“La luce diurna e razionalista della storia moderna si va spegnendo, il suo astro declina, avanza il crepuscolo, e ci avviciniamo alla notte”. Così scriveva il filosofo russo Nikolaj Berdjaev, cristiano e anticomunista, nel 1923, in un’opera intitolata Nuovo Medioevo. Nella prospettiva misticheggiante di Berdjaev la modernità era un progetto fallito, che aveva esaurito la sua spinta propulsiva, perché nel momento in cui aveva inteso liberare l’uomo dall’ambito spirituale si era tolta il terreno da sotto i piedi. In realtà, col senno di poi, la modernità è andata avanti ancora per un bel po’. Ma oggi – un secolo esatto dopo le parole di Berdjaev – le suggestioni sul “nuovo Medioevo” sono tornate d’attualità. Lo scrittore e artista James Bridle le ha popolarizzate nel suo saggio Nuova era oscura, sottolineando le conseguenze impreviste della rivoluzione digitale.
“La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Questa celebre frase di Gramsci sull’interregno è ormai diventata senso comune. Pensatori di diverse estrazioni cominciano a riflettere su cosa verrà dopo la crisi sistemica in cui il capitalismo sembra al momento incagliato. Lo storico inglese Eric J. Hobsbawm è stato uno dei primi, constatando alla fine del suo Il secolo breve come il XX secolo fosse avviato a concludersi “in un disordine mondiale di natura poco chiara e senza che ci sia un meccanismo ovvio per porvi fine o per tenerlo sotto controllo”. Nel 2009 l’economista Giovanni Arrighi ipotizzava per il futuro prossimo “un ritorno stabile al caos sistemico dal quale [il capitalismo] ebbe origine seicento anni fa”. E più di recente, il sociologo e economista tedesco Wolfgang Streeck ha profetizzato che la crisi del capitalismo produrrà “una transizione lunga e incerta, un tempo di crisi vissuto come nuova normalità” che offrirà “ricche opportunità a oligarchi e signori della guerra, mentre impone incertezza e insicurezza a tutti gli altri, in qualche modo come il lungo interregno che iniziò nel V secolo d.C. e che viene oggi chiamato Età oscura o Medioevo”.
È più di un secolo, dunque, che continuiamo a essere ossessionati dal Medioevo, a vedere il Medioevo come una sorta di doppio oscuro della società in cui viviamo. Per il pensiero tradizionalista, il Medioevo è un paradiso perduto; per il pensiero progressista è in incubo potenziale, un buco nero da cui la società moderna è emersa e in cui rischia costantemente di ricadere. Ma anche il modo in cui ne siamo ossessionati cambia a seconda dei momenti storici: quando ne scriveva Berdjaev la suggestione di un nuovo Medioevo che fosse dietro l’angolo era una malattia infantile, quando ne scriviamo oggi è un disturbo senile.
A differenza degli anni Venti e Trenta del Novecento, negli anni Venti e Trenta del Duemila la modernità è pienamente dispiegata. Cento anni fa la suggestione del Medioevo era uno dei poli del famoso motto luxemburgiano “socialismo o barbarie”: o il pieno dispiegamento della società moderna e il superamento delle sue contraddizioni interne per arrivare a una forma sociale superiore, oppure la ricaduta nel buio della pre-modernità. Il Medioevo era dunque uno spauracchio che ci invitava all’azione per indirizzare sui giusti binari un processo storico. Oggi è sempre più chiaro che il crollo del socialismo ha rappresentato anche una ridefinizione della modernità novecentesca. Come dimostra l’incapacità di azione della sinistra socialista da trent’anni ad oggi, non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume. Se non possiamo più avere il socialismo, il pensiero di un nuovo Medioevo diventa qualcosa che contempliamo con terrore, un orrore inevitabile che ci aspetta.
