatate. La sostanza protagonista di questo episodio è di nuovo un unguento – non più un simbolo di pentimento, ma comunque sacro, alla sua maniera. La scena di sesso saffico che ho appena visto, stretta il cuscino e ora carica di desideri difficili da esaudire in pieno lockdown, è tratta dal film Ritratto della giovane in fiamme, scritto e diretto da Céline Sciamma. A film terminato l’unica voglia saziabile è la curiosità, e passo il resto della notte su internet, cercando informazioni sugli unguenti volanti.
Utilizzati dalle streghe per indurre stati alterati di coscienza, gli unguenti volanti erano delle preparazioni a base di erbe psicotrope, diffuse a partire dal periodo medievale in Europa. Gli effetti di questi balsami includevano allucinazioni, sogni vividi e una sensazione di levitazione. Un vero e proprio viaggio mistico, corredato di visioni ed esperienze extracorporee; il che potrebbe spiegare come, in seguito a interrogatori e torture, alcune donne accusate di stregoneria abbiano testimoniato di saper volare. Nel medioevo infatti, gli unguenti volanti erano associati a pratiche esoteriche, in particolare al leggendario volo delle streghe, reso popolare durante i processi per stregoneria. Secondo alcune descrizioni più pruriginose, l’unguento veniva addirittura applicato su bastoni e scope che le streghe “cavalcavano” per incontrare il demonio a qualche sabba.
La presenza di questo elemento nel film trasforma una scena di intimità sottintesa in un’icona di chemsex femminista, nella quale l’unguento diventa effettivamente il mezzo per raggiungere una dimensione di libertà e desiderio, lontana dalle restrizioni sociali imposte alle donne dell’epoca. Non a caso, le due donne che estraggono a ditate il balsamo da un barattolino di vetro lo hanno preso la sera prima a un ritrovo di contadine. Hanno passato la serata stringendosi attorno attorno a un falò, bevendo vino e intonando un suggestivo canto polifonico ispirato da un estratto di Così parlò Zarathustra: “Più ci alziamo in volo, più sembriamo piccoli a chi non può volare”. Questo raduno notturno è un’ottima diapositiva di come le sottoculture basate su valori ancestrali e legati alla natura siano sopravvissute per secoli attraverso fragili reti clandestine. Allo stesso tempo, quel barattolino apre la via verso una delle più evidenti testimonianze del rapporto tra il femminino e il naturale: la stregoneria. Se per secoli l’indiscutibile legame tra donne e mondo botanico aveva donato loro una certa dose di autonomia e potere, nell’alto Medioevo diventerà la scusa per demonizzarle e soggiogarle a un nuovo ordine sociale.
Per generazioni, le donne avevano svolto un ruolo fondamentale nella comunità grazie a pratiche erboristiche essenziali alla sopravvivenza sociale. Durante la prima parte del Medioevo, infatti, l’arte della medicina era soprattutto appannaggio delle donne oltre che dei monaci, a pari merito dei quali venivano riconosciute le qualità di carità, devozione, assistenza a bambini, malati e feriti. Un fenomeno condiviso da tutte le classi sociali del tempo, come racconta la capostipite dell’ecofemminismo Françoise d’Eaubonne nel suo libro Il sessocidio delle streghe. “L’educazione delle figlie della nobiltà”, scrive d’Eaubonne, “prevedeva un corso di piccola chirurgia, perché potessero prestare aiuto ai «fieri» cavalieri durante i tornei o in guerra. Le matrone trasmettevano le conoscenze ostetriche e il re teneva sotto la sua protezione un consiglio di queste dame chiamate a giudicare certi casi dubbi. […] Le dottoresse, chiamate «fisiche», erano richieste a causa del divieto imposto ai monaci di prendersi cura del corpo delle donne. […] Non si trattava di semplici erboriste”. Ma questo stato di cose durò solo fino a quando Carlo VIII non vietò la professione medica a monaci e medichesse, per riservare la nobile arte a una facoltà elitaria, ora protetta da ogni concorrenza.
Il sapere resistente è destinato a perdurare: forse proprio ripartendo dal folklore e dai rimedi delle nonne, che a lungo hanno nutrito e guarito affidandosi a sapienze ataviche
L’autonomia femminile andava neutralizzata, per spostare il potere nelle mani di poche figure totalizzanti: non c’era più spazio per attività frutto di sottoculture contadine — specialmente se di matrice pagana e gestite al di fuori del diretto controllo del clero. Paradossalmente, in un’epoca in cui la Chiesa condannava le cure mediche autogestite tra pover3 ma le permetteva all3 ricch3, le streghe-guaritrici non erano solo l’unica risorsa medica disponibile per le classi indigenti, ma anche la più fruttuosa. La medicina domestica, seppur praticata da persone non istruite, risultava infatti più efficace rispetto a quella ufficiale, tendenzialmente basata su presunzione accademica e principi galenici fermi alla teoria. Come analizzano Barbara Ehrenreich e Deirdre English in Witches, Midwives, and Nurses. A history of women healers, le streghe-guaritrici erano temute poiché il loro operato era in contrasto con l’approccio indubitabile della Chiesa. “La strega era un’empirica: si affidava ai sensi piuttosto che alla fede o alla dottrina, credeva nella prova e nell’errore, nella causa e nell’effetto”, scrivono le autrici. “Nella persecuzione della strega, l’ossessione anti-empirica e quella misogina e antisessuale della Chiesa coincidono: empirismo e sessualità rappresentano entrambi una resa ai sensi, un tradimento della fede”.
Il colpo di grazia non sarà però inferto direttamente dall’istituzione della Chiesa, ma da quella secolare e materialista del capitalismo. Il genocidio delle donne contadine, innescato dalla privatizzazione dei terreni prima e giustificato dalle accuse per stregoneria poi, giocherà un ruolo cruciale nella ridefinizione del ruolo femminile nella società. Private dell’indipendenza economica e segregate a una funzione esclusivamente domestica e subordinata, le donne si vedranno ridotte a un’unica forma di partecipazione: la riproduzione della forza lavoro, ora regolata dalla società. La sessualità della donna medievale viene così demonizzata per poter essere tenuta sotto controllo, pena le fiamme dell’inferno. Ed ecco che il recinto, che all’inizio di questa indagine si era presentato come metafora fertile e creatrice, diventa simbolo di una sessualità addomesticata e strumentale alla procreazione del capitale umano. Inutile dire che questa razionalizzazione del mondo naturale, ora meccanico e governabile, implichi l’eliminazione della strega; non si limita a distruggerne la figura, si preoccupa anche di occultarne il cadavere. Prima bruciandolo sui roghi, e poi diroccandone l’eredità filosofica.
Figlio di un’epoca nella quale le credenze popolari colmavano ogni lacuna scientifica, il corpo magico era concepito come un organismo dotato di poteri misteriosi e soprannaturali. Oscuro nel male ma anche nel bene, il Medioevo conferiva all3 su3 abitanti – uman3 e non – un’incarnazione creativa e in controllo del proprio destino. Un corpo fluido, dai contorni labili, e perciò intrinsecamente ibrido. Un corpo attraversato da elementi ed energie sottili, che lo intrecciano al resto di un ecosistema spogliato da sistemi di potere, rispetto al quale l’umano non è situato al di fuori o al di sopra. E il corpo femminile, innegabilmente connesso alla natura e custode dei segreti riproduttivi, ne è massima sintesi. La stessa Ildegarda di Bingen dona al femminino connotazioni magiche, se non pericolosamente divine: paragona la bellezza verginale della donna alla Terra, cioè colei che emana (sudat) quel divino flusso di linfa verde creativa e zampillante. Non a caso Maria è la viridissima virga, il “ramo più verde” nella sua Symphonia. Incompatibile con la prospettiva capitalista che vedeva il corpo come un mero strumento di produzione, il corpo femminile rappresentava un’intrinseca forma di resistenza alla disciplinarizzazione sociale.
Come ricorda Silvia Federici in Caccia alle streghe, guerra alle donne: “Insieme alle streghe si è spazzato via un intero universo socioculturale […] un mondo che oggi definiremmo superstizioso, ma che allo stesso tempo ci segnala l’esistenza di possibilità alternativa di relazionarci con il mondo.” Ciò che rimane è una società dissociata, sterilizzata, abituata a trattare la natura come l3 padron3 trattano l3 serv3. Che addirittura introduce la criminalizzazione delle piante psicotrope, complicando ulteriormente l’accesso a visioni dell’universo alternative e a forme di coscienza multidimensionali, irrazionali, oniriche. Ma il sapere resistente è destinato a perdurare: forse proprio ripartendo dal folklore e dai rimedi delle nonne, che a lungo hanno nutrito e guarito affidandosi a sapienze ataviche e ricchezze terrene. Incorporare piccoli rituali di autosufficienza nella routine quotidiana è un’opposizione sorprendentemente efficace contro il consumismo e la globalizzazione culturale, che preserva identità e diversità. Permette di mettere in discussione le dinamiche dell’utile, di riappropriarsi di approcci olistici, antichi ma oltremodo attuali. Ci riavvicina a una visione del mondo in cui la cura, la comunità e la connessione naturale sono centrali. Dal rinascimento psichedelico al più contemporaneo ecotransfemminismo, sono molte le pratiche che possono ancora “creare viriditas”, permettendoci di riconoscere la complessità non lineare della natura; di rifiutare l’eccezionalismo umano e le interpretazioni antropocentriche; di problematizzare i dualismi cartesiani che per secoli hanno giustificato dinamiche di potere profondamente inique. Soprattutto, di coesistere in una rete di relazioni composite e spesso simbiotiche. Atti politici e spirituali, che riportano l’individuo a una cosmogonia in cui la natura non è un oggetto da sfruttare, ma un soggetto vivo e connesso con il proprio essere.
Sono sdraiata in posizione fetale tra l’erba alta, in un nido modellato dal peso del mio corpo, e osservo i raggi di sole filtrare attraverso una fitta maglia di steli, ragnatele e spine. Mi trovo all’ombra di un fico d’india, rapita dalla scia opalescente che una piccola lumaca nera sta disegnando alla base del suo tronco. La sua saliva è la stessa che annebbia la mia bocca, amara dall’infuso turchino che ho sorseggiato qualche ora prima. I battiti sono calati, il fiato è sottile quanto l’impalpabile peluria che ricopre un gambo di borragine di fronte a me. Fisso lungamente il suo manto in controluce, sento le sue ciglia allungarsi fino a connettersi alle mie. Il ronzio di un insetto mi distrae e rotolo sulla schiena. Esattamente sopra di me un ramo del fico completa la sua curva, facendo dondolare una pala sulla mia testa. La brezza fa oscillare quella goccia verde e piatta, che sembra pronta a benedirmi, e che da chissà quanto aspetta paziente la mia attenzione. Allungo la mano e stringo l’ovale, cercando di appoggiare i polpastrelli negli spazi vuoti tra una spina e l’altra, dovrò aspettare il calare della sera per scoprire se ci sono riuscita. Con il braccio a mezz’aria mi riadagio sul fianco; guancia alla terra, torno a guardare l’orizzonte. Stendo l’altro braccio verso il tronco per cercare la scia traslucida, ora persa in un viluppo palpitante di licheni. Il fico e io fluiamo entrambi dalla terra. Tocchiamo le rispettive estremità chiudendo il cerchio, che ora finalmente riesco a vedere.
Una giovane donna molto elegante e molto affranta si punta una spada all’altezza del cuore. Sta per lasciarvisi scivolare sopra, uccidendosi. Sopra di lei campeggia una scritta: “When you get tagged in photos from the weekend”. È un meme, ovviamente. Un meme in cui l’immagine della donna è bidimensionale e il paesaggio alle sue spalle un po’ sproporzionato. Si tratta, infatti, di un’illustrazione presa da un manoscritto fiammingo del Roman de la Rose – vero e proprio best seller medievale – custodito alla British Library (London BL Harley 4425, f. 117v), che rappresenta il suicidio di una Didone in abiti trecenteschi.
La sventurata regina di Cartagine è una tra i tantissimi soggetti dell’arte medievale che da almeno un decennio spopolano online sotto forma di meme. Si tratta di una tendenza che trova le proprie origini nei primi Duemila, quando due studenti dell’Accademia di Media Arts di Colonia, Björn Karnebogen e Gerd Jungbluth, crearono la prima versione dell’Historic Tale Construction Kit, un’applicazione per comporre immagini personalizzate a partire dagli elementi del celebre Arazzo di Bayeux, tessuto probabilmente in Inghilterra nell’XI secolo. Era il 2002 e l’applicazione diviene presto popolare sia su 4chan – notoriamente una delle principali fucine di meme – che come fonte per la produzione di YATMND. Da quel momento, i meme medievali conobbero un successo sempre crescente prima su Tumblr, Twitter e Reddit (dove, nel 2018, l’utente ascending_pepe lanciò una serie di apprezzatissimi meme basati sulla Bibbia Maciejowski o Bibbia Morgan, un manoscritto del 1250), poi anche su Facebook e Instagram.
Da oltre vent’anni, quindi, memiamo il Medioevo senza che questo ci stanchi, o passi di moda. L’ispirazione che questo periodo storico offre ai creator digitali sembra inesauribile. Alla peculiare memabilità delle immagini medievali fa cenno anche Valentina Tanni in Memestetica. Il settembre eterno dell’arte (Nero, 2020), parlando di Medieval reactions come di un sottogenere della rielaborazione di iconografie di altre epoche. Scrive Tanni: “L’aspetto grottesco e bizzarro delle sculture e delle miniature di quel periodo storico, infatti, ben si presta a illustrare motti di spirito, commenti sull’attualità e a definire sentimenti e situazioni contemporanee”.
pazienti sottoposti a trattamenti dolorosissimi finiscono accanto a conigli assassini, creature che suonano la tromba col sedere e a combattimenti tra cavalieri e lumache
In effetti, il dato più evidente che rende le opere medievali dei template ideali per i meme è la loro apparente goffaggine, unita a una gamma di soggetti che appaiono assurdi e cartooneschi anche quando dovrebbero trasmettere drammaticità. Quest’ultimo aspetto ha una presa così immediata da aver generato una sorta di trend interno alle Medieval reactions, ovvero quello della “gente nell’arte medievale che muore male e non gliene frega niente”, al quale è riconducibile anche la nostra Didone suicida. Raccolte di People Getting Stabbed in Medieval Art and Lovin’it o People Getting Stabbed In Medieval Art Who Just Don’t Give a Damn, che si presentano come una sorta di “best of” di materiale già in circolazione, sono diffuse almeno dal 2016 e hanno ispirato anche profili social dedicati (in Italia era abbastanza popolare la pagina Facebook Morire con Noncuranza, oggi chiusa), oltre ad una piccola mostra online intitolata The Revival of Violent Medieval Manuscript Imagery in Memes, consultabile sul sito della Tulean University di New Orleans. La vera star di questa sottocategoria è senz’altro Reinmar di Brennenberg, il cui omicidio è illustrato su un Liederhandschrift svizzero del primo Trecento noto come Codice Manesse (Universitätsbibliothek Heidelberg, Cod. Pal. germ. 848, f. 118r): la sua espressione indifferente alla spada che gli trapassa il cranio è probabilmente uno dei meme medievali più famosi in assoluto.
Sempre in Memestetica, Tanni si sofferma sulla forza dirompente del nonsense nella produzione di meme. Nonsense di cui l’arte medievale abbonda, talvolta in modo apparentemente inconsapevole (come nel caso del povero Reinmar di Brennenberg), talvolta in modo deliberato. Esiste infatti una produzione medievale di immagini sorprendenti e un po’ bislacche, realizzate per divertire l’osservatore, molte delle quali ricadono nella categoria dei marginalia. Con questo termine si intende tutto ciò che il copista illustrava o scriveva sugli ampi margini dei codici miniati, o che il lettore annotava per sé e per i futuri fruitori del testo. Non tutte le illustrazioni a margine sono volutamente nonsense o pensate per avere un effetto umoristico: ad esempio, non c’è nulla di faceto nella mematissima immagine di un uomo con una possibile ernia ai testicoli tratta da un manoscritto del XIII secolo del Canon Medicinae di Avicenna (Besançon, Bibliothèque municipale, MS 0457).
Il popolo di Internet, però, non sembra farci molto caso e scene bibliche o pazienti sottoposti a trattamenti dolorosissimi finiscono accanto a conigli assassini, creature che suonano la tromba col sedere e a combattimenti tra cavalieri e lumache, divertissement con cui qualche amanuense ha dato sfogo alla propria fantasia o ha voluto punzecchiare l’osservatore con un mordace rovesciamento della realtà.
La paradossalità dei marginalia ne fa le immagini medievali preferite dai creatori di meme e, in generale, le più amate tra chi frequenta i social. Su Tumblr sono popolari da almeno un decennio, ma hanno trovato un seguito notevole anche su Twitter, Instagram e Facebook. Tra i casi di maggior successo, merita una menzione l’account Twitter Weird Medieval Guys, creato dalla data scientist americana Olivia M. Swarthout. Nato per gioco nel 2019 come @WeirdMedieval, oggi il progetto è presente su diverse piattaforme, dove è seguito da quasi 800mila persone, ed è diventato multimediale, con un libro e un podcast dedicato ai falsi miti sul Medioevo. Molto interessante è anche @discardingimages, attivo su Instagram fino al 2022 e oggi operativo solo su Facebook in modo molto saltuario. Al momento, la persona dietro questi profili sembra concentrata sullo sviluppo di Inkulinati, un videogame strategico basato proprio sui marginalia più noti, disponibile al pubblico dal 2023: l’iniziativa ha avuto un discreto successo, anche se nulla di paragonabile al più noto Pentiment.
Queste immagini di contorno, che guardano il mondo da una posizione marginale e spesso decentrata, risultano non solo comiche, ma anche relatable
Il successo dei meme ispirati ai marginalia è tale da averci fatto vedere del potenziale educativo. Notevole è il caso della Koninklijke Bibliotheek, la Biblioteca reale dei Paesi Bassi, che ha creato un generatore di meme in cui le immagini scelte come template sono accompagnate da didascalie e video esplicativi.
Osservando questi meme, si nota come nell’arte figurativa medievale anche i dettagli e le figure co-primarie godano di un loro protagonismo e, in un certo senso, come proprio la lateralità di queste immagini sembri accentuarne l’esito comico, giocando sull’inatteso e sull’effetto easter egg. Inoltre, queste immagini di contorno, che guardano il mondo da una posizione marginale e spesso decentrata, risultano non solo comiche, ma anche relatable. Per l’osservatore, infatti, è facile sentirsi complice degli esseri che con nonchalance si dedicano alle proprie strambe attività fuori dal campo principale, accessori ad un testo di cui sembrano far parte loro malgrado. Così come relatable sono anche gli artisti senza nome e senza volto cui dobbiamo i marginalia: non venerati maestri, non geni celebrati, ma pazienti lavoratori che in un attimo di svago hanno disegnato un pene proprio lì, tra i motivi vegetali e la foglia d’oro; o una scimmia che fa la cacca accanto a un salmo. Persone che un po’ ci somigliano. Qualcuno come noi.
In campo memetico, il Medioevo viene spesso inteso in senso piuttosto lato e, talvolta, un po’ stereotipato: ne parla diffusamente Simon Rozanès, dottorando all’Università di Lione2, nel suo articolo Le Moyen Âge en meme, entre esthétique et stéréotypes : Esthétiser le Moyen Âge ou médiévaliser les memes?. Rispetto alla evidente stereotipizzazione del Medioevo nei meme, tuttavia, Rozanès non sembra particolarmente allarmato: “I meme sul Medioevo si caratterizzano per una forte prevalenza di stereotipi, anche se il loro utilizzo [è] prima di tutto un gioco con i codici, con una cultura o delle rappresentazioni del Medioevo occidentale sufficientemente condivise affinché l’aspetto comico funzioni. […] l’uso di uno stereotipo non porta necessariamente a farne un discorso elogiativo, ma in certi casi a decostruirlo, a denunciarlo o almeno a giocarci”.
Anche sul piano iconografico, a volte sembra che con “Medioevo” si voglia indicare un generico passato preindustriale, economicamente agricolo, socialmente classista e culturalmente bigotto. Ciò, da un lato, porta a considerare come “medievali” anche meme che si appropriano di opere molto più tarde, perfino sette o ottocentesche. Dall’altro, questa circostanza offre ai creator una certa libertà, che non viene disdegnata nemmeno dai più preparati sul piano accademico. Ad esempio, vi ricorre occasionalmente anche Matthew Ponesse, in arte @medievalistmatt, docente presso la Ohio Dominican University e titolare di un divertente profilo Instagram. È una scelta astuta, ma tutto sommato anche democratica, che punta a raggiungere un pubblico interessato tanto alla storia, quanto al puro divertimento. Del resto, anche secondo Rozanès il successo dei meme medievali sembra essere legato anche alla loro attrattività verso un’utenza curiosa, per la quale anche un meme impreciso può diventare uno stimolo di approfondimento.
Inoltre, chi se ne intende riconoscerà che delimitare cronologicamente il Medioevo non è un’operazione semplice. Se il piano geografico è ristretto (l’Europa), quello temporale è talmente vasto e ricco di eventi che per quanto esista una periodizzazione convenzionale dominante (476-1492, o 1500 circa), si tratta di una soluzione tutt’altro che univoca e tutt’altro che esaustiva. Lo stesso concetto di “Medioevo” è frutto di invenzioni e idealizzazioni dei secoli successivi: dal canto loro, le persone che nel Medioevo ci vivevano si percepivano come continuatori dell’Impero Romano.
Un caso interessante è quello del canadese James Kerr, in arte Scorpion Dagger, tra i più famosi e raffinati creator di GIF artistiche, che attinge prevalentemente ad opere nordiche del XV e XVI secolo. Kerr procede in modo coerente con lo spirito degli artisti medievali, sfumando i confini del tempo, dello spazio e della materialità: nei suoi reel e nelle sue GIF convivono passato e presente, materialità e trascendenza, realtà e fantasia. Mescolando figure umane e animali prese da dipinti di epoche diverse, applicando loro corpse painting, cappellini e giacche in denim e animandole in un headbanging scatenato al ritmo dei D.R.I., Scorpion Dagger fa qualcosa che ricorda un po’ Hieronimous Bosch.
Del resto, la propensione a sovrapporre periodi storici, ad attualizzarli e a piegarli alla propria comprensione del presente è affine alle modalità con cui la storia veniva concepita in età medievale. La Didone che abbiamo descritto all’inizio dell’articolo non è solo la fondatrice di Cartagine, ma una donna tradita che prova un dolore universalmente riconoscibile. Nell’iconografia e nella letteratura medievali, infatti, i protagonisti del passato storico, mitologico o religioso, convivono in un tempo sempre attuale e dialogano con i contemporanei condividendone le categorie interpretative del mondo: in questo senso, il Medioevo memato è una sorta di ultra – revival di quell’epoca storica, che ne riprende e rivisita i canoni.
A proposito di parallelismi tra la creazione di meme e le modalità con cui si faceva arte nel Medioevo, è interessante anche quanto affermato a proposito dei marginalia da Olivia M. Swarthout, la già citata creatrice di Weird Medieval Guys, in un’intervista al Guardian: “[Nell’arte medievale] Ci sono dei pattern che si ripetono costantemente. Allo stesso modo, oggi le persone prendono qualcosa da internet e lo ripetono, e poi si attraversa un periodo in cui se ne fa una parodia. Le persone mi chiedono di alcuni pattern dell’arte medievale – per esempio, ci sono molte immagini di conigli che commettono atti violenti. E puoi spiegarne la persistenza solo supponendo che fosse qualcosa che all’inizio era divertente, ma che è stato ripetuto così tanto da diventare interessante. E spesso questa è la base di un meme – è qualcosa che viene spogliato del suo contesto originale”.
HILDEGARD VON BINGEN IS BRAT
Di primo acchito, si potrebbe pensare che al successo dei meme a tema medievale contribuisca un facile parallelismo tra l’Età di Mezzo e il nostro senso di impotenza e precarietà nei confronti del presente. In realtà – e l’arte ne è una dimostrazione piuttosto evidente – il Medioevo è un periodo vivace, ironico e dissacrante, e forse è proprio questo che ci piace di più: da quelle immagini emana un’imprevedibile, disincantata leggerezza, capace di rovesciare certezze e convinzioni. Anche in questo caso, il Medioevo social sembra avere più a che fare con quello reale che con la versione fiabesca e idealizzata della tradizione romantica o con quella derelitta e oscurantista propugnata dagli intellettuali rinascimentali e illuministi; sia quando riutilizza immagini originali, che quando ne crea di nuove.
Un esempio di questa ironia demistificatoria e brillante è apparso qualche tempo fa sul profilo Instagram @medievalmarginalia: due settimane prima del tweet con cui Charli XCX definiva ‘brat’ Kamala Harris, la persona dietro questo account ha postato una versione del celebre artwork verde acido con la scritta Hildegard. Il riferimento a Ildegarda di Bingen, tostissima mistica e intellettuale del XII secolo molto amata da chi mema il Medioevo, è insieme irriverente e perfettamente centrato, e sembra cogliere in pieno l’attitudine spregiudicata ma profonda di certi marginalia.
I meme sembrano appropriarsi coerentemente dell’impertinenza vitale del Medioevo, epoca molto meno moralista di quanto si pensi e pervasa, invece, di un realismo schietto e scanzonato. A tratti, perfino comicamente volgare. Pensiamo ad esempio ai fabliaux francesi che Alessandro Barbero ha contribuito a far conoscere al grande pubblico (si consigliano questa conferenza o questo libro); ma anche solo a quello che abbiamo studiato a scuola: Boccaccio e le novelle dissacranti del Decameron, i Canterbury Tales di Chaucer, Cecco Angiolieri e addirittura ad alcuni passi danteschi (il XXI canto dell’Inferno si conclude con un peto). Si inseriscono in questo filone i meme virali raffiguranti suore che raccolgono falli da un albero, le scene erotiche tratte soprattutto dalla letteratura e alcune immagini che giocano su una comicità un po’ greve. A volte vediamo ammiccamenti anche dove non ci sono: è il caso, ad esempio, di una celebre illustrazione del Codice Wallerstein, un manuale di scherma tedesca di metà Cinquecento (vedi immagine qui sotto). No, non è quello che sembra.
BARDCORE
Con l’Historic Tale Construction Kit menzionato all’inizio dell’articolo è stata realizzata anche l’immagine che accompagna il video di una notevole cover di Astronomia di Tony Igy, postata nell’aprile 2020 da uno YouTuber tedesco noto come Cornelius Link. Il pezzo, divenuto virale come colonna sonora della Coffin Dance, si presenta qui arrangiato in una versione medievaleggiante e suonato con strumenti acustici. Secondo alcuni (tra cui il Guardian), Astronomia (Medieval Style) costituisce il primo vero outbreak del bardcore o taverncore, un microgenere musicale specializzato nel riproporre pezzi contemporanei in chiave medievale.
Va precisato che, al netto dei suoi meriti nella diffusione del trend e nel pregevole livello di meta-memeing che dimostra, Astronomia (Medieval Style) non è il primo pezzo bardcore. Il precursore del genere è stato infatti individuato nel musicista noto come Algal the Bard, che già nel 2017 aveva condiviso su YouTube una sua cover in chiave medievale di Toxycity dei System Of a Down. In seguito, il successo dirompente di questi video ha portato all’emersione di nuovi creator: ad esempio Hildegard von Blingin’ (altro tributo a Ildegarda), che ha iniziato aggiungendo delle parti vocali in pseudo-Middle English ai video di Cornelius Link, per poi intraprendere una carriera propria; o Beedle The Bardcore, o Stantough. Il genere è diventato così virale da essere oggetto di diversi articoli e a comparire in uno show del primetime di BBC Radio1.
Il fatto che il primo brano bardcore apparso su YouTube sia la cover un pezzo metal non è forse un caso, dato che esiste una sorta di connessione tra la passione per la musica heavy e quella per il Medioevo. Connessione che si manifesta anche nella proposta dei BardoMagno, band italiana in cui militano membri di noti gruppi metal (Nanowar of Steel, Folkstone) e il cui repertorio si compone di inediti e parodie di pezzi noti tutti a tema storico medievale. Parte significativa nella lore dei BardoMagno è la spiritosa deferenza nei confronti del “magister” Alessandro Barbero, che curiosamente è a sua volta oggetto di meme musicali grazie al remix di alcune sue conferenze.
ALLA PUGNA!
I BardoMagno meritano di essere citati anche in quanto espressione musicale di Feudalesimo e Libertà, il principale progetto memetico a tema medievale del nostro paese. Nato come finto partito politico in occasione delle elezioni del 2013 (“Popolo delle libertà, futuro e libertà, sinistra e libertà, diritti e libertà… perché non anche ‘Feudalesimo e Libertà’?”, ci ha raccontato uno dei creatori della pagina), FEL è riuscito ad affermarsi soprattutto grazie ad un consolidamento graduale e costante, anche a livello professionale.
Oggi, FEL è una community online con centinaia di migliaia di follower, un brand che produce merchandise e l’organizzatore di un festival annuale. Il modo in cui gli stessi creator descrivono ciò che fanno sembra confermare quanto sostenuto da Simon Rozanès: “Facciamo tanta leva sugli stereotipi, a volte per fare satira sul presente, a volte per sfatare le convinzioni dei più. FEL vuole essere volutamente contraddittoria, rappresentiamo un immaginario che unisce Carlo Magno a Carlo V come se in mezzo non ci fossero secoli di storia. Lo facciamo consci della contraddizione, non per pigrizia intellettuale ma proprio per esacerbare quella confusione che si genera attorno al passato”.
Come dice la bio di @medioevosplatter – altro progetto italiano degno di nota, che insiste sul lato curioso e paradossale di marginalia e drolerie – l’arte medievale “non è tutta santi e Madonne col bambino”: anzi, è un sacco di cose profanissime, inaspettate e bislacche. Cose tutt’altro che ultraterrene e lontane. Cose che ci parlano ancora dagli angoli delle pergamene. Cose che parlano di noi.
Sul finire del quarto secolo Evagrio Pontico, leggendario asceta e monaco cristiano, metteva in guardia i suoi fratelli sui pericoli dei demoni; essi «sono infatti freddissimi, paragonabili al ghiaccio», e poggiandosi sulle palpebre dei monaci per scaldarsi inducono una tremenda sonnolenza, spesso proprio quando si è impegnati nell’atto della lettura. Non è un caso isolato: una moltitudine di testimonianze, sparse per tutto il Medioevo, collega insieme distrazione, perdita di attenzione e presenza demoniaca. Come notifiche di una tecnologia infernale, i demoni appaiono quando non li stiamo aspettando: predano la nostra attenzione, la portano altrove da dove ci eravamo prefissati; arroventano l’immaginazione, insieme la eccitano e la sopiscono. Per questo, come racconta Jamie Kreiner nel suo saggio La mente vagabonda, i monaci avevano messo a punto, nel corso dei secoli, un gigantesco campionario di metodologie e regole per esorcizzare la distrazione, scacciandone il richiamo demoniaco. Bisognerebbe pensare alla regola monastica come a un gioco «per piegare la cervice della mente», diceva nel VI secolo il vescovo Ferreolo di Uzès, e commenta così Kreiner: la regola era «una tecnologia per imbrigliare l’energia psicologica». Una tecnologia concepita tanto come una scienza meditativa quanto come una ingegnosissima arte della memoria; in ogni caso, ben prima delle attuali lamentazioni sulla perdita dell’attenzione indotta dagli smartphone e dai loro chiassosi lampeggiamenti, i demoni erano notifiche. E come in qualunque scambio di informazioni, se invece che scacciarli ci mettiamo in dialogo con loro, i demoni ci annunciano oggi un altro oscuro messaggio: siamo ancora medievali.
Certo: è difficile allacciarsi con un’espressione così perentoria a un’epoca come il Medioevo, essa stessa fabbricazione disomogenea, strabordamento di tempi che si inseguono, si contraddicono, si montano a vicenda in un’immagine sempre anamorfica. Peraltro, troppo spesso il termine “medievale” viene impugnato da chi vorrebbe fare dell’oscurantismo la sua unica cifra, il grossolano termine di paragone con ogni difetto o prurito del “sentire” moderno. Non è così. Di quale Medioevo parliamo? Il Medioevo «non si è sviluppato sempre nella stessa direzione né dappertutto né con la stessa velocità» commentava Jurgis Baltrušaitis nel suo studio sulle metamorfosi del gotico, insistendo sui grovigli di epoche e correnti, sulle cesure e sugli improvvisi risvegli che, avvicendandosi, producono un’epoca tutt’altro che statica e univoca. La stessa estetica del “gotico”, che oggi riaffiora in molteplici contesti (si pensi soltanto all’universo di videogiochi plasmato da Hidetaka Miyazaki) ha per Baltrušaitis una genealogia tortuosa:
“La tradizione identifica la genesi dell’arte gotica con il fiorire di un mondo nuovo: al Medioevo contrassegnato da civiltà millenarie fa seguito un Medioevo giovane, essenzialmente moderno. L’universo romanico è sovrumano. Si sviluppa, come un’Apocalisse, sotto il segno della bestia, nel terrore della rivelazione e del mistero. Ma è anche speculazione, geometria e cifra. Sono i ragionamenti e i calcoli più rigorosi a scatenare l’immaginazione. L’universo gotico […] restituisce il volto della vita in un accordo profondo di natura e spirito, nell’armonia e nel raccoglimento. […] Il mondo delle forme e delle immagini gotiche certo non deriva dal mondo delle forme e delle immagini romaniche. Si afferma, al contrario, distruggendo ciò che lo precede”
E tuttavia, questo annientamento delle forme precedenti non può essere assoluto, e anzi contraddice progressivamente il proprio mandato di distruzione. Il gotico mantiene e coltiva in sé un resto di mostruoso, scuote i propri tormenti, ridesta – per esempio nelle numerose decorazioni dei manoscritti – tutta una fauna fantastica, una turbolenza di incroci e mescolamenti “queer” che attingono dall’umano solo per sfigurarlo, sconvolgendone ogni carattere certo. È il supplizio di ciò che si afferma come stabile, e che la pagina invece tramuta in mistero portentoso: uomini con due teste, cinocefali, acefali, con code di cane, di serpente, di sirena, senza zampe o millepiedi.
Siamo “medievali” non quando siamo grossolani o retrogradi, ma quando ci accorgiamo del crollo dell’umano come unica misura certa
Qualunque forma si versa nell’altra, come in una miniatura dove una testa umana diventa una proboscide e poi, subito dopo, un tralcio attorcigliato alle lettere della pagina. La “natura” riscoperta partorisce il proprio sconcerto, ci dice – a distanza di secoli – che niente è mai davvero “naturale”: «gli artifici contro natura e la natura con gli artifici». Le composizioni proliferano nutrendosi dei propri passati; dappertutto nel gotico sembra insinuarsi l’anacronismo romanico, il tempo di ritorno, la persistenza del prodigio che non vuole scomparire. Leggiamo sempre in Baltrušaitis che
“Il Medioevo gotico non è irrigidito in un unico ordine di leggi, ma evolve incessantemente. […] Sopravvivenze e resurrezioni si susseguono e si aggrovigliano, portando alla fusione di canoni differenti. Una volta superato lo stadio del classicismo, è proprio il mondo gotico a favorire una rinascita di quel mondo romanico rispetto al quale, in origine, era in totale opposizione. Il dramma, la farsa delle forme sovrabbondanti e convulse succedono alla serenità e alla grazia manierata. Con i suoi pittoreschi capricci, le architetture fiabesche, le maschere e le figure patetiche, le statuine e le grottesche, lo stadio «ellenistico» apre la strada a un riflusso del fantastico”
Insomma: l’atto di definire precisamente una fisionomia del Medioevo si scontra con una turbolenza di riflussi, anacronismi e resurrezioni – discorso che vale per ogni epoca che si vorrebbe nettamente contrassegnata, inclusa la “nostra”. Così, nel groviglio di tempi che dimorano in noi, siamo “medievali” non quando siamo grossolani o retrogradi, ma quando ci accorgiamo del crollo dell’umano come unica misura certa; quando il millenarismo stringe attorno a sé il richiamo ineluttabile della fine, ma anche quando insiste a vedere, dopo la sua scongiura, il volto di un mondo nuovo. Siamo medievali soprattutto quando, in maniera avventurosa, reclutiamo immaginativamente alcune ossessioni di quegli “oscuri” passati, le risvegliamo e ne facciamo le figure del mondo contemporaneo: il vegetale, l’animale, lo storto, l’aberrante, il cosmico, il mostruoso – e l’ininterrotta concatenazione tra ciascuna di queste cose. Uno scambio fluido, filtrante in ogni dimensione della vita, che un antropologo dello scorso secolo, Piero Camporesi, nel suo Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue, avrebbe così sintetizzato: «Logica astrale, logica corporea e logica vegetale si muovono sulla stessa ellisse, percorrono gli stessi itinerari, obbediscono allo stesso calendario». Uno sparpagliamento dell’intelligenza in ogni dimensione cosmica, uno scuotimento dell’inerzia che prodiga vita, anima la materia o reagisce alla sua animazione, sia essa magia, miracolo o meccanica. Si pensi a tal proposito al rapporto medievale con le immagini: teatri di statue e crocifissi che parlano, sudano e sanguinano; che vengono strofinati, accarezzati e baciati fino alla consunzione; che agiscono, transustanziando la materia della fede in vera carne; un «senso di meraviglia e godimento nella rappresentazione che rompe i confini della rappresentazione ed entra nella vita stessa» chiosava Michael Camille in The Gothic idol: «in un mondo in cui immagini rare e costruite artificialmente si muovevano e sembravano parlare, […] le rappresentazioni che prendono vita rivelano questa estetica del movimento immanente all’immagine».
Un’estetica dell’animismo, diffusa nella cultura medievale, che oggi torna a visitarci nel nostro rapporto con le immagini, capaci di infiltrare ogni lato dell’esistenza quotidiana, di rivoltare intere campagne politiche, di ridefinire – con le loro magnificazioni scientifiche e i prodigiosi distanziamenti – la figura dell’universo per come credevamo di conoscerla. Un culto che fa della mediazione una forma di fede: che dubita dell’immediato, riconoscendo alla seconda natura delle immagini una potenza più forte, una capacità di agire in noi, di costruire e avverare interi universi. Non importa quanto dubitiamo, quanto siamo capaci di svelare i meccanismi: se lasciate agire – se credute malgrado tutto – le immagini ci muovono. E anche in questa fede potremmo dirci medievali.
Se le notifiche sono demoni, le macchine, mediando, funzionano come trasmettitori spirituali
Occorre peraltro sottolineare che la volontà (assai comune nel Tardo Medioevo) di credere all’animazione della materia non si basava semplicemente su una sciocca superstizione, ma su valutazione radicale della mediazione, anche quando patente. Era una fede nella materia come luogo di trasmissione divina; le immagini, i crocifissi, le reliquie sanguinanti potevano cioè agire anche per mano di altri, ma ciò non toglieva la loro capacità di veicolare messaggi, come per esempio nel teatro delle statue parlanti. Si prenda in considerazione, a tal proposito, tanto il saggio di Caroline Walker Bynum sulla Christian Materiality quanto il lungo studio dedicato all’animazione medievale di Jørgensen, Skinnebach e Laugerud, Animation between Magic, Miracles and Mechanics: Principles of Life in Medieval Imagery, dove leggiamo che:
“La mediazione patente non sminuiva il valore spirituale dell’apparizione-audizione divina, perché il busto dotato di una bocca, il tubo parlante che faceva da conduttore e il sacerdote ispirato che prestava la sua voce alla figura erano tutti media – o “bocche” – per il messaggio divino. Dio parlava attraverso la marionetta, attraverso il tubo, attraverso il sacerdote e l’intera animazione, tutti parte del sistema di trasmissione santificato. Era esattamente il carattere mediato dei suoni che assicurava la loro capacità di trasmettere verità superiori al di là della normale comprensione umana”.
Se le notifiche sono demoni, le macchine, mediando, funzionano come trasmettitori spirituali. Questa capacità di santificazione dei sistemi di trasmissioni, che trasforma un meccanismo in una tecnologia spirituale ricorre, in molteplici formati, attraverso tutta un’epopea che dalla statua parlante arriva al telegrafo, all’animismo elettrico e alle sue molte figliazioni – basti solo pensare che uno dei più noti giornali spiritisti prendeva il nome di Spiritual Telegraph, e che una celebre spiritista, Emma Hardinge Britten, spiegava come attraverso il telegrafo «gli spiriti invisibili potevano sibilare messaggi in sequenza».
Con l’animismo elettrico e il suo portato materiale, riemerge qualcosa che nella contemporaneità ammanta il mondo di incanto: l’Internet of Things, la possibilità che ogni oggetto possa perdere la sua prima specificità (la sua funzione inizialmente dichiarata) per diventare trasmettitore di informazioni e messaggi in un ecosistema vastissimo, che ci avvolge. Un bottone-computer, un orologio-telefono, oppure una statua, un frigo, una lampada, fino all’epidermide – alla pelle del mondo. O ancora, e più radicalmente, l’idea che, grazie proprio alle nuove tecnologie, possiamo riscoprire l’intelligenza diffusa nei materiali che credevamo soltanto inerti. Intelligenza disseminata anche dove meno pensiamo, e che ci costringerà nei prossimi anni a congedarci da un’idea di futuro come realizzazione di una fantasia fantascientifica modellata sull’umano per approdare invece al dissomigliante, al bizzarro, all’invertebrato, al mostruoso così vicino alle fantasticherie medievali. Come spiega Laura Tripaldi in Menti Parallele:
“La verità è che in molti casi gli automi che verranno non ci somiglieranno per niente: saranno amorfi e gelatinosi come amebe, o avranno l’aspetto di bizzarri invertebrati, capaci di percepire un mondo fatto di segnali a noi del tutto inaccessibili, e tuttavia saranno sistemi complessi e integrati, dotati di un corpo e capaci di ‘sentire’ con ogni centimetro dei materiali che li compongono”.
In qualunque caso, prima ancora di arrivare agli automi del futuro, oggi a divenire invertebrate sono innanzitutto le nostre teorie, le separazioni nette tra materia inerte e materia animata, tra vivo e morto, utile e inutile, visibile e occultato. Già da tempo l’Internet of Things opera una spiritualizzazione della materia non dichiarata ma onnipresente che, mentre parcellizza le proprie tecnologie fino a renderle invisibili, sembra prendere in carico, radicalmente, il motto deleuziano: polverizzare il mondo, spiritualizzare la polvere. Spirituale e materiale, notifiche e demoni, cloud celeste e logica astrale inestricabilmente riuniti. Ogni cosa santificata. Migrazione che, attraversando statue parlanti, santi, automi e cyborg, riapproda una volta ancora al mago, alla magia nera tecnologica, al suo regno d’incanto – ma anche di dominio sistematico e sorveglianza – che ci penetra quotidianamente per mezzo della Macchina algoritmica. Scorrete “data”, disse il poliziotto, per parafrasare il titolo di un celebre romanzo. Seguendo l’intuizione di Edoardo Camurri: «La Macchina algoritmica spiritualizza la nostra materia, cioè traduce e decodifica i nostri pensieri, sentimenti, comportamenti e, a sua volta, materializza il proprio spirito riversando contenuti per controllarci attraverso una programmazione di significati specifici destinati a ciascuno di noi. Codificare e decodificare. Materializzare e spiritualizzare. Immaginazione e spazio digitale».
Immaginazione e spazio digitale. Negli ultimi decenni proprio l’esplosione dell’Internet of Things che ci ha costretti a ricartografare lo spazio del nostro cosmo, e con esso quello dell’immaginazione. Con il proliferare di dispositivi, siti web, piattaforme e social (sempre sull’orlo di divenire cybercatacombe) abbiamo visto risvegliarsi anche nuove divinità, demiurghi tecnognostici, miti, storielle, creepypasta. Più lo sviluppo tecnologico si affina, invade qualsiasi oggetto, traccia mappe dettagliatissime che si estendono ovunque, più la polvere delle bizzarrie s’insinua in ogni anfratto della vita – la rende autenticamente spiritata. E ancora: più il regno di Internet cerca di urbanizzarsi, di organizzarsi in maniera chiara (con una vera e propria colonizzazione delle frontiere digitali), più esso prolifera le proprie imprendibili aberrazioni. Vale anche qui il principio che Baltrušaitis attribuiva al Tardo Medioevo nel momento in cui l’uso dei portolani – i manuali per la navigazione costiera – mutarono completamente il modo in cui veniva tracciata la mappa della Terra, ampliandone la conoscenza ma anche la congerie di leggende: «La conoscenza della Terra si sviluppa in concomitanza con le sue leggende. Le carte geografiche diventano mappe delle bizzarrie e delle meraviglie». Prendiamo, come caso emblematico, l’Europa mostruosa cartografata da Opicino De Canistris nel XIV secolo e, per corrispondenza, i glitches altrettanto bizzarri raccolti ovunque su Google maps: «Appena restituito alle sue linee reali, il mondo intero viene riafferrato dalla leggenda».
Favole tecnologiche, cybercatacombe, liminal spaces, techgnosis, santificazione e potenza daimonica della rete. Così, al margine della cattura del “reale” e del nostro senso di onnipotenza, s’invera, nei buchi lasciati aperti dall’Illuminismo, un altro senso oscuro del cosmo, sovra-naturale. Da sempre, i luoghi ritenuti più marginali covano immaginazioni prodigiose capaci di avverarsi, di spalancare un nuovo senso dell’ignoto, di diventare improvvisamente centri di produzione di altre realtà: «Il margine del libro ebbe un ruolo capitale nel risveglio generale dei mostri» (Risvegli e prodigi. Le metamorfosi del gotico). Nei confini nuovamente tremolanti del nostro tempo, i tempi tremolano, s’incrociano, producono insurrezioni, smuovono la “realtà naturale” in maniere impreviste: «La reazione contro un ordine naturale svilupparsi tramite i marginalia non tarda a penetrare nella realtà stessa integrandola alla finzione e trasformando la finzione in un fattore della realtà». Tutto ciò valeva per la vita ai margini dei manoscritti, ma vale anche per noi. Siamo ancora spersi, ostinatamente medievali – e forse è meglio così. Ce lo dicono le notifiche. Ce lo dicono i demoni.
La prima volta che mi resi conto dell’esistenza di Internet è stato quando mi apparve sotto forma di una pagina dell’ormai scomparso browser – allora navigatore – Netscape proiettata su uno schermo in piazza durante un mercatino di Natale: una dimostrazione di un provider locale in mezzo agli stand dei dolci e dei giocattoli. Lo ricordo come un’apparizione enigmatica in un contesto nazional-popolare. Mi avvicinai e cercai di capire di cosa si trattasse e pensai in seguito che fosse la nascita di un mondo meraviglioso, ma ancora racchiuso in una forma arcaica e noiosa, quella della finestra riempita di testo. Immaginavo che sarebbe cambiato, evoluto, diventato immersivo e affascinante, e che avrebbe assunto delle forme incredibili che allora non potevamo nemmeno visualizzare.
Anni dopo mi sono resa conto che l’utente potenziato che sognavo è realmente esistito in tempi lontani e non solo nella letteratura cyberpunk. Mi è apparso sotto forma di un monaco che attraversa l’Europa
L’altro mondo digitale che frequentavo al tempo era quello dei videogiochi, che per quanto ancora rudimentali erano già ambienti complessi, dotati di una propria estetica intrinseca, forniti di mappe, cartografie, sistemi di controllo ed organizzazione delle informazioni. Immaginavo che questi due mondi si sarebbero incontrati e magari fusi; invece, dopo tutti questi anni, Internet è ancora in gran parte costituito da pagine di testo o immagini che scorrono su uno schermo, anche se ora a volte lo schermo è tattile e spesso è portatile. Nonostante le evoluzioni estreme che ha subito il contenuto, la modalità di accesso alla rete – l’interfaccia tra la nostra mente e quel mondo di conoscenze collettive in espansione – è tuttora ancorata ai modi di lettura su schermo bidimensionale, al collegamento tramite link, e oggi allo scrolling. E l’utente è per lo più un lettore banale e, per la maggior parte del tempo, passivo: non è un navigatore, una razorgirl di Neuromante, un Hiro Protagonist di Snow Crash.
Anni dopo mi sono resa conto che l’utente potenziato che sognavo è realmente esistito in tempi lontani e non solo nella letteratura cyberpunk, una figura capace di accedere alla conoscenza attraverso strutture spaziali ricostruite nella propria mente o di servirsi dello spazio esterno come vero e proprio portale per costruire il proprio pensiero. Mi è apparso sotto forma di un monaco che attraversa l’Europa. La tonaca bianca, la cappa nera, qualche libro in una sacca, in fuga da un convento all’altro accusato di eresie sempre diverse. Passa la vita a costruire un palazzo mentale, a stabilirne le regole di crescita e a determinare le proporzioni di ogni stanza per poi disporre accuratamente al suo interno le proprie conoscenze.
Questo palazzo è un complesso meccanismo geometrico, spaziale e simbolico che si ricombina e si articola all’infinito nutrendosi di conoscenze e producendo pensiero inedito. Il frate domenicano che lo ha costruito, il filosofo Giordano Bruno, si fa conoscere in Europa per la sua memoria prodigiosa che lui coltiva grazie a una conoscenza approfondita delle antiche tecniche conosciute come “ars memoriae”. In particolare Bruno si rifà al metodo dei loci o palazzo della memoria, tecnica secondo la quale si costruisce mentalmente un palazzo o si visualizzano gli spazi interni di un edificio conosciuto e si dispongono all’interno le informazioni che si vogliono memorizzare associate a delle immagini particolarmente evocative. In seguito si ripercorrono con la mente le stanze e si incontrano nella sequenza spaziale le immagini che permettono di far riemergere le memorie “disposte” nello spazio. Questa tecnica interpreta l’associazione cognitiva tra spazio, memoria e informazione e riesce a produrre una sorta di superpotere per gli adepti che la padroneggiano e la esercitano: una capacità di memorizzazione potenzialmente infinita che si appoggia sull’amplificazione delle facoltà mentali grazie all’internalizzazione di informazioni spaziali e visive.
I palazzi di Bruno diventano un’interfaccia tra il mondo interiore e la realtà da conoscere, nonché strumento di produzione di nuovo pensiero
Giordano Bruno, come altri, si aggira da nomade tra la costellazione dei conventi europei del tardo Rinascimento, portando con sé solo la propria mente diventata ormai lo spazio liminale di accesso al palazzo delle sue conoscenze. Non si limita ad assorbire le antiche pratiche della ars memoriae, ma ne produce un’interpretazione personale che permette di tradurla da tecnica di memorizzazione a sistema di invenzione. Bruno formula un meccanismo spaziale combinatorio che è a tutti gli effetti un progetto architettonico potenziale di un edificio mentale, astratto e in movimento relativo, costituito da atri dalle geometrie variabili e stanze sovrapposte.
I palazzi di Bruno diventano un’interfaccia tra il mondo interiore e la realtà da conoscere, nonché strumento di produzione di nuovo pensiero. La mente viene abitata, percorsa, costruita, modificata, e lo spazio interiore diventa uno strumento per pensare basato sul rapporto tra la forza attiva delle immagini e la capacità organizzativa dell’architettura. Quest’ultima trascende le sue tradizionali risposte alle esigenze materiali: proteggere dalle intemperie, separare dallo spazio esterno, fornire comfort o privacy e diviene una modalità per dare forma al pensiero e accogliere la conoscenza.
Nella definizione delle sue tecniche, Bruno è ispirato dalle pratiche – tra il religioso e l’eretico – di Ramon Llull, filosofo, teologo e mistico medioevale, precursore di tutte le intelligenze artificiali, il primo ad aver immaginato che le facoltà mentali si potessero potenziare e esternalizzare fino a diventare meccanismi quasi autonomi di conoscenza. Nei sistemi lulliani l’organizzazione spaziale diviene sistema di relazioni mentali che permette di introdurre gerarchie e di connettere tra loro diverse dimensioni della realtà; per esempio le scale lulliane danno un ordine ai sistemi di valori e permettono di scendere e salire in alto e in basso nei gradini per passare dal generale al particolare, dal migliore al peggiore e via dicendo, mentre le ruote lulliane mettono in relazione attributi divini e forniscono risposte sempre diverse a interrogativi ancestrali funzionando come percorsi molteplici che vengono tracciati tra significati diversi. In questi esempi l’architettura è internalizzata e diviene modalità di costruzione e organizzazione della mente. Tuttavia questo rapporto tra spazio e pensiero può materializzarsi anche in senso opposto e gli edifici veri e propri possono consentire alle facoltà cognitive di dispiegarsi, potenziarsi e manifestarsi nella pietra.
Per la storica Mary Carruthers i monasteri benedettini medievali sono molto di più che delle semplici architetture che accolgono delle funzioni precise; essi incarnano vere e proprie macchine meditative tridimensionali sulle quali i monaci potevano appoggiarsi per ricordare passi delle proprie preghiere e delle proprie riflessioni, grazie a ripetizioni numeriche costanti che riaffiorano nel numero delle colonne di un chiostro, nella sequenza dei gradini, fino ai pattern delle pavimentazioni. Tutta l’architettura, costituita da “ancore” per il pensiero, è un’interfaccia immersiva che consente di connettersi al proprio spazio interiore e di potenziare le proprie capacità cognitive. La geometria del convento agisce come la mente estesa descritta dai filosofi e scienziati cognitivi Andy Clark e David Chalmers nel 1998, un principio secondo il quale le facoltà mentali si appoggiano e si nutrono nel rapporto con gli strumenti e gli ambienti esterni.
Tra Medioevo e Rinascimento le pratiche religiose legate al potenziamento della memoria si accompagnano e si confondono con quelle eretiche, in particolare quelle ermetiche ed alchemiche che vedono nelle rappresentazioni visive e spaziali la chiave per accedere alle logiche della realtà e al controllo delle proprie capacità interiori, e producono un campionario infinito di ruote, alberi e torri della saggezza, diagrammi cosmologici e palazzi mentali, un insieme di supporti visivi per aiutare lo sviluppo e la costruzione dell’intelletto e facilitare l’immaginazione produttrice. Il macrocosmo delle verità filosofiche e scientifiche è specchiato nel microcosmo delle loro rappresentazioni visive e spaziali.
Nelle loro manifestazioni, queste pratiche di esternalizzazione del pensiero incontrano alcune teorie cognitive contemporanee, come la già citata mente estesa di Clark e Chalmers, o la distributed cognition definita dall’antropologo Edwin Hutchin negli anni ‘90, teorie che dimostrano come le facoltà mentali si nutrano e si appoggino agli strumenti tecnologici e agli ambienti esterni. Il ruolo del “cervello” come sede del pensiero e delle attività intellettive è messo profondamente in discussione dall’idea di una mente che è prima di tutto “embodied”, incarnata, e quindi dipendente dalla presenza del corpo, e che in secondo luogo, si costituisce nello scambio continuo con gli strumenti, gli ambienti e gli individui attorno a noi e anche in relazione con lo spazio esterno, appoggiandosi perciò ai percorsi quotidiani e agli ambienti domestici, legandosi agli edifici, alle scuole, ai teatri, ai conventi che ospitano le nostre azioni e le nostre memorie, e le mettono in relazione attraverso le loro caratteristiche fisiche e spaziali.
Un caso particolare di mente estesa è quello della web extended mind, per cui la rete agisce come strumento che amplifica l’intelletto e diviene una vera e propria protesi delle facoltà mentali, consentendoci di potenziare la memoria, tradurre in tutte le lingue, e oggi con le AI accedere alle risposte a qualsiasi quesito. Da sogno fantascientifico di un’umanità dall’intelletto potenziato tramite le capacità fornite da Internet, questa prospettiva minaccia tuttavia di tramutarsi in un incubo, con le AI sempre più orientate ideologicamente, mentre l’immaginario di un futuro tecnologico visivamente complesso, immersivo e accattivante si è tradotto nella noia delle interfacce del presente, ben lontane dai complessi dispositivi medievali e sempre più simili a infiniti elenchi, finestre di testo, video verticali. La mente estesa digitale è ancora rinchiusa nello scrolling perenne, passiva e incanalata in percorsi sempre più rigidi e autoreferenziali condizionati dall’advertising personalizzato e dalla manipolazione algoritmica dei contenuti.
Allo stesso tempo, quel web rimasto così profondamente bidimensionale ha impiegato, fin dalla propria nascita, metafore spaziali e architettoniche proprio come quelle adottate dai dispositivi mnemonici: la finestra, la backdoor, il portale, il percorso, le chatrooms, cercando di descriversi come un vero e proprio ambiente per sfuggire ai propri limiti dimensionali e suggerendo quindi la potenzialità di adottare degli elementi spaziali e architettonici per dare una forma ai sistemi di relazioni tra i contenuti che lo compongono. Nonostante l’impiego ricorrente di queste metafore, la Rete non è mai veramente riuscita ad incarnarsi in spazi da percorrere come i palazzi della memoria per consentire un vero scambio tra corpi, mente e le loro estensioni digitali; e, come ricorda Valentina Tanni, anche se da sempre percepiamo Internet come un luogo, in realtà ne facciamo un’esperienza completamente incorporea. Quel paesaggio mentale, tridimensionale e selvaggio immaginato anche dagli scrittori cyberpunk potrebbe ritrovare una propria configurazione reinterpretando i sistemi mnemonici medioevali e rinascimentali di stampo ermetico, figure capaci di suggerire complessi ed enigmatici meccanismi spaziali di interazione tra mente umana e ambiente digitali. Parliamo di ricerche spaziali lontane dai tentativi esistenti di costruire il metaverso che si sono tradotti in versioni semplificate della realtà, e che subito ne hanno replicato la tendenza alla mercificazione o l’orientamento alla produttività.
Diagrammi ermetici, ruote occulte, palazzi della memoria, gli stessi monasteri benedettini, intesi come dispositivi meditativi tridimensionali, potrebbero oggi ispirare nuovi modelli epistemologici ed estetici per alimentare i rituali contemporanei di accesso e creazione del sapere immateriale; potrebbero consentire differenti modalità di organizzazione del pensiero grazie a nuovi tipi di relazione tra i contenuti digitali e i sistemi di fruizione, e aprire la strada ad una nuova sintesi tra mente umana e repertorio digitale delle conoscenze. Le potenzialità infinite della simulazione spaziale digitale potrebbero infine rendere quei mondi mentali esplorati dall’ermetismo accessibili, esplorabili e ricombinabili costituendo una vera e propria estensione delle facoltà intellettive.
Ad esempio, il teatro della memoria di Giulio Camillo, filosofo rinascimentale, è un modello di teatro che al posto delle sedute accoglie una sorta di enciclopedia in cui ad ogni voce corrisponde un’immagine e un complesso sistema di rimandi geometrici che lega gli elementi architettonici a quelli visivi; si tratta di un dispositivo che potrebbe suggerire così una nuova modalità di accesso per una Wikipedia tridimensionale e spazializzata. Un’enciclopedia online come questa potrebbe sfruttare le potenzialità dell’architettura e dei percorsi aperti, oltre alla forza evocatrice di elementi visuali per dare una nuova forma a quell’enorme archivio di conoscenze, consentendo contemporaneamente modalità di navigazione inedite e collegamenti inusuali tra le voci. Il “perdere tempo su Internet” teorizzato da Kenneth Goldsmith come pratica creativa e liberatrice potrebbe prendere i contorni di una vera passeggiata da flâneur nei meandri di uno spazio digitale che racchiude informazioni di ogni tipo.
Qualche raro caso che dimostra la potenzialità cognitiva del dotare di una forma spaziale i dispositivi per l’archiviazione e la costruzione della conoscenza esiste. La Uncensored library, ad esempio, è un progetto sviluppato su Minecraft in cui all’interno di un edificio neoclassico si trovano delle stanze corrispondenti ad alcune nazioni dove vige la censura. In quelle stesse stanze sono conservati scritti di giornalisti contemporanei censurati nei rispettivi paesi. Sfruttando l’aterritorialità di Minecraft, le stanze di questa biblioteca digitale consentono l’accesso ai testi vietati. La biblioteca virtuale funziona come un palazzo della memoria digitale: mima un’architettura che potrebbe essere reale e soprattutto disegna una specifica organizzazione del sapere su base geopolitica; come la biblioteca de Il nome della rosa, alle cui sale corrispondono delle lettere che compongono i nomi di collocazioni geografiche e in cui si trovano le opere degli autori provenienti da quelle terre. Un’architettura mentale o digitale può essere dunque capace di organizzare la conoscenza e di rimandare a territori più vasti.
Il videasta francese Chris Marker, autore di opere cinematografiche di culto come La jetée o il documentario Sans soleil, ha tentato di trasformare il modo in cui accediamo alle conoscenze in un territorio digitale, e lo ha fatto attraverso l’opera Immemory del 1997, accessibile su CD-rom. Immemory è configurata come una terra da esplorare, in cui ai luoghi di una cartografia immaginaria corrispondono le proprie memorie di epoche differenti sotto forma di fotografie, testi, riferimenti a oggetti. Il movimento attraverso i vari documenti consente di associare le idee liberamente e di costruire nuovi percorsi di lettura. Il visitatore diventa un esploratore e il percorso si costituisce come vettore di costruzione dell’immaginazione. La cartografia abitata da immagini significative diventa una materializzazione digitale delle carte che servivano come sistemi di ancoraggio della memoria in tempi medievali.
Progettare, disegnare l’esperienza dell’accesso e della fruizione dell’informazione contemporanea, immaginare dei percorsi multipli e dei sistemi combinatori potrebbe potenziare il rapporto tra spazio mentale e digitale e diventare una nuova frontiera di materializzazione dell’ambiente di Internet e dei suoi contenuti. Nuovi paradigmi che rileggono le ricerche visive medievali e rinascimentali per dare forma al pensiero potrebbero suggerire rinnovati rapporti tra informazioni distanti al fine di incoraggiare l’immaginazione creatrice e operare una forma di resistenza rispetto ai meccanismi sempre più coercitivi che operano nella rete contemporanea. Un ipotetico futuro che metta in discussione quella pagina bidimensionale potrebbe riallacciarsi al passato remoto dell’immaginario medievale e a quel frate eretico che vagava per l’Europa dandoci l’illusione di essere, almeno per un po’, davvero navigatori e non solo zattere in balia degli algoritmi.
Un mondo silenzioso, inaridito, senza creatività, senza espressività. Il mondo del disincanto è un mondo che non canta: nessuno intona gli antichi incantesimi, e la pelle del mondo non vibra – non muta. Il mondo del disincanto squalifica la molteplicità, e ci forza ad un unico orizzonte di possibilità: il razionalismo, ed il suo determinismo claustrofobico e angosciante. Non c’è spazio per animali parlanti, foreste pensanti o divinità propiziatorie: la carne, il legno, la religione sono solo oggetto di consumo.
Il processo di squalifica della magia e di chi la praticava, secondo Silvia Federici, è iniziato con l’avvento del capitalismo: il “nuovo ordine del mondo” spingeva ai margini della società chi non voleva rassegnarsi al lavoro salariato, alla proprietà privata, e alla famiglia mononucleare. Streghe, guaritrici ed eretiche presidiavano i confini del mondo incantato – e per questo vennero bruciate sui roghi.
Mentre stavamo preparando questa intervista, però, abbiamo deciso di indagare non solo gli aspetti del magico che sono stati repressi, ma anche quelli che sono stati recuperati, sussunti e reintegrati. Perché, se è vero che il capitalismo ha avuto bisogno di disincantare per imporre il suo dominio, è anche vero che ha stregato il mondo con trucchi occulti e magie oscure. Non a caso, infatti, i filosofi marxisti hanno spesso utilizzato metafore e riferimenti a fantasmi, stregoni, tavoli danzanti e giochi di illusione per descrivere il funzionamento del capitalismo. In questa tradizione filosofica, quindi, la magia viene recuperata come una possibile lente teorica per analizzare l’essenza polimorfa del mondo.
Come direbbe il mentalista Mariano Tomatis, cosa succede quando osserviamo il mondo disincantato con gli occhiali del reincanto? All’improvviso, ci rendiamo conto che tanti aspetti della nostra vita, che ci sembrano regolati da dinamiche razionali e materiali, sono intrisi di pensiero magico. L’etereità di Internet, le mistificazioni delle teorie del complotto, l’imprevedibilità del mercato finanziario, l’incanto dell’ideologia del progresso, l’occultismo neofascista e reazionario. Pensiamo di vivere nel razionalismo, e invece la magia si nasconde ovunque: informa il nostro vivere, contamina il nostro essere.
K-2: In Calibano e la strega, riferendoti al periodo della transizione al capitalismo, scrivi: “Il mondo doveva essere disincantato per poter essere dominato”. Oggi forse, passato un secolo da quando Weber, nel 1919, scrive del disincantamento del mondo, potremmo dire che quel processo è davvero compiuto: viviamo in un mondo disincantato. Tanto è vero che, come scrive Stefania Consigliere in Materialismo magico: “Da quando […] l’identità di Babbo Natale ci viene rivelata, la verità del disincanto è […] un assunto onto-epistemologico assoluto” e chi viola questi rigidi confini è considerato ridicolo, patologico, alieno. A questo punto partirei da qui: com’è avvenuto il disincantamento del mondo? E quali sono le infrastrutture del capitalismo contemporaneo che ci educano e ci tengono a esso ancorat3?
SF: Lo strumento principale del disincanto è l’esproprio dalla terra. Terra intesa in senso lato: quando parliamo di terra intendiamo anche le foreste, i mari, gli animali. Quello che un tempo era l’universo dell’incanto, composto di mondi creativi, nei quali si riproduce, ancora oggi, la vita. Mondi che il capitalismo ha dovuto regimentare, controllare. L’esproprio delle terre è un processo che comincia all’incirca nel XV secolo, e che continua oggi con l’urbanizzazione di massa. Il capitalismo vuole distaccare la popolazione del mondo da qualsiasi accesso autonomo ai beni della terra. Nel momento in cui sono riusciti a urbanizzarci, a chiuderci in questi grossi recinti che sono le nostre città, ci hanno allontanato dalla possibilità di autodeterminarci. E poi è in atto un processo di commodificazione: i capitalisti guardano ai beni della terra come ad un grosso emporio. La natura è diventata un terreno di conquista, di regimentazione, di calcolo. E non dimentichiamoci che anche la Scienza moderna si è fondata sul distacco della vita dalla natura. Il disincanto parte da qui: esproprio, separazione dalla terra, scienza del controllo, commodificazione del mondo e della natura. E continua oggi, con strumenti sempre più efficienti. Però, non sono d’accordo nel definirlo un processo compiuto. Assistiamo quotidianamente a grosse lotte che recuperano terreno: lotte indigene, contro la deforestazione, per la protezione dell’ambiente. La violenza con cui vengono represse è prova del fatto che il capitalismo non è riuscito a rompere il nostro rapporto con un altro mondo, con un’altra vita, con altre possibilità di relazioni sociali, che permettono alle lotte di continuare.
K-2: Come sostieni nei tuoi lavori, l’esproprio della terra è l’infrastruttura fondante del disincanto, ma non è l’unica…
SF: No, certo. Tramite lo sviluppo tecnologico assistiamo a una continua meccanizzazione del mondo, alla definizione della terra come macchina produttiva, e alla creazione di persone-macchina. Con l’AI (artificial intelligence) ci vendono l’idea che la tecnologia stessa possa essere la fonte della creatività. Ma non è così. Stiamo correndo verso un mondo disumanizzante, individualizzante, legato alle macchine. Io sono lontana da posizioni che celebrano lo sposalizio con la macchina, come quella adottata da Donna Haraway. Non abbiamo bisogno di nuovi cyborg: già ci hanno reso macchine.
L’idea con cui da tempo ci spaventano e ci disciplinano è che ci sono delle forze indipendenti dalla nostra volontà, che, se non procedono in una certa direzione, ci porteranno alla rovina
K-2: Max Weber definisce il disincantamento come un processo di “razionalizzazione” del mondo, in cui spiegazioni magiche e animistiche vengono sostituite da analisi logico-scientifiche. In Reincantare il mondo, però, proponi una lettura più politica dell’eredità weberiana, interpretando le parole del filosofo tedesco come un avvertimento: disincantamento significa vivere un mondo in cui non è più possibile pensare fuori dalla logica dello sviluppo capitalista. Questo mi fa pensare che il disincanto non chiami in causa solo politiche materiali: il disincanto è un vero e proprio attacco all’immaginario.
SF: Certo, è un attacco all’immaginario, alla possibilità di un’umanità concepita come creativa. Lo stanno facendo con la guerra, con la paura riguardo alla sussistenza, al futuro. Re-incantare vuol dire recuperare, reclamare, ricostruire. Riprendere il controllo di quella parte della vita che non è già completamente controllata dalla nascita fino alla morte.
K-1: In Calibano e la Strega, sostieni che la magia rappresentasse un ostacolo all’emergere del “nuovo ordine del mondo” capitalista. Questo perché la magia apriva un ventaglio di possibilità infinite alla vita umana; molteplicità che mal si coniugava col bisogno di meccanizzazione – ovvero il bisogno di rendere tutto regolare e riproducibile nella stessa, immutabile maniera. Come convincere un gruppo di persone ad andare a lavorare tutti i giorni alla stessa ora, se i cattivi presagi, le profezie, o il volere degli astri li vedrà destinati a far altro? Come convincere qualcuno a lavorare un pezzo di terra, se questa è abitata da spiriti infausti? Nel libro dedichi una parte dell’analisi proprio alla meccanizzazione del tempo, scrivendo “la produzione filosofica del XVI-XVII secolo ha progressivamente abbandonato la profezia sostituendola con il calcolo delle probabilità”. Mi sembra che oggi, però, nell’Europa contemporanea, l’interesse per pratiche magiche, profetiche e divinatorie stia riemergendo. Letture di tarocchi, piani astrali, incantesimi o scongiuri, hanno sempre più attrattiva, forse perché rappresentano delle modalità tollerate per sfuggire al razionalismo imperante. Come tu argomenti, però, queste pratiche, anche se un po’ stregonesche, non sono più perseguitate perché oramai incapaci di compromettere la regolarità del comportamento sociale nel suo insieme. Insomma, la magia non fa più paura al capitalismo.
SF: Sì, sono palliativi.
K-1: Eppure mi sembra che la tolleranza verso alcune pratiche “magiche” valga solo in ambienti culturalmente elitari. Questo mi ricorda quel passaggio di De Martino che parla della nascita della scaramanzia, nata in seno alla borghesia napoletana settecentesca, che, se da un lato non voleva rinunciare al pensiero magico, dall’altro voleva dissociarsi dalle sue origini popolari e credulone. Nasceva così un approccio nuovo, moderno e borghese alla magia, che si basa sull’adottarne alcune pratiche (“Che segno sei?”), per poi distaccarsene attraverso l’(auto)ironia (“Io comunque mica ci credo davvero all’oroscopo…”). Un doppio standard che riassume bene la fascinazione per l’incanto che hanno spesso quelle persone che sono troppo colte per arrendersi al razionalismo capitalista, ma anche troppo colte per credere davvero alla magia. Oggi, questo rapporto ambiguo ha favorito processi di commodificazione e di coolificazione di alcune pratiche “magiche”, che diventano merci desiderabili, reintegrate in circuiti economici capitalisti. In questo modo, la magia è disinnescata del suo portato creativo e disturbante. Quando, però, i subalterni credono sul serio alla magia – e, soprattutto, se davvero ne temono le conseguenze – allora la tolleranza è ben diversa: in Italia storie di persone che parlano con le Madonne, vedono gli UFO, o si fanno curare da maghi o guaritrici finiscono sulle prime pagine dei giornali, condite da un vocabolario trito e ritrito: imbroglio, truffa, creduloni, ignoranti, irresponsabili, complottisti. C’è una differenza di classe nel modo in cui viene socialmente percepita la magia?
SF: Ti dico la verità, su questo non sono molto preparata, perché sono cinquant’anni che vivo lontana, quindi tante cose dell’Italia ormai non le so più. Però mi sembra che la differenza fondamentale tra magia popolare – che senz’altro non è rivoluzionaria, ma è piuttosto innocua – e magia borghese, è che quest’ultima è legata al controllo. La magia popolare, come la religione, è una protezione contro il male, una sorta di vaccinazione. Ma non ha desiderio di controllo, piuttosto cerca l’auto-tutela. Mentre la magia praticata a livello borghese, nei secoli è stata usata dal capitalismo come forma di controllo. Marx diceva che il denaro stesso ha un funzionamento magico. Ma pensando ad altri esempi, mi viene in mente lo spiritismo dei salotti, delle sedute spiritiche (séances). Non a caso la séance è diventata un elemento chiave nella letteratura dei romanzi gialli, perchési presta all’imbroglio. È una magia che cerca di controllare quello che si percepisce come incontrollabile: un mondo di forze psichiche.
K-1: Pensando al sodalizio tra spiritismo, borghesia e potere, mi viene in mente la seduta spiritica che nel 1978 rivelò ad alcuni esponenti della DC dove fosse nascosto Aldo Moro.
SF: (ride) Questo non lo sapevo.
K-1: Ma anche le sedute spiritiche di Gustavo Rol, che erano sede di incontri dell’elite industriale e culturale italiana…
K-2: Io vorrei fare un passo indietro, e ritornare a quando Silvia prima ha citato la “magia” del denaro. Sappiamo che Marx ha spesso usato metafore magiche nel suo lavoro per descrivere il funzionamento del capitalismo. Alcune di queste suggestioni sono state riprese da autori che hanno suggerito che il capitalismo stesso potrebbe essere “un sistema stregonesco”, però “senza stregoni”. Tu stessa, Silvia, quando in Reincantare il mondo scrivi “siamo ipnotizzati dalle innovazioni tecnologiche”, usi un termine che richiama all’incantesimo, alla malia, alla fascinazione.
SF: Tutto il discorso dell’economia capitalista è un discorso stregonesco. L’idea con cui da tempo ci spaventano e ci disciplinano è che ci sono delle forze indipendenti dalla nostra volontà, che, se non procedono in una certa direzione, ci porteranno alla rovina, il mondo non andrà avanti e via dicendo. L’ideologia capitalista ci spaventa continuamente, e lo fa evocando l’esistenza di forze presumibilmente incontrollabili. Pensiamo all’economia. Qui, in USA, alla televisione c’è sempre qualche economista che ci parla del tasso di disoccupazione come se fosse un’entità autonoma, che quindi dobbiamo imparare a comprendere e rispettare. Quello che non si dice è che in realtà sono individui in carne ed ossa che decidono, che cospirano. Tagliano fondi, prendono decisioni che affamano, uccidono, creano guerre; sono persone con piani, progetti e responsabilità specifiche. Io ho scritto un poema proprio sulla cospirazione in questo senso: In praise of conspiracy theory [di cui trovate una traduzione – inedita in italiano – in calce a questo articolo]. La stregoneria capitalista ci induce a pensare che le forze economiche siano autonome, che esistano indipendentemente dalle decisioni della classe capitalista, e che al massimo i capitalisti siano maghi che le indirizzano, ne aggiustano la direzione. Ma è un discorso mistificante, in cui la responsabilità di specifiche classi spariscono. Sembra che i tassi di interesse ti impongano determinate scelte, ma sono determinate classi che scelgono di affamare certi gruppi di persone, di tagliare i fondi per i servizi, di investire in armamenti. Questa è la stregoneria capitalista. Si parla di economia come si parla di un evento naturale, di un temporale, qualcosa che non si può controllare, un evento atmosferico di cui, al massimo, possiamo capire da dove tira il vento per sfruttarlo.
K-1: Magia popolare, magia borghese, magia capitalista… Forse stiamo perdendo la bussola? Cosa è magia, e cosa non lo è?
SF: Attenzione, sono magia diverse. C’è una magia che possiamo dire reale; ricordiamoci che mageia rimanda alla conoscenza. L’origine del concetto di magia aveva a che fare con il funzionamento della natura, con la continuità tra mondo umano e mondo naturale. Questa magia è legata ad un mondo naturale incontrollabile, impossibile da regimentare. Questa magia è l’incanto del mondo: è connaturata ad un mondo creativo, vivo, che riserva sorprese, non manipolabile. Poi c’è una magia popolare che si usa per difendersi. Mi riferisco alle credenze popolari, alle scaramanzie, ai culti religiosi: sono forme di autodifesa, di autotutela. E infine, c’è una magia che serve a controllare, e che per lo più è praticata dall’alto. A partire dalla magia rinascimentale: il mago del Rinascimento non era un proletario o un sovversivo; era una persona che usava l’alchimia in funzione del controllo sociale. Quindi, sì… ci sono diverse concezioni di magia.
Il pensiero illuminista, emerso come una fiammella nel buio per illuminare le tenebre dell’oscurantismo, dopo tre secoli si è trasformato in un faro sparato in faccia
K-1: Eccoci di fronte a tre macro-categorie del magico: la magia come conoscenza, la magia come palliativo e la magia come controllo. Mi chiedo allora dove si inseriscano nuovi tipi di pensiero magico “oscuro”: le fantasie di complotto (le conspiracy theories), il neoesoterismo fascista. C’è da dire che spesso, inoltre, i momenti di crisi del capitalismo sono stati accompagnati da grande fascinazione per l’occulto. Pensiamo alla seconda Guerra Mondiale e al nazismo stesso, che ha sussunto fortemente un immaginario magico-esoterico, a partire dal simbolo della svastica…
K-2: Oppure al capitolo QAnon e il neofascismo statunitense, che sta utilizzando un immaginario molto stringente – che colma forse una necessità di incanto – di trovare nuovi simboli, nuove credenze da rendere collettive, ma che veicolano narrazioni dell’orrore, fatte di satanisti, cannibali pedofili e altre atrocità degne di un film horror… Come inquadriamo questo tipo di pensiero magico?
SF: La teoria dei pedofili che violentano i bambini viene usata per espellere gli omosessuali dalle scuole. Si proibiscono anche certi libri, accusati di corrompere i giovani, e si accusano le persone trans di essere molestatori. Tutto questo va indagato e denunciato. Ma quello che è in atto è fondamentalmente una guerra di classe. È razzismo, nazionalismo, odio verso i migranti, odio verso persone trans, bisessuali, omosessuali. Ci sono poi gli attacchi alle spese per il welfare, l’apologia della polizia e dell’esercito, l’affermazione del diritto ad armarsi. Tutto questo viene venduto come diritto all’auto-difesa dei bianchi, dei cittadini americani a cui viene detto che i migranti portano via lavoro e privilegi. Trump è centrale in questo processo: è percepito come il loro difensore. C’è una classe dominante, soprattutto repubblicana, che si può permettere di dire qualsiasi cosa, e che da mesi difende lo sterminio dei palestinesi – anche se su questo tema, comunque, repubblicani e democratici sono completamente d’accordo. Oggi assistiamo al ritorno delle forme più brutali di colonialismo. La Palestina è cancellata dalla mappa, perfino dal linguaggio dei media. In Italia non si usa mai la parola Palestina a livello ufficiale. Anche questa è una forma di magia nera, perché cancellandola mistifichiamo lo sterminio, le violenze, le torture sempre più atroci. Però la Palestina non scompare. Questo per dire che, alla fine, dietro il gran calderone delle credenze magiche, esoteriche, dell’immaginario horror, ci sono solo violenze tangibili, materiali, radicate in scelte politiche.
K-2: Tu ti sei occupata molto di caccia alle streghe, scrivendo come questa abbia contribuito all’espandersi del capitalismo. La storia moderna ci parla del Medioevo come un periodo oscuro, che è stato rigettato in favore dell’ingresso in un grande periodo illuminato, fatto di progresso: eppure potremmo dire che forse è l’esatto opposto. Ora viviamo in un periodo di grande oscurantismo. Forse alla fine, però, questo oscurantismo non è poi così nuovo.
K-1: Il pensiero illuminista, emerso come una fiammella nel buio per illuminare le tenebre dell’oscurantismo, dopo tre secoli si è trasformato in un faro sparato in faccia. La luce blu della razionalità e del progresso ormai non ci lascia nemmeno più dormire in santa pace. Più assistiamo all’avanzare del capitalismo, più vediamo condensarsi, nei suoi anfratti, i suoi scarti putridi: crisi climatica, controllo di massa, guerre e genocidio. Per avviarci verso la conclusione di questa chiacchera, ti chiedo, Silvia, cosa c’è di oscuro nel tecno-illuminismo?
SF: Quello che c’è di veramente oscuro è la dissociazione dalla realtà che viviamo quotidianamente. Non sappiamo, per esempio, quanto sfruttamento, quanta pena, quanta lotta, nascondono le cose che usiamo: computer, cibo, vestiti. Se potessimo fare una radiografia degli oggetti che usiamo vedremmo chiaramente la struttura razzista, coloniale, violenta della divisione internazionale del lavoro. Questo per me è oscurantismo: la dissociazione totale rispetto alle logiche di riproduzione della nostra vita. Io penso che, paradossalmente, ci sia più oscurantismo in questa dissociazione che nelle ideologie del complotto, che mi sembrano solo dei calderoni in cui si mescola un po’ di tutto. Le teorie del complotto vanno studiate, certo, ma alla fine servono solo per dare apparenza di dignità a posizioni che sono solo ingiuste e crudeli. Poi, c’è un altro aspetto da considerare quando si parla di nuovo oscurantismo: l’emergere di gruppi religiosi fondamentalisti in varie parti del mondo. Penso, per esempio, ai gruppi neo-pentecostali in Brasile, che attraggono giovani proletari e persone appartenenti alle comunità indigene. Attraverso la propaganda di sette cristiane fondamentaliste, pentecostali, evangeliste – organizzate e finanziate dalla destra negli Stati Uniti – la credenza nella stregoneria si sta diffondendo in varie parti del mondo. Anche il Vaticano, che si trova oggi in competizione con l’emergere del neo-pentecostalismo, ha recuperato la credenza nel Diavolo e ogni anno organizza corsi per esorcisti. A partire dagli anni ‘80, il Fondo monetario e la destra cristiana fondamentalista hanno invaso il mondo contemporaneamente. È l’alleanza della croce con la spada. Come nel XVI secolo. Africa e America Latina stanno assistendo a un vero e proprio ritorno della ‘caccia alle streghe’, le cui cause sono da ricercarsi nel diffondersi di sette cristiane fondamentaliste, in concomitanza con processi di privatizzazione ed esproprio delle terre ai fini di attività estrattiviste.
K-2: Questa è una delle tesi che sostieni in Caccia alle Streghe, Guerra alle Donne, dove scrivi che l’intensificarsi delle accuse di stregoneria nell’Africa post-coloniale è uno degli effetti collaterali della cosiddetta “integrazione” dei paesi nell’economia globale.
SF: Sì, questi due fenomeni sono collegati. I fondamentalismi religiosi sono l’altra faccia dell’aggiustamento strutturale, dei progetti di sviluppo economico, della ricolonizzazione del cosiddetto Terzo Mondo attraverso la politica dell’indebitamento. Il ritorno della credenza nella stregoneria e della “caccia alle streghe” va senz’altro collegato ai processi messi in atto dall’espandersi dei rapporti capitalisti, alle varie forme di guerra che governi e corporations ingaggiano contro intere comunità – che spesso hanno la sfortuna di trovarsi in territori ricchi di risorse minerarie e energetiche. Se non riconosciamo questi rapporti rischiamo di ricadere nella perversa tradizione che descrive le accuse di stregoneria solamente come un fenomeno folklorico, come usanze caratteristiche di popolazioni cosiddette “non civilizzate”.
Poesia in conclusione di Midnight Notes #9 (1988).
Elogio alla teorie cospirazioniste
Cospirare
etimologicamente respirare insieme.
Quindi domanda numero uno.
I nostri padroni non condividono gli stessi sospiri
alle nostre troppo scarse prestazioni?
E loro, nelle stesse stanze ovali,
non pianificano e complottano
come spremere le ultime gocce di sangue
ed escogitano punizioni appropriate
se la carota che penzola di fronte a noi
non riesce a convincerci che dio stesso
ha ideato
le loro tabelle di produttività?
Cospirare, terribile parola
piena di minacciose riverberazioni;
porte chiuse
ordini dati in sordina
cattive intenzioni.
Impossibile! – direte voi.
Ma dalla propaganda di destra
non ti far fregare.
Il proiettile che trapassa
la tua testa
è stato pianificato per me e te
già dall’inizio del
tempo del Capitale.
E quel taglio in busta paga
che così in profondità ci ha attraversato
le tasche
strappandoci i pantaloni
è tutto nella logica del sistema.
Quindi attenti alle
teorie cospirazioniste della storia.
Nessun sospetto ci è permesso,
fratelli e sorelle,
non allungate gli occhi
per leggere tra le righe
o per seguire una traccia di sangue
sotto le scarpe dei nostri padroni.
Qua parliamo di stocks, bonds e profitti.
Il prezzo dell’oro scende?
C’è una sparatoria in Sud Africa.
I tassi di interesse salgono?
Affamiamo in Nigeria.
Quello che vedi è quello che ti danno
e ce lo dicono.
Ma io so che gli stocks non vanno in giro con una pistola
e che i paper bonds non possono decidere
il prezzo di una bottiglia di latte
che farà morire di fame un bambino
in una baraccopoli dell’impero.
E nessun organigramma aziendale manda
mani sgocciolanti di sangue
a terrorizzare di notte
i vicoli di El Salvador
per quella ferita nella carne
che farà quadrare i loro profitti.
Tra gli stocks e i
livelli di disoccupazione
i bonds e le camere della tortura
ci sono le consulenze
di decine di uomini,
alcuni ferocemente spudorati
altri che rabbrividiscono alla luce del giorno
come vermi sotto un mattone appena alzato.
Pellegrini senza tregua
in limousine blindate
si congregano nelle Mecche dei loro
omicidi,
New York, Londra, Ginevra,
dove si prendono le decisioni
il cui riverbero diffonderà paura
nei quattro angoli
del mondo del Capitale.
Nessuna cospirazione, tu dici?
Con quale creazione linguistica
dovrei chiamare l’atto e il momento
in cui, schiacciando il mozzicone di una sigaretta,
alcuni uomini decidono per un 100%
di aumento
che toglierà il cibo dalle nostre tavole
e ci farà passare le notti insonni
costantemente calcolando
le nostre possibilità di sopravvivenza.
Vai, allora
cantiamo le lodi
alle teorie cospirazioniste della storia.
Fino a che ci saranno uomini
che siedono e pianificano azioni
che causano la morte di alcuni di noi
nessuna mistificazione concettuale
o gioco di parole
mi impedirà di concludere
che stanno cospirando contro di noi.
(Silvia, Port Harcourt, 1985)
Traduzione di Alberico Ricci