Vogliamo tutt’altro

Dalla Global Sumud Flotilla ai blocchi dei portuali: anatomia di un movimento

Che succede quando la gente riscopre la forza di camminare assieme per strada per ore e ore, tanto che si siedono sull’asfalto e si dimenticano di tornare a casa? Abbracciarsi, non sentirsi sol*, cantare quasi urlando, ma non sentire la propria voce perché si confonde con quelle che mi stanno accanto. Cosa sta succedendo? Bambin*, insegnati, student*, opera*, facchin*, grafici, artist*, parlamentari, autist* del tram, insomma tutti quant*. Tutt* quant* sono mesi che hanno visto, hanno sentito, sono andati e sono tornati, hanno pianto e si sono incazzat* e ora hanno detto basta.

Per gentile concessione di Nicola Vincoli

Israele è oggi lo stato democratico-autoritario, terrorista e fondamentalista più pericoloso del mondo. Gli Stati Uniti lo sostengono perché il suprematismo bianco e colonialista ha adottato il sionismo israeliano come suo figlio prediletto. L’Europa, timida e subalterna, è tenuta in scacco da Italia e Germania: lo stesso asse fascio-nazista che un secolo fa la governava.

Da anni non si vedeva una piazza di queste dimensioni. Sono i movimenti e la società che stanno scioperando: le organizzazioni politiche sono inadeguate, ma alcune seguono e si mettono al servizio. Lo sciopero è sociale, le piazze sono moltitudinarie e il movimento ha una forza costituente. Cosa significa?

Significa che dobbiamo interrogarci su ciò che accadrà nei prossimi mesi.

L’Europa nata dopo la Seconda guerra mondiale poggiava su due pilastri fondamentali: l’ONU e la condanna unanime dell’Olocausto. Oggi li sta tradendo entrambi in modo irreparabile

Tanti sono stati gli slogan e gli striscioni apparsi in questo sciopero contro il genocidio a Gaza e contro la repressione fascista in Italia. Ne raccolgo uno in particolare: quello della piattaforma nazionale dei lavorat* dell’arte, della cultura e dello spettacolo, nata in risposta ai tagli che il governo Meloni ha imposto ai finanziamenti pubblici per l’arte indipendente: “Vogliamo tutt’altro”.

Uno slogan che tiene insieme due genealogie: da un lato il “Vogliamo Tutto” di Nanni Balestrini, che condensava il ciclo delle lotte operaie fino agli anni ’70; dall’altro “Un altro mondo è possibile”, parola d’ordine del ciclo successivo, dai social forum degli anni ’90 al movimento di Seattle, fino alle mobilitazioni pacifiste contro la guerra in Iraq e alle lotte costituenti per i commons e transfemministe dell’inizio del nuovo millennio. Il ciclo attuale eredita quelle esperienze e quelle genealogie. E proprio per questo dobbiamo fermarci un momento a capire che cosa lo caratterizzi davvero.

Questo movimento è partito dalla resistenza palestinese e ha saputo contagiare, in primo luogo, le reti della conoscenza nei nostri territori: prima gli/le student*, con le campade a partire dal 2024 nelle università negli Stati Uniti e in Europa; poi il mondo dell’arte e della cultura, che si è schierato contro la censura e la complicità con Israele: dalla rete ANGA (Art Not Genocide Alliance) nel 2024 al boicottaggio della partecipazione israeliana alla Biennale di Venezia, da Galassia antisionista che indaga le complicità tra istituzioni culturali e industria delle armi fino alla Mostra del Cinema di Venezia; quindi la logistica e i porti, a partire dalle prime campagne nel 2024 contro la complicità fra MAERSK e F35, lanciate fra gli altri anche dalla rete degli scrittori statunitensi WAWOG (writers against the war on gaza). Nel 2025, in Italia, i portuali di Genova, Venezia, Ancona, Livorno, Napoli, Palermo e Civitavecchia hanno poi fermato i convogli di armi destinati a Israele rilanciando lo slogan BLOCCHIAMO TUTTO.

Per gentile concessione di Nicola Vincoli

È un movimento che pratica la convergenza. Come avevamo già osservato e discusso al Congresso Mondiale per il Clima tenutosi a Milano nel 2023 (WWCJ), l’eco-attivismo europeo è destinato a incontrarsi con i movimenti anti-imperialisti del Sud globale e con i movimenti pacifisti. Greta Thunberg, insieme a molti altri leader di lotte territoriali e globali, ha riconosciuto che il buco nero del genocidio in corso a Gaza ha assunto la valenza tattica e strategica di “lotta delle lotte”.

L’equipaggio di terra della Global Sumud Flotilla si è trasformato in moltitudine: studenti, mondo della cultura, lavoratori della logistica e sindacati. Lo sciopero è sociale.

Sicuramente questo è un movimento contro la guerra e contro la militarizzazione dell’Europa.
È anche un movimento post-globalizzazione: un movimento che ha compreso come l’Occidente sia al tramonto e che il mondo sia ormai multipolare. Un movimento che rifiuta l’idea tecno-suprematista secondo cui l’unica soluzione dell’Occidente sia provocare una terza guerra mondiale, come se fosse una competizione a chi possiede il bunker più bello.

È un movimento che ha capito che il diritto internazionale è in crisi, se non addirittura già morto. L’Europa nata dopo la Seconda guerra mondiale poggiava su due pilastri fondamentali: l’ONU e la condanna unanime dell’Olocausto. Oggi li sta tradendo entrambi in modo irreparabile. Se l’Occidente rinnega il diritto internazionale e Israele si macchia del crimine di replicare l’Olocausto su un altro popolo, allora l’Europa perde la sua stessa ragion d’essere.

Queste piazze si ribellano a un’idea di abitare in cui la polizia difende gli interessi di pochi CEO asserragliati in smart city per privilegiati, mentre il resto della popolazione viene sacrificato

Per questo motivo questo è anche un movimento contro la sinistra neoliberista. Si tratta di uno sciopero con richieste immediate e concrete — come fermare un genocidio che avviene sotto i nostri occhi — ma anche di un movimento che reclama l’invenzione di un nuovo paradigma culturale. È evidente che la cultura politica egemone è del tutto inadeguata a far fronte alla storia che stiamo vivendo. L’alternativa che ci viene offerta tra l’internazionale fascista di Trump, Meloni e Netanyahu, e una sinistra neoliberista succube e servile ai processi di militarizzazione, privatizzazione, gentrificazione immobiliare e distruzione del welfare, non è un’alternativa.

Sebbene i media mainstream si siano piano piano arresi ad alcune evidenze – ci hanno messo due anni a capire che il negazionismo sul genocidio era insostenibile – è chiaro che sono del tutto controllati da questa falsa alternativa: destra estrema e centro-sinistra neoliberista.

Essere costituente significa che i movimenti creano assemblaggi a cui tutti i livelli della politica devono funzionalizzarsi. Non è la politica rappresentativa a dettare l’agenda, ma al contrario sono i progetti partitici a dover assumere e fare propria l’agenda politica dei movimenti. Oggi dovremmo aprire mille assemblee per costruire questa agenda e pretendere che le organizzazioni partitiche la assumano. Se i partiti non sono in grado di farlo, allora è il momento di crearne di nuovi.

Per gentile concessione di Giovanni Macedonio

Che cosa chiede la piazza? E perché i governi europei si mostrano così timidi?

Innanzitutto, questo movimento chiede al governo italiano e alle istituzioni pubbliche di disinvestire dagli accordi commerciali con Israele, in particolare dalla fornitura dell’industria militare bellica. È un attacco diretto al cuore della politica economico-strategica dei governi italiani ed europei. Da un lato perché le politiche industriali ed energetiche di ENI e Leonardo sono complici del genocidio; dall’altro perché la piazza afferma a gran voce che le politiche di militarizzazione vengono portate avanti a discapito del welfare. Lo spostamento della spesa pubblica verso l’apparato militare e della sicurezza, a danno di scuola, cultura, sanità e infrastrutture, è il sogno di questa destra autoritaria: governi che reprimono la rivolta sociale mentre privatizzano tutto il welfare a vantaggio del settore industriale privato.

Queste piazze si ribellano a un’idea di abitare in cui la polizia difende gli interessi di pochi CEO asserragliati in smart city per privilegiati, mentre il resto della popolazione viene sacrificato. È la stessa logica che Israele sta già applicando con gli insediamenti coloniali in West Bank e che vuole replicare con la futura “Gaza Riviera”.

Il progetto contro cui queste piazze insorgono è transnazionale: contro la saldatura fra destra estrema statunitense con il fondamentalismo religioso e con il tecno-soluzionismo securitario. Ciò significa che le politiche di privatizzazione dei servizi, la speculazione finanziaria sull’immobiliare e il capitalismo di piattaforma sono entrati in guerra e governano ormai le principali democrazie deviate dell’Occidente.

La ribellione di questo movimento dal basso e costituente sa di doversi misurare con questo corpo mostruoso — e sa che deve farlo ora. La Flotilla ha assunto per questo una dimensione di resistenza globale, capace di incorporare tutti i livelli organizzativi possibili: ha catalizzato l’attenzione su un’azione concreta, mostrando al tempo stesso l’esistenza di un equipaggio di terra moltitudinario, dai confini fluidi e indefinibili.

Questo movimento ha la maturità di non frammentarsi, di esibire il suo volto nelle grandi convergenze facendosi marea, tanto quanto di nascondersi e riaffiorare come un fiume carsico.
Dal fiume al mare, per vivere in un mondo libero dagli oppressori.

Per le foto utilizzate nella cover dell’articolo si ringraziano Mirko Ostuni, Giovanni Macedonio e Nicola Vincoli