La modernità sembra davvero, come scriveva Berdjaev, aver esaurito la sua spinta propulsiva senza essere riuscita a fare il salto evolutivo che l’avrebbe portata a un livello superiore – e il postmodernismo è lì a dimostrarlo. Invischiati in una logica culturale fatta di corsi e ricorsi storici che si avvitano su loro stessi, l’incapacità di immaginare un futuro è tale che anche le più semplici manifestazioni di progresso provenienti da luoghi che per una semplice questione di sviluppo ineguale combinato stanno vivendo ora ciò che l’Occidente ha vissuto nel XX secolo ci sembrano venire dal futuro. I turisti e gli youtuber occidentali affascinati dagli skyline e dalle luci delle città cinesi pensano di star vedendo Cyberpunk 2077, ma stanno invece vedendo i nostri anni ‘50.
A riportare indietro le lancette della storia e resuscitare l’ancien régime non saranno i miliardari di Facebook e Google, ma i signori della guerra e i proprietari terrieri
È questo il punto centrale: non si tratta di fare paragoni tra l’età presente e il Medioevo, ma di vedere il Medioevo come un antesignano di ciò che sta al termine dell’età presente. Certo, la personalizzazione crescente della politica ricorda l’epoca delle dinastie e dei nobili, i colossi tecnologici che dominano l’economia globale rimandano a una concezione feudale dei rapporti di forza, le grandi istituzioni sovranazionali sono paragonabili a papato e impero, la diffusione dell’inglese come lingua franca fa pensare al latino medievale, le teorie del complotto che oggi vediamo ovunque sono intrise dello stesso millenarismo di quelli che chiamiamo “secoli bui”, la proliferazione delle “zone economiche speciali” con ordinamenti giuridici ed economici particolari ricordano la frammentazione della sovranità in spazi come il Sacro Romano Impero. Eppure sono paragoni imperfetti o fuorvianti: le dinastie politiche ci sono sempre state, sono il prodotto della democrazia in contesto di organizzazione sociale borghese; i colossi tecnologici sono comunque imprese capitaliste; le “zone economiche speciali” sono create dagli stati, sono dunque il prodotto di un esercizio di sovranità. Tutte queste cose non sono segni di un nuovo Medioevo; se mai, sono possibili proprio perché non siamo ricaduti in un nuovo Medioevo.
Nel momento storico che stiamo vivendo, la modernità è effettivamente invischiata in una serie di contraddizioni – che riguardano tutte il suo modo di produzione, il capitalismo. Come ha scritto Arrighi ormai vent’anni fa, il capitalismo ha raggiunto per l’ennesima volta i suoi limiti, e se in passato è riuscito a spingerli in un po’ in là e posticipare la sua crisi tramite l’espansione geografica – quella che il geografo David Harvey chiama “spatial fix” – stavolta il meccanismo sembra essersi inceppato per la natura finita dello spazio sul pianeta. Nei suoi cicli di accumulazione, il centro del sistema capitalista è passato dall’essere una città stato all’essere un principato (le Province Unite), poi uno stato (la Gran Bretagna), poi un continente (gli Stati Uniti). L’ultima volta che il sistema si è trovato a far i conti con i suoi limiti, negli anni Settanta, ha risolto temporaneamente la questione integrando la Cina nell’economia globale, ma ogni nuova integrazione aumenta la competizione interna al sistema rendendo meno efficace la cura, e in più nell’attuale epoca di transizione non esiste un’unità politica più grande che possa farsi centro di una nuova accumulazione.
Oltre a questa contraddizione geografica, c’è quella relativa alle risorse e alla distruzione ambientale, anche quella ormai arrivata al suo limite: come hanno notato molti osservatori – su tutti lo scrittore William T. Vollmann nel suo Carbon Ideologies nel 2018 – non possiamo avere gli standard di vita della modernità senza distruggere completamente il pianeta in cui abitiamo, e non possiamo limitare i danni al pianeta senza rinunciare completamente agli standard di vita della modernità. Non è una questione di evocare un futuro alla Mad Max, è una questione – come ha sostenuto l’economista cinese Li Minqi, che li ha fatti per la Cina – di noiosi calcoli sulla percentuale di riduzione delle emissioni del nuovo stock di beni capitali, la percentuale di nuovo stock installato ogni anno, e la crescita del consumo energetico annuale.
Finché abbiamo il tempo di scrivere e di leggere libri sul tecnofeudalesimo – come Tecnofeudalism dell’ex ministro dell’Economia greco Yanis Varoufakis – è un segnale che il nuovo Medioevo non è ancora qui. Per capire che faccia avrà il nuovo Medioevo non bisogna guardare agli oligarchi del settore tecnologico – che non sono certo dei signori feudali, ma dei capitalisti non diversi dagli oligarchi di qualsiasi altro settore – ma agli angoli di mondo in cui il sistema capitalista moderno è già collassato o si fonde con forme premoderne di sovranità creando territori ibridi. Non è un caso che i più grandi fan contemporanei del Medioevo come ideale di sistema economico, gli anarcocapitalisti e i libertarian, guardino a questi esempi: dietro la dicotomia apparente mercato-stato sta in realtà un rigetto del tratto migliore della modernità, l’universalismo. Non sono fondamentalisti del mercato, perché non hanno problemi a detenere rendite di posizione; non sono nemici dello stato, perché non hanno problemi a occuparlo e usarlo per i loro scopi: sono se mai difensori del particolarismo contro l’universalismo, di cui rifiutano l’implicita apertura all’inclusione delle classi subalterne. Siamo ancora (o stiamo tornando) alle Riflessioni sulla rivoluzione francese di Edmund Burke.
Uno di questi esempi è la Somalia degli anni Novanta, collassata nella guerra civile dopo la fine della dittatura di Siad Barre, con lo stato che era quasi scomparso in favore di forme di controllo del territorio basate su unità familiari e di clan, e la legge moderna sostituita dal diritto consuetudinario locale. Michael Van Notte, avvocato olandese fondatore di una serie di think tank libertarian, la vedeva come una forma embrionale di economia senza stato, il sogno di ogni neoliberista conseguente; in realtà era solo capitalismo tribale. Oppure luoghi come Dubai – ma si potrebbe dire anche le campagne agricole del centro-sud Italia – dove il capitalismo è gestito da un’élite di sangue, con una classe media comprata e una sottoclasse di manodopera servile importata dall’estero, segregata e privata di diritti. A riportare indietro le lancette della storia e resuscitare l’ancien régime non saranno i miliardari di Facebook e Google, ma i signori della guerra e i proprietari terrieri.
Il capitalismo è stato a suo tempo un sistema economico enormemente progressista e la borghesia è stata una classe sociale enormemente rivoluzionaria. Ha spazzato via tutte le relazioni feudali, cancellato le superstizioni religiose, oggettivato – un’oggettività mediata dal denaro – tutti i rapporti individuali, strappato tutti i veli ideologici che ricoprivano e santificavano la società premoderna. Ha rivoluzionato continuamente le forme e i mezzi di produzione, provocato un’esplosione tecnologica senza precedenti a cui dobbiamo le nostre agiate condizioni di vita attuali, inconcepibili persino per i monarchi premoderni. Almeno in Occidente, dove tutto ciò è ormai una conquista antica, tendiamo a dimenticarci di questo ruolo positivo. Ma ne siamo inconsciamente coscienti, perché è da questa coscienza che viene il nostro timore e la nostra ossessione per il nuovo Medioevo.
Nel periodo di ascesa della modernità, il capitalismo era una macchina che trasformava i piccoli produttori agricoli in proletariato; nel periodo postmoderno (almeno in Occidente) il capitalismo è una macchina che trasforma i proletari in piccoli produttori – possiamo riassumere così la fase di passaggio dal fordismo al postfordismo. Se sembra un ritorno indietro è perché è un ritorno indietro. Il capitalismo sembra aver finito la benzina ed essere arrivato a fine corsa, il socialismo non ne ha raccolto il testimone. L’ultimo scherzo che il capitalismo ci farà, dopo averlo odiato così tanto e così a lungo, è che arriveremo a rimpiangerlo.