Vivere dopo la morte

Sperimentazione genomica, algoritmi vitali e la lotta scientifica contro l’estinzione: un reportage narrativo dalla China National GeneBank

Pubblichiamo un estratto del capitolo Nel codice della vita tratto da Gli immortali – Storie dal mondo che verrà, recentemente pubblicato da Il Saggiatore che ringraziamo per la disponibilità.

Il cielo era terso, ma c’era così tanta umidità che l’aria portava l’odore della pioggia. Avevo attraversato il confine a piedi, in una delle tante file di gente che si muovevano tra le corsie della burocrazia cinese, sotto un capannone di lamiere arrugginite. In questi posti non serve sapere il perché delle cose, basta farle. Come tutti intorno a me, spingevo stanco il carrello dei bagagli per guadagnare ogni centimetro lasciato dall’uomo che mi precedeva. Trascinava mercanzie chiuse alla bell’e meglio in grandi ceste, con carte di giornale e foglie di banano, in un equilibrio che solo in alcune parti del mondo pare esistere.

Sul finire della fila una donna litigava col marito, sventolando in aria documenti pieni di timbri. Qualcuno cercava di superare chi gli stava davanti e le guardie, sistemate qua e là su cubi di legno bianchi e neri, fischiavano per rimetterli al loro posto. In tutto il tempo passato tra quella massa migrante, l’unico che mi ha guardato negli occhi è stato l’obiettivo di una piccola telecamera, mentre una donna in divisa nera e oro mi sbatteva un timbro sul passaporto. «Benvenuti in Cina» c’era scritto sul muro alle sue spalle.

Da lì in avanti le persone e i pacchi affrettavano il loro passo. Scendevano per una rampa tra bancarelle zeppe di giocattoli e apparecchi elettronici, fino a un mercato sotterraneo dove si poteva trovare qualsiasi cosa: vestiti, gioielli, animali vivi e morti. Una donna cantava promuovendo l’ultimo modello di microfono da karaoke. Un uomo faceva volare un grappolo di aeroplanini di plastica, sfiorando le teste dei passanti, un anziano sollevava un vassoio di arance già sbucciate. Accovacciata su un cartone bagnato, una donna mangiava una zuppa guardando la tv, e più in là qualcuno dormiva sul pavimento di piastrelle, tanto sudice da non riconoscerne il colore. In quell’aria tumida di odori e corpi seguivo il flusso come una goccia di un grande fiume che va, cercando di non respirare. Dopo qualche svolta, da un’apertura arrivò una brezza a portare sollievo, e raggiunta la luce tutta quella gente si disperse come polvere nel vento. Da Hong Kong ero arrivato a Shenzhen.

La metropoli si imponeva davanti a me con i suoi milleduecento grattacieli. Stentavo a credere che appena vent’anni prima qui c’era solo una manciata di capanne e un faro, che spazzolava la baia da un lato e le paludi dall’altro. A quell’epoca io ero dall’altra parte del mondo a domandarmi cosa avrei fatto il giorno seguente, e intanto il miracolo cinese demoliva in pochi giorni ogni memoria per costruire il luogo dal quale sarebbe uscito il 90 per cento dell’elettronica mondiale. Intorno a me si muovevano dodici milioni di persone, eroi e sudditi delle ambizioni del Dragone.

Tra i bus che si riempivano di gente, un uomo con la camicia gialla e un vistoso mazzo di chiavi appeso alla cintura reggeva un cartello con su scritto il mio nome. Incrociammo i nostri sguardi, sollevai una mano, e lui si inchinò stringendo le braccia ai fianchi come un soldato. Era l’autista che mi avrebbe portato a nord, tra le colline della penisola di Tai Pang, dove avevo appuntamento con uno dei massimi esperti di sperimentazione genomica. Gli avevo scritto alcuni giorni prima, raccontandogli del cammino che avevo fatto fin lì, e per motivare maggiormente la mia curiosità gli avevo detto anche della mia predizione. «Audace» aveva risposto lui, «la manderò a prendere al confine. Mi faccia sapere quando pensa di arrivare.»

Non sapevo se incontrare quell’uomo mi sarebbe stato utile, ma se c’era qualcuno sulla terra capace di cambiare i destini, quello era certamente lui.

Seduto in una berlina bianca che profumava di chewingum allo zenzero, percorrevo le strade ordinate di Shenzhen, che poco avevano a che vedere con la giungla urbana della vicina Hong Kong. Qui, fuori dal finestrino, correvano spaziosi marciapiedi, piazze bianche di marmo ancora lucido e palazzi che si sfidavano per ricchezza, barbagliando di specchi nella luce dell’alba. I grattacieli sfioravano le nuvole fino a seicento metri di altezza, come torri di una moderna Babele. Una nube di fumo si alzava leggera dai campi bruciati a ovest, dove l’orizzonte si apriva all’espansione edilizia.

Il distretto commerciale di Luohu era l’appendice della città. Qui, due grattacieli color oro lasciavano spazio a montagne di container arrivati dal mare, e ai lati della tangenziale che percorrevo sfilavano gli scheletri di nuove costruzioni, cinti da impalcature di bambù che parevano fragili come tele di ragno. Poi comparve il mare. Monotono marcava l’orizzonte, tra coste rocciose e macchie di vegetazione selvaggia, fino a nascondersi nell’ombra di colline piccole e puntute, che mi accompagnarono alla China National GeneBank, il posto nel quale il professor Xu mi aspettava.

Scendendo da un crinale per una strada poco trafficata, il mio autista svoltò bruscamente, imboccando un sentiero sconnesso che portava in una gola, tra le ombre tremule dei bambù giganti.

Nascosto in quel paesaggio, comparve d’improvviso un edificio, imponente nell’altezza e massiccio nella forma, come un antico tempio scavato nella roccia per fuggire agli infedeli. Le sue geometrie rigorose emergevano da ruvidi gradoni di cemento e vetro che uno sull’altro formavano una piramide di dieci piani, affogata nella terra. Quella era la China National GeneBank, l’archivio genetico più grande del mondo. Nei suoi cinquantamila metri quadri di laboratori si studiavano le matrici di ogni essere vivente per aprire le vie della sopravvivenza. Era il chilometro zero dell’evoluzione, la culla della nuova Era. Qui l’essere umano si sostituiva a Dio annientando ogni credo.

Perdendo di vista l’edificio dietro la fitta vegetazione che avvolgeva la strada, compresi le parole del professor Xu, il quale spiegandomi dove ci saremmo incontrati mi disse che l’indirizzo non mi sarebbe servito, perché dovevo raggiungere un posto invisibile. Il governo cinese considerava infatti quei laboratori un luogo strategico, e aveva fatto in modo che nessuna mappa al mondo ne annotasse la geografia. L’unica porzione di edificio che sporgeva dalla collina era interamente coperta di vegetazione, e i satelliti dal cielo vedevano solo prati, capanne di pescatori e vecchie colonie, costruite per i bambini della Rivoluzione culturale, e ormai abbandonate.

L’ingresso della China National GeneBank esibiva le sculture di due mammut, ricostruiti in dimensione naturale, che posavano le zampe su una scritta scolpita nel legno: «La strada che attraversa i sogni del vivere per sempre». Rappresentavano l’eternità e la Madre Terra, e mantenevano vivo il monito dell’estinzione.

Alle loro spalle una scala si avvitava sinuosa su sé stessa, con una forma che ricordava una collana dell’evoluzione. Scendendo per quei gradini, mi venne incontro una ragazza alta, col volto scavato e gli zigomi ossuti. Portava un taglio di capelli spartano, mascolino, e indossava un camice bianco più grande della sua taglia che la rendeva ancora più emaciata. Con un sorriso luminoso si avvicinò e tese la mano per salutarmi.

«Mi chiamo Shang. Mi ha mandato il professore perché lui potrà incontrarla solo per il pranzo» disse.

Una fascetta gialla sul taschino del camice indicava che quella ragazza dirigeva i laboratori di ricerca sulla maternità. Aveva una piccola stella di metallo rosa appuntata sul bavero e da una tasca sul fianco sporgeva il telefonino, chiuso in una cover con la forma di unicorno. Shang aveva ventinove anni ed era la più anziana dei cinquemila ricercatori che lavoravano tra i segreti di quelle mura. Trascorrevano le loro giornate con gli occhi su un microscopio o chini su faldoni che per migliaia di pagine ripetevano sempre gli stessi quattro caratteri: acgt.

«La combinazione di queste lettere descrive il dna di ciascuno di noi» disse la dottoressa Shang, facendomi strada in un corridoio che si apriva alle sue spalle. Una parete vetrata correva dritta per decine di metri svelando uno spazio pieno di luce. Centinaia di apparecchi bianchi, identici, ciascuno posto su un piedistallo, correvano in file simmetriche.

Nella loro pancia pulsava una luce celeste, col ritmo lento e costante di un faro. Un paio di uomini si muovevano calmi tra le file di quella che pareva una catena di montaggio. Con guanti di lattice sfioravano i comandi di questa o quella macchina. Una maschera trasparente gli copriva il volto e una tuta celeste il corpo. Era fatta di un tessuto sottile e leggero, che vibrava sotto le griglie dell’aria condizionata.

«Mappano i dna.»
«dna di chi?»
«Di tutto ciò che vive sulla Terra, a cominciare dal popolo cinese.» «Impresa biblica, siete tantissimi.»
«Un miliardo e mezzo. Li archiviamo al piano di sopra. Tre gigabyte di lettere per ciascun codice. Se li mettessimo su una linea retta uniremmo la Terra alla Luna per migliaia di volte.»

«Cosa ve ne farete di tutti quei dati?»

«Per ora cerchiamo di incrociarli, di scoprire quello che siamo e le nostre potenzialità. Nel dna c’è scritto tutto di noi, compreso il futuro. C’è un gene per ogni cosa, per lo sport, per il grasso e anche per l’amore» disse.

In quell’ultima parola della dottoressa Shang vibrava una speranza particolare, perché era cresciuta sentendosi una vittima e finalmente, tra gli algoritmi della vita, aveva incontrato le tracce della pace.

A vedere la signorina Shang fuori da quei laboratori ci si sarebbe fatti l’idea di una donna facile, leggera, persino sciocca, capace di concedersi a ogni promessa. Ne era consapevole lei stessa e non se ne vantava, ma considerava quell’atteggiamento l’unica risposta possibile, seppur miserabile, al suo feroce bisogno di affetto.

Un incidente stradale le aveva portato via i genitori durante l’adolescenza, lasciandola senza più nessuno al mondo. Era per il bisogno di sentirsi amata che si era fatta affettuosa e gentile con tutti, e finiva sempre per mettersi in qualche guaio.

Si può essere generosi per compassione, per fede e per furbizia. Oppure per incapacità. Ecco, la dottoressa Shang era incapace di deludere, prima le aspettative e poi i vizi altrui.

Aveva incontrato molti uomini nella vita e molti erano diventati suoi amanti. Ma era sempre durata poco, perché poi ne passava uno più affascinante, più misterioso, più bisognoso del suo aiuto. Curiosità e amore si rinnovavano, la fine si ripeteva e l’amarezza cresceva. Arrivò a essere così delusa da sé stessa da considerare seriamente l’idea di chiudersi in un monastero, finché tra i banchi dell’università non si appassionò alla genetica. Grazie a quella scienza poteva continuare a conoscere gli altri senza mettersi in mostra, senza sentirsi una missionaria o, peggio, una malafemmina.

Attraverso le lenti del microscopio poteva vedere molto più in là di quanto lo sguardo riuscisse a fare. Conosceva le persone che studiava più di quanto loro stesse avrebbero potuto conoscere sé stesse, e chiudendo gli occhi poteva disegnarne i caratteri, con la precisione di una madre che pensa al proprio figlio.

Continuamente attratta dal rapporto materno e carnale che i nostri corpi intrattengono col passato, nelle formule della chimica trovò la ragione di ogni cosa e in quelle sequenze di aminoacidi iniziò a cercare sé stessa fino alle ragioni dell’amore. Era certa che le avrebbe trovate, e allora quella colpa del destino che le faceva mettere l’amore in ogni cosa sarebbe diventata la grazia che i suoi genitori le avevano lasciato, perché in fondo si può dare solo ciò che si ha.

«È come un istinto, scolpito all’origine della vita» mi disse. «Quello che è scritto nei geni non si può cambiare. Almeno per ora.» Accompagnò quell’ultima frase con un sorriso astuto, inarcando le sopracciglia, facendomi capire che presto le cose sarebbero cambiate. Lei e i suoi colleghi erano i protagonisti di una generazione che stava per scrivere la nuova Genesi dell’essere umano, che in questo posto si faceva nudo ed eterno, ma anche replicabile, cambiando così ogni umana certezza.

Camminando al fianco della dottoressa Shang avevo attraversato archivi digitali che sfioravano il soffitto, visto computer da miliardi di calcoli al secondo e bracci robotici che tra i vapori dall’azoto liquido spostavano le molecole della vita su grandi pareti elettroniche. La sequenza di ogni dna veniva scritta nelle celle esagonali di un alveare, fatto di filamenti bronzei chiusi in una tavoletta piccola e leggera come un biscotto.

Quel processo si ripeteva senza sosta in ambienti immacolati e ciechi, senza odori né vita. Non importava se fuori fosse giorno o notte, se i ciliegi fossero in fiore o cadesse la neve. Il tempo non serviva più, come qualsiasi altra cosa che conoscevamo.

Aprendo una porta la dottoressa Shang mi guidò su una terrazza. Abbassai lo sguardo e portai una mano sul volto, per proteggermi dalla luce del giorno.

«La vede quella torre laggiù?»

Stringendo gli occhi cercai di individuare nella valle il punto che la dottoressa Shang stava indicando col dito. Nella foschia una torre di cristallo si alzava come un miraggio, tra la vegetazione selvaggia.

«Sì. Un parcheggio multipiano nel mezzo della giungla» dissi, scherzando su quanto sembrasse fuori luogo l’edificio che mi mostrava.

La dottoressa si mise a ridere.

«È la Città agricola del futuro. Una serra che contiene l’intero ciclo alimentare. Nel piano interrato crescono i pesci, sopra gli orti e nei piani più alti gli allevamenti di carni. Tutto vive in un sistema chiuso, dove l’aria è filtrata e l’acqua si rigenera cambiando stato come nel ciclo naturale.»

«A cosa serve replicare ciò che già esiste?»

«A farci sopravvivere in un pianeta esausto. Presto in natura sarà tutto contaminato da sostanze per noi tossiche, quindi abbiamo sviluppato un modello agricolo da affiancare a ogni condominio. I primi li stiamo costruendo a Shenzhen, ma nelle città del futuro ogni casa avrà la sua torre alimentare dove produrre i nuovi alimenti di cui avremo bisogno.»

«In che senso nuovi alimenti?»
«Sai quanti saremo tra una ventina d’anni? Dove pensi che troveremo cibo per tutti? Serviranno nuove specie animali e vegetali, più resistenti e nutrienti, che possano crescere nelle Città agricole. Ed è quello che stiamo facendo.»

«Vuoi dire che là dentro vivono animali e piante che non esistono in natura?»

«All’incirca.»
«E perché l’avete costruita laggiù?»
«È vicina alla città. Siamo noi che non siamo vicino a nulla. Ma mi segua, è l’ora del pranzo.»
Prima di chiudermi la porta alle spalle lanciai un’ultima occhiata alla torre, che per quanto ne sapevo poteva ospitare dinosauri o creature aliene. Vederla tanto piccola, lontana nel paesaggio, mi confortava. Nelle valli che ci separavano quel destino era un possibile scenario, ma non l’unico. Tornai a seguire i passi della dottoressa Shang con la fretta di un bambino che ha visto una cosa paurosa. Cercai conforto nell’oscurità dei laboratori che ora mi parevano più umani di quello che c’era fuori. Sapevo che il passare dei giorni avrebbe reso la distanza da quella torre sempre più piccola e mi sentivo addosso lo sguardo del tempo.

Arrivammo in una stanza circolare, dipinta di un giallo antico e con una piccola finestra rotonda sul soffitto. Ricordava una ger, quella tenda che i nomadi mongoli piantano nelle steppe. Sulle pareti, i disegni delle formule di struttura delle molecole si arrampicavano fino al soffitto con tratti sottili e neri. Affianco a ogni elemento chimico era annotata una parola, scritta a mano con un tratto incerto: caparbietà, forza, trasformazione, materia fondamentale. Quella era la ragnatela che intrappolava la vita.

Il centro della stanza era occupato da un tavolo, anch’esso circolare, di quelli che hanno un disco girevole nel mezzo, per far scorrere le pietanze da un commensale all’altro senza troppa fatica. Due donne con un grembiule nero stavano sistemandovi sopra del cibo, disposto su piccoli piatti di porcellana. C’erano solo due tovagliette, fatte di foglie di palma intrecciate, con una ciotola e delle bacchette sopra ciascuna.

«Tu non mangi con noi?» chiesi alla dottoressa Shang.
«No, il professor Xu non ama mangiare in compagnia.»
«E io allora?»
«Infatti. Strano» disse sollevando appena le spalle.
«Eccolo. Il professor Xu» aggiunse subito dopo, inchinandosi a un ragazzone che si avvicinava col passo di un gigante buono. Scarpe da ginnastica e felpa scura. Si presentò con un sorriso e una pacca sulla spalla, come fossimo vecchi amici, con la semplicità spiccia dell’Occidente e senza troppe cerimonie. Sembrava un tipo alla mano.

«Perdona l’attesa. Spero che la dottoressa Shang ti abbia trattato bene.»

«Benissimo. È stato un incontro molto interessante.»

«Io come ti posso aiutare?» mi chiese scostando una sedia dal tavolo per farmi accomodare.

«Non saprei. Come le ho scritto, ho preso seriamente le parole di un indovino e ho iniziato a cercare un modo per non morire.»

«È quello che facciamo anche qui ogni giorno. Tu hai trovato qualcosa di utile?»

«Non saprei. Forse le cose si rivelano utili nel momento del bisogno, non prima. Ma devo ammettere che mi sento più smarrito ora di quando ho iniziato questo viaggio.»

«Una certezza però c’è. L’Homo sapiens sta entrando in un nuovo tempo evolutivo: l’Era transomica. Da qui in poi le discipline biomolecolari governeranno la vita e l’evoluzione la decideremo noi umani. Forse sarà così anche per il tuo destino.»

«Può essere. Ma non mi aiuta a sentirmi meglio» dissi sorridendo.

«Nel 1990, per scrivere il primo dna umano si spesero tre miliardi di dollari. Oggi fare la stessa cosa costa meno di cinquecento e tra un decennio la mappatura del genoma sostituirà per tutti l’analisi del sangue. Tu non dovrai fare nulla. Sarà così e basta» rispose il professor Xu, col tono rassicurante della certezza. Poi continuò: «Impareremo a curare le malattie genetiche. Il tumore sarà come un’influenza. E le nuove specie che stiamo creando sono solo l’inizio di una nuova vita.»

«La dottoressa Shang mi ha parlato della fattoria del futuro.»

«Giusto. Queste cose vengono proprio da lì.» Facendo girare la ruota al centro del tavolo mi portò davanti un pesce lesso, ovale e allungato come una carpa, steso su una salsa giallognola e fibrosa.

«Serviti.»
«Che cos’è?»
«Un pesce» rispose il professor Xu, e sorrise.
Insieme a quel pesce ogm che avevano fatto diventare adulto in soli due mesi, mangiai delle alghe cresciute senza acqua e una polenta fatta da un miglio transgenico seicento volte più nutriente di quello naturale, e che aveva il fiore alto un metro. La salsa di soia copriva i sapori rendendoli tutti abbastanza simili ma comunque piacevoli.

«Davvero non c’è alternativa? Voglio dire, è tutto molto buono. Ma perché cambiare la natura delle cose e ricercarne lo stesso sapore?»

«Non lo facciamo per piacere. Lo facciamo per non morire.»

«Ma non finiremo per uccidere ugualmente ciò che siamo? Cambiando il dna aggiusteremo ogni difetto, ma ci perderemo per strada la bellezza della diversità, dell’errore. Diventeremo tutti uguali, che è un po’ come dire che saremo tutti estinti, nella superbia.»

«Le questioni filosofiche non spettano alla scienza. La nostra missione è quella di creare un futuro migliore per ogni essere umano. Le tecnologie hanno sempre un lato buono e uno cattivo, e sempre si corrono dei rischi. Ma non si possono porre limiti alla curiosità umana. Semmai sono le applicazioni; quelle devono essere regolate dal buon senso.»

«Non ti fa paura?»
«Che cosa, esplorare la vita?»
«No, diventarne il Creatore.»
«Sbagli il punto di vista. L’essere umano è un animale solo e in cerca di sé stesso. È condannato a idearsi continuamente, perché è l’unico che può farlo. Io sono d’accordo col tuo amico veggente quando dice che sarai tu a decidere la tua fine. Il problema vero è che non siamo in grado di immaginare la nostra esistenza come qualcosa di diverso dalla nostra esperienza. Per questo nel momento della fine la tua scelta sarà limitata dal pensiero, da ciò che conosci. Quello che qui stiamo facendo è una grande occasione e l’unica cosa etica da fare è investire nell’intelligenza creativa, come fanno i nostri cinquemila giovani ricercatori. Sognano e costruiscono il futuro. Semplicemente perché è il loro.»

Parlando, il professor Xu infondeva una tale sicurezza che le sue idee non solo sembravano giuste, ma erano anche liberatorie. Negli spazi silenziosi della China National GeneBank stava accadendo qualcosa che non aveva precedenti. L’uomo si stava trasformando in un dio senza croce e questo edificio era la cattedrale del nuovo sapere. Nella visione del professor Xu non esistevano colpe né peccati, i limiti dell’etica si spostavano col progredire delle tecnologie e valevano solo i principi delle cause e dei loro effetti.

Mentre noi stavamo lì a parlare, la Transomica continuava a crescere come diceva lui, partorendo i suoi figli, perché se si trova un modo per togliere il dolore, allora il mercato diventa più veloce del pensiero. Centocinquantamila bambini nel mondo sono già nati con tecniche genetiche preimpianto. Era stato sufficiente cambiare un tratto del loro dna per avere la certezza che fossero sani, e magari per sceglierne il colore dei capelli o la prosperità del corpo.

Ascoltando il professor Xu mi domandai cosa avrei cambiato di Ernesto, se avessi avuto la possibilità di farlo. Forse avrei potuto evitare che si ammalasse di tonsillite, o gli avrei dato un corpo meno gracile. Ma sarebbe stato un altro bambino, o magari non sarebbe stato affatto, perché se lo avessi dovuto decidere, il momento giusto per avere un figlio non sarebbe mai venuto. Cosa sarei oggi se le cose fossero andate diversamente? E se un giorno si potessero scegliere i figli come si scelgono i colori da una mazzetta di pantoni? L’uomo smetterebbe di fare l’amore per riprodursi. Magari resterà solo il sesso. Ma sarà meglio o peggio? Le infinite possibilità che si affacciavano nei miei pensieri bastavano per rendere difficile e incerta ogni scelta. In un mondo nel quale ogni cosa si potrà decidere, il fato non smetterà di essere rifugio.

«Vieni, ti voglio mostrare una cosa» mi disse il professore alzandosi da tavola.

Camminammo insieme tra uffici dove decine di persone dormivano sedute, appoggiate sulle scrivanie. Alcuni si erano attrezzati con un cuscino o una coperta. Altri, a braccia conserte, cercavano riposo con il capo buttato all’indietro. Qualcuno si era steso sulla moquette del pavimento, rannicchiato come un bambino.

«Dopo i pasti possono riposare mezz’ora» mi spiegò il professore senza curarsi troppo di quella strana situazione.

Da una porta scura sul fondo di una sala entrammo in un piano immenso e vuoto, che si affacciava con una balaustra sugli archivi digitali, e dalla parte opposta era delimitato da una parete curva, alta e lucida, coperta di segni e algoritmi, formule chimiche e numeri infinitesimali, scritti a mano fino al soffitto. Ai piedi di quell’enorme lavagna c’erano una poltrona verde e una scrivania, che tra tanta grandezza parevano minuscole. Un raggio di luce filtrava da un lucernario e si dissolveva in un bagliore palpabile prima di toccare terra. In questo luogo nascosto il professor Xu passava le sue giornate a studiare l’origine della vita. Poi, arrampicato su una scala, ne disegnava il futuro sull’immensa lavagna. Nella galassia della genomica quello era il nuovo asse di rotazione terrestre e in quei segni per me insignificanti era contenuta la genesi della nuova Era.

«L’uomo ha percorso distanze infinite alla scoperta dei continenti e dello spazio. È dovuto arrivare alla fine della geografia per comprendere che l’unico futuro lo dobbiamo cercare dentro di noi» disse il professor Xu. Le sue parole si muovevano nell’aria con un leggero eco.

«Su questo muro c’è scritto come saremo tra cento anni?»

«C’è scritto come forse dovremmo essere! Ho immaginato una strada per imparare gradualmente a prendere possesso di noi, della magnificenza dell’eternità nel tempo e della trascendenza nell’immanenza.»

«Dunque il potere è ormai passato da Dio agli uomini.»

«Mi pare sia così dal giorno in cui l’uomo ha desiderato essere eterno.»

«Cioè da sempre.»

«Nelle scelte di ogni giorno, nei progetti, in ogni piccola azione. L’uomo è una macchina programmata per sopravvivere. Non a caso tutte le religioni prospettano una vita dopo la morte; il nostro obiettivo è vivere per sempre. La scienza dà concretezza e rigore a queste aspirazioni, le rende chiare, finite, gli dà un nome. Può far paura, ma ha cercato di risolvere il problema della morte un passo alla volta. E forse oggi ci siamo riusciti.»

«Sai, ci ho pensato molte volte, ma non so se vorrei essere immortale. Non saprei cosa fare per il resto dell’eternità. E poi è il pensiero della fine che ci fa gioire delle cose, che ci fa prendere le grandi decisioni. Senza quello temo che diventerebbe tutto noioso. E oggi non sarei qui.»

«Vivere in eterno non vuol dire essere immortali. Se vai sotto una macchina muori e basta.»

«Chissà. Ho incontrato scienziati che pensano di trasferire la conoscenza da un cervello all’altro. Ricercatori che sono a un passo dal clonare gli esseri umani. Forse, a volerlo, la generazione di mio figlio potrà morire e rinascere come in un videogame, dall’ultimo schema salvato.»

«È come dici: a volerlo. La differenza non la farà la tecnologia, ma la volontà di ciascuno. Questo è ciò che trovo fantastico, si chiama libertà.»

«Speriamo sia così. Posso chiederti perché hai accettato di incontrarmi e per di più a pranzo?»

«Perché l’ultimo desiderio non si rifiuta a nessuno» disse il professore guardandomi negli occhi. Poi posandomi una mano sulla spalla aggiunse: «Da noi mangiare del pesce è augurio di buona fortuna».

Un’auto della National GeneBank mi accompagnò nuovamente a Shenzhen, dove arrivai quando ormai era notte. Il professor Xu mi aveva fatto prenotare una stanza nella torre più alta della città. Entrai senza neppure accendere la luce e cercai un whisky nel frigo bar. Non avevo voglia di pensare.

Una finestra grande quanto la parete si affacciava sul cielo, vermiglio e senza stelle nella luce della metropoli. La luna col suo sorriso bugiardo scalava il cielo e un elicottero atterrava sulla cima di un grattacielo. Sopra un altro c’era un campo, verde come uno smeraldo, dove alcuni uomini giocavano a tennis, chiusi in una rete fitta come una voliera. Qua e là, le piscine d’acqua lucente sembravano isole in un paesaggio di cemento che si imperlava di luci, e ardeva nella notte come brace sfiorata dal vento. C’era ancora molto traffico fuori; scorreva in un contorto reticolo di strade che scompariva nella periferia, inghiottito da quartieri bui come le macchie di un leopardo.

Mi spogliai e mi buttai sul letto, osservando la forma che prendevano le cose in quella penombra rossiccia. Sul vetro della finestra vedevo riflessa la mia immagine nuda. Ne seguivo i contorni netti e scuri, alzavo un braccio, per giocare con le ombre e ritrovarmi. Ma bastava che il mio sguardo si spingesse poco oltre, inseguendo una luce o un pensiero, per cadere su quel mondo là fuori, e la mia immagine svaniva. Anche questa volta era una questione di scelte, pensai. Ritrovarmi o perdermi, e giocavo passando da una vista all’altra, incapace di scegliere.

Cercai dei punti fermi, qualcosa che mi aiutasse a tenere insieme le due visioni, perché in fondo sono parte della stessa cosa. Ma tutto sfuggiva. La ragione dell’essere lì, il senso del mio andare, e non ricordavo neppure che giorno fosse. Ero stanco, come alla fine di un lungo cammino, quando ci accorgiamo di essere tornati al punto di partenza.

Potevo immaginare il futuro del mondo, che innocente arriva nelle nostre mani e si illude che abbiamo imparato qualcosa dal nostro passato.

Avevo incontrato visionari, scienziati e pazzi, tutti che cercavano di salvare il pianeta per dare senso all’esistenza e forse a sé stessi. Ma non avevo trovato nessuno che mi avesse suggerito come vincere la mia morte, e in quell’ossessione avevo dimenticato di vivere la vita là dove andava vissuta. Pensavo a Ernesto, a Francesca, e mi sentivo afflitto come un perdente.

Per caso questo mio viaggio era cominciato da ovest e per economia avevo continuato saltando verso est. Andare verso la nascita del sole in fondo poteva essere un buon auspicio, seppur quel farabutto per mostrarsi ci chieda in cambio ogni volta un po’ del nostro tempo e non ce lo renda più. Viaggiando in quella direzione avevo mandato avanti le lancette dell’orologio molte volte, perdendo quasi un giorno intero per adeguarmi a lui. E per uno a cui le giornate si fanno sempre più corte, non era forse una buona scelta. Ora era il momento di tornare verso ovest, verso casa, per riprendersi il tempo e anche tutto il resto.

Ma se davvero si trattava di ricominciare da dove ero partito, allora volevo rivedere in faccia colui che venti anni prima aveva seminato in me la paura. Sulla strada di casa mi sarei fermato a Vrindavan, in India, per cercare quel bramino che sembrava conoscermi più di ogni scienza. Nella speranza che in tutti gli anni passati da allora la morte non gli avesse fatto visita prima di me.

Alberto Giuliani è giornalista, fotografo e regista. Le sue storie sono state pubblicate sui principali giornali del mondo, come Condé Nast TravellerVanity FairDer Spiegel e Stern e le sue immagini hanno vinto i più importanti premi internazionali, tra i quali il premio Canon e il Leica Award for Reportage. Il progetto fotografico Surviving Humanity, realizzato durante il viaggio narrato in questo libro, è stato esposto in Italia, Germania, Francia, Cina, Portogallo e Stati Uniti.