Vendetta videoludica

The Last of Us II e la rappresentazione di «un mondo che continua anche senza di noi»

Prima dell’uscita effettiva di The Last of Us II, un’immagine potente e al contempo fumosa del gioco stesso si è diffusa tra i membri di un pubblico enorme, che l’attendeva con ansia e aspettative sempre più enormi. Nello specifico, si tratta di un’immagine nata con l’annuncio del gioco, il 3 dicembre del 2016, con ben quattro anni di anticipo dal lancio effettivo del gioco completo, che è pubblicato soltanto nel giugno del 2020. Da quel momento, intervista dopo intervista, trailer dopo trailer, approfondimento dopo approfondimento, una certa idea di quel che The Last of Us II sarebbe stato ha iniziato a formarsi nell’opinione pubblica, determinando aspettative, tradimenti, sorprese e conferme che hanno avuto un impatto devastante sul valore stesso dell’opera in quanto tale, ricoprendolo sotto una coltre di pregiudizi negativi e speranze ottimistiche che ancora oggi soffocano tutto ciò che cresce nel mezzo.

Tutto questo non è una novità, né nel settore videoludico né, tantomeno, negli altri mezzi espressivi dal grande richiamo mediatico. Da sempre un’opera legata a nomi di grande rilievo o a fenomeni di costume genera dibattito ben prima della sua pubblicazione: sappiamo bene che Shakespeare era chiacchierato tanto prima quanto dopo le sue prime teatrali, e così accade ancora oggi. D’altronde, sia il brand The Last of Us sia l’artista Neil Druckmann sono alcuni dei nomi più potenti e discussi del settore, e il solo citarli innesca connessioni concettuali pregiudiziali (sia in positivo che in negativo): gusto per la cinematograficità; semplicità del gameplay; forte componente narrativa; arte, non divertimento. Tutte affermazioni belle o brutte a seconda della voce che le sostiene, alcune delle quali portate avanti dallo studio dello stesso Druckmann, Naughty Dog. Come in pochi altri casi del settore videoludico mainstream, apprezzare o criticare Naughty Dog significa abbracciare o negare una filosofia, una visione di come il videogioco debba essere inteso e fatto.

Ma i motivi per i quali l’immagine The Last of Us II ha acquisito tale impatto prima della sua pubblicazione sono ancora numerosi. In primis, il gioco è un’esclusiva, ossia un prodotto che viene pubblicato solamente su una piattaforma specifica: questa pratica è storicamente molto diffusa nel settore, e genera spesso fenomeni di fidelizzazioni al brand. Rispetto al gioco in quanto tale, dunque, abbiamo un primo ulteriore step, quello dell’esclusiva appunto, che rende più difficile scindere il giudizio in quanto tale da quello che matura per difendere (o attaccare) il brand avversario. Come con tutte le tipologie di fidelizzazione, non c’è necessità di prova diretta del fatto in cui si crede, ma solo bisogno di, appunto, fede: come tale, è scontato poter giudicare, valutare e apprezzare qualcosa ben prima della sua esistenza concreta. Nel caso del settore videoludico, questo fenomeno assume a volte dimensioni macroscopiche, a seguito di una diffusa «cultura dell’hype», ossia una predisposizione di tutto il settore (produttori, distributori, stampa, influencer e consumatori) a concentrarsi più sui fenomeni in arrivo che su quelli già pubblicati.

Non solo hype, però. A due mesi dall’uscita del gioco sono stati pubblicati, senza il consenso dell’azienda, numerosi stralci del prodotto finale, che mostravano fasi di gioco avanzatissime e teoricamente da non far vedere al pubblico, e tramite i quali si venivano a scoprire tutti i più grandi colpi di scena del gioco, compreso il finale (vennero proprio pubblicati gli ultimi 30 minuti). Alcuni li hanno visti, altri no, ma come è normale che accada questi spezzoni del racconto, presi fuori dall’esperienza e inseriti in un contesto estremamente polarizzato, hanno sicuramente influenzato un’altra, ampia fetta di pubblico. Sia chiaro che anche in questo caso non lo si dice solo in negativo: sono stati numerosi anche i casi di chi ha comprato il gioco perché incuriosito da quanto emerso da questi contenuti non autorizzati.

Inoltre, i contenuti stessi di questi video mostravano personaggi della comunità LBGTQIA+, oltre a eventi che sono stati interpretati come fortemente negativi nei confronti della tradizione del brand. Ciò è accaduto perché il discorso videoludico, soprattutto quando prodotto, ideato e distribuito principalmente negli USA, è fortemente politicizzato: fenomeni come il Gamer Gate hanno ancora oggi delle conseguenze micro e macroscopiche, e il dibattito intorno all’immagine The Last of Us II ne è stato sicuramente influenzato. Infatti, voci di collaborazioni con una dei simboli del «nazifemminismo» (come indicato dalla retorica di matrice alt-right), Anita Sarkeesian, iniziarono a diffondersi fluidamente per il web, tra canali YouTube e blog WordPress. Il casus belli più evidente è stato uno spezzone di un video dove Druckmann confermava le nuove attenzione del team di sviluppo verso rappresentazioni di genere ed etniche diverse dallo standard, come chiesto a gran voce da esponenti di nuove comunità emergenti. Come spesso capita, l’estrema destra ha risposto rinfacciando un tema di sinistra, ossia facendo notare a Druckmann le estenuanti sessioni di crunch (lavoro oltre i limiti d’ufficio e obbligatorio) a cui sono stati notoriamente sottoposti i dipendenti di Naughty Dog, affibbiando il classico epiteto di «radical chic» anche all’autore americano di origini israeliane. Inoltre, Druckmann ha deciso di ricorrere a un uso artistico dei trailer pubblicitari, utilizzandoli per deviare le aspettative del pubblico, per convincerlo di una cosa piuttosto che di un’altra, finendo quindi per inserirlo nel processo esperienziale stesso, e avviando il consumo del prodotto prima dell’uscita del gioco. Infatti, l’autore israeliano ha deciso di modificare alcuni personaggi presenti nei trailer, citando l’operato di un altro grande regista videoludico (Hideo Kojima), e così facendo ha lasciato intuire l’esistenza di un percorso narrativo che, in realtà, è del tutto assente. In un settore abituato a ricevere la comunicazione pubblicitaria come finalizzata alla descrizione di un prodotto per l’acquisto, pratiche simili sono molto pericolose, e facilmente equiparabili alla pubblicità ingannevole.
Dal punto di vista della ricezione culturale, dunque, il gioco si è piazzato su delle posizioni specifiche ben prima della sua effettiva pubblicazione.


C’è poi da considerare l’enorme campagna comunicativa utilizzata da Sony e Naughty Dog per spingere il prodotto, che ha ovviamente la funzione di direzione l’attenzione del consumatore, modificandone quindi in positivo la percezione valoriale del prodotto stesso. Questo processo avviene con tutte le aziende, ovviamente, e anzi la strategia per The last of Us II è stata molto meno invadente e onnipresente di quelle viste altrove. È interessante sottolineare però un fenomeno che si manifesta molto di rado nel settore videoludico, al contrario degli altri ambienti creativi: come detto prima, Neil Druckmann è uno degli autori più considerati, amati e apprezzati dalla critica e dal pubblico, e le interviste nei suoi confronti hanno sempre un carattere molto più autoriale di quelle rivolte a molti altri direttori artistici. Di conseguenza, quest’ultimo ha avuto modo di esprimere più volte le sue opinioni sui significati e i valori dell’opera, affermando di voler creare qualcosa che raccontasse i significati della violenza, della vendetta e della sete di giustizia. Nello specifico, l’artista israeliano ha affermato di aver pensato al tema delle diverse prospettive dopo aver visto dei video del linciaggio di Ramallah, affermando di aver provato una sete di vendetta enorme nei confronti dei responsabili, con pensieri decisamente violenti e brutali, e di voler riproporre questa riflessione nel gioco. A questo punto, ben prima dell’uscita, l’immagine di The Last of Us II era già carichissima di significati politici e culturali accumulatisi con processi sia volontari che involontari.

Infine, The Last of Us II è il sequel di uno dei giochi più apprezzati di sempre dalla critica e dalla comunità di giocatori, e sin dal lancio nel 2013 il primo capitolo è stato più volte definito come il «Quarto Potere del videogioco». Con quest’affermazione, si intende riferirsi a quell’opera che posiziona definitivamente il videogioco tra le arti espressive, facendola elevare dalla «artigianalità» che ne caratterizza i processi produttivi, trasformandoli teoricamente in creativi. Il riferimento (confermato nel caso della recensione di Adam Sessler, ipotizzato dal sottoscritto negli altri) è inoltre a un articolo di Clint Hocking (Far Cry 2, Spilnter Cell: Chaos Theory) nel quale, criticando BioShock (2007), si chiedeva quando il videogioco avrebbe avuto il suo Quarto Potere. In sostanza, dunque, The last of Us II doveva sostenere il peso di un’opera che non poteva che ambire alla perfezione, seguito di quello che è diventato per antonomasia il titolo che l’appassionato utilizza per dimostrare il valore espressivo e artistico del mezzo videoludico.

Ecco, è da questo gigantesco ammasso di concetti che l’immagine The Last of Us II deve liberarsi per poter divenire il gioco The Last of Us II. Tenta di farlo, scalpita, strepita, a volte boccheggia e altre accelera, e alla fine arriva, privo di forze e distrutto dalla lotta, sulla linea del traguardo. Ma cosa ne rimane?

Neil Druckmann ha affermato di non aver voluto creare un gioco «divertente», ma «avvincente». In realtà, ha fatto entrambe le cose: alcune scene del racconto sono sicuramente avvincenti, ma tante, tantissime altre sono genuinamente divertenti, e le sue strutture ludiche sono disegnate per ottenere questo risultato. Ripulire da cima a fondo le zone nelle quali è divisa la mappa ci garantisce collezionabili, risorse, munizioni e persino potenziamenti per le armi, rendendoci sempre più potenti e pronti allo scontro, che è di una fisicità devastante: la violenza è vera e divertente, sia nel suono che alla vista. In questo modo, Anthony Newman e Kurt Margenau, i due direttori della componente ludica, hanno saputo far collaborare le meccaniche della prima metà del gioco con quanto emerge dal racconto scritto da Druckmann e Gross (la co-scrittrice): Ellie, la protagonista, prova la stessa rabbia e la stessa frustrazione descritte dall’autore israelo-statunitense durante la visione del video, ed è con quelle emozioni che si lancia in una guerra personale contro tutti coloro che sono responsabili delle sue sofferenze. La spingono la vendetta cieca verso nemici che neanche conosce, e la necessità di ottenere una giustizia che è solo simbolica, che non tiene conto delle conseguenze della stessa sugli altri. Quando uccide, Ellie gode di un piacere impuro, che le fa tremare i polsi per la totale perdita di freni inibitori, per la sanguinosa sete di vendetta che la motiva e le offusca la mente: allo stesso modo, l’eliminazione di quel nemico che ci ha colpiti ci soddisfa, e il suo rantolo finale ci accompagna ancora mentre distogliamo lo sguardo, pensando al nuovo avversario che ci fronteggia.

Nella costruzione di questa prima sessione di gioco, c’è una sovrapposizione quasi sorprendente con il tema emotivamente scatenante del conflitto israelo/palestinese (il già citato linciaggio di Ramallah). Infatti, tramite l’uso dei flashback torniamo spesso al viaggio che Ellie e Joel hanno dovuto affrontare nel capitolo originale, quasi a sottolineare quanta sofferenza e dolore hanno sostenuto per poter finalmente giungere a Jacksonville, il villaggio nel quale finiscono per vivere e che identificano come «nuova casa», prima che l’anonimo nemico spezzi la loro quiete: richiamando i bei tempi andati e la sofferenza affrontata a causa del nemico, Druckmann e Gross vogliono generare nel giocatore la stessa sete di sangue che caratterizza l’agire di Ellie. Quel nemico è in realtà Abby, la seconda protagonista del gioco, che vede la sua vecchia casa distrutta da un altro invasore, quel Joel che alla fine del primo capitolo le uccide il padre e molti amici, spezzando per sempre quella sottile stabilità che il suo gruppo si era costruito dopo anni di sopravvivenza estenuante. Se, chiaramente, è difficile credere che Druckmann abbia voluto recuperare metaforicamente il tema del conflitto per tutto lo sviluppo narrativo dei due capitoli, è al contempo interessante notare come la serie non si fermi solo alla suggestione originaria che ha scatenato la voglia nell’autore di esprimersi a riguardo, e che invece continua a emergere con regolarità durante tutta l’esperienza: i concetti di invasione, appropriazione, diffidenza dell’altro e cieca vendetta permeano tutto il racconto. Il trittico formato da Joel, Ellie e Abby racconta dunque di individualità che, in virtù della sofferenza che hanno provato, legittimano ogni genere di azione per il loro tornaconto, che percepiscono umanità solo nel loro gruppo ristretto, e che deumanizzano un altro che vedono solo come fazione avversaria, privandolo persino del riconoscimento della sua sofferenza. L’intero sviluppo tematico del gioco ruota attorno a questi concetti, nel tentativo di esprimere una riflessione sull’inutilità della vendetta, sulla necessità di scoprire l’altro, sul bisogno di accettare la perdita.

La deumanizzazione dell’altro si manifesta anche nel clicker, nel nuovo essere apocalittico formatosi dalla diffusione del fungo cordyceps all’interno dei corpi ospitanti umani, trasformatisi ben presto in una forma lievemente intelligente e affamata di zombie, guidati dalle necessità del parassita. La pubblicazione del gioco durante il diffondersi del Coronavirus ha ovviamente sovrapposto i due fenomeni di «Spillover» che fanno da base sia della finzione narrativa di The Last of Us, sia della realtà materiale che viviamo oggi. Ma cosa fa il fungo alla mente umana? Se lo zombie romeriano mangiava il cervello in funzione critica verso un consumo privo di vero valore, il fungo di The Last of Us si diffonde fluidamente in ogni corpo e luogo anche solo con un morso, annientando ogni forma umana che incontra nel suo cammino. L’imperativo della crescita costante si manifesta tramite un organismo micotico umanizzato nei desideri, dato che in natura (esiste realmente) ha diffusioni molto più moderate e contenute tra gli insetti (gli unici soggetti attaccati nella realtà). Ecco cosa li rende mostri: hanno un atteggiamento innaturale, sembrano solo apparentemente esseri biologici ma in realtà sono autolesionistici, perché cercano di diffondersi a tal punto da, una volta esauriti tutti i potenziali ospiti, annichilire sé stessi. E dunque il cervello, oramai svuotato di valore per il sovraconsumo, viene sostituito dai corpi, morsi, dilaniati e azzannati da questo essere impercettibile che ci accerchia. È proprio per questo che non si perde la funzione di specchio dello zombie romeriano: osservando il mostro della finzione, osserviamo il mostro del reale, ossia noi e la nostra continua esapansione verso un’apocalisse ambientale autoinflitta. Non è un caso se, tra le fasi di diffusione del fungo sul corpo, quelle iniziali ci mostrano ancora figure quasi totalmente umane urlare di dolore, soffrire, emettere versi devastanti e laceranti, non per la paura generata ma perché fanno emergere la coscienza che ancora soffre, soffocata dal parassita. C’è un momento (capitatomi casualmente) nel quale, nel bisogno urlato di mordere, diffondersi, crescere e riprodursi, uno stalker rimasto provvisto solo di busto si trascina verso di noi, noncurante di ogni altra cosa intorno a lui. Ecco, è lì che il dolore della perdita dell’umanità in virtù dell’infinito consumo emerge con tutta la sua violenza, ben oltre le pur toccanti cinematiche.


Purtroppo, mentre la seconda parte del gioco sviluppa narrativamente quanto posto nella prima fase, le sue meccaniche seguono invece altro percorso, basato sulla progressione, sul potenziamento e sulla curiosità che descrivevano ludicamente anche la prima parte. Se però all’inizio questo permette la sovrapposizione emotiva del giocatore con il personaggio di Ellie, nella seconda parte del racconto questo processo non si manifesta allo stesso modo, proprio perché narrativamente si inizia a maturare il concetto dell’inutilità della vendetta, mentre ludicamente si mantengono solide le sensazioni di soddisfazione brutale garantite dalla visceralità del combattimento. A poco servono dettagli comunque apprezzabili come il tentativo goffo di dare un nome a tutti i personaggi non giocanti che uccidiamo: la differente sensibilità nel trattare l’umanità tra le sessioni cinematografiche e quelle giocate è abissale. Per esempio, al contrario delle notifiche visive tradizionali, chi gioca non ha alcun indicatore che mostri l’agire del nemico, i suoi pattern o i suoi stati d’animo: tutto viene comunicato tramite suono e immagine, e ciò restituisce una sensazione di realtà, e dunque di umanità. Eppure, dovendo comunque garantire controllo, dominio e potere sugli spazi e sui tempi del movimento nel mondo di gioco, gli sviluppatori hanno comunque inserito notifiche musicali extradiegetiche che ci comunicano che un determinato livello è finito, che possiamo rilassarci, spezzando la sensazione di impotenza e ansia generate dal non sapere cosa ci circonda.

Di solito in casi simili si sostiene che il punto è che il giocatore non è l’avatar che utilizza, e che le emozioni del personaggio interpretato sono diverse da quelle di chi gioca. Eppure, sono numerosissimi i tentativi di far sovrapporre le due coscienze, a partire da una ricercatezza sinestetica immensa: un personaggio soffre di vertigini? E allora lo schermo del giocatore tremerà a seconda della vicinanza a un baratro; Ellie lavora a fonda su una nuova arma? Allora chi gioca vedrà passo passo ogni singolo movimento che corrisponde all’input che darà al suo avatar; Abby viene attaccata da un cane? La telecamera cambia prospettiva in funzione di una maggiore vicinanza ai denti del nemico dello sguardo dello spettatore come quello del personaggio rappresentato. In generale, nel suo desiderio di criticare gli individualismi che ci fanno vedere la realtà da una sola prospettiva, The Last of Us II fallisce nel creare, col mezzo più adatto al mondo per farlo, un rapporto sistemico tra l’agire dei personaggi e i luoghi che essi percorrono, che sono disegnati per essere usati dal giocatore, e non per far emergere rapporti. Ne sono prova l’esistenza di alcune classiche boss fight, sia grandi che piccole, la cui funzione è più vicina all’esaltazione emotiva per l’atto compiuto che non alla scoperta di una diversa prospettiva; o l’assenza più totale di forme di vita alternative e animali, se non nelle sequenze meramente cinematografiche, dove assumono sempre funzione metaforica, o quando diventano aggiunte ludiche, come con i cani: in quest’ultimo caso, quando gli sviluppatori hanno voluto dare a un singolo animale un significato specifico gli è stata dedicata una sequenza più corposa e lunga, mentre per i restanti ci si è limitati al comune guaito. Indicatori di una componente che mette l’utente al centro con contenuti eccellenti e dall’altissimo standard produttivo, ma che proprio per questo non sfidano in alcun modo le sue abitudini di consumo e i pregiudizi sulla forma espressiva, limitando alla sceneggiatura le scelte coraggiose. Così facendo, si può facilmente passare al consumo successivo, senza mettere in crisi i modi con i quali interagiamo videoludicamente con temi come la violenza, la vendetta, la morte. Come uno zombie, appunto.

Se gli animali sono assenti dal racconto, la natura restante diventa ancora più protagonista rispetto al capitolo originale: gli Stati Uniti, che fanno da sfondo, sono stati riconquistati dalla natura, soffocata fino a quel momento dal cemento. Visitare Seattle e le altre ambientazioni di The Last of Us II signfica osservare un mondo che rinasce sulle rovine del vecchio, che deve cedere posto a un verde possente, che distrugge le vecchie strade e ne crea di nuove, tra le crepe delle colossali strutture in acciaio che giganteggiano sulle città abbandonate. Il rapporto tra le piccolezze egocentriche dell’uomo e la rinascita della natura si manifesta sin dai primi istanti di gioco, dove da un interno casalingo dove Joel racconta degli orrori del suo passato si passa a una cavalcata all’aperto, che mette in scena un mondo ben lontano dall’apocalisse ambientale, anzi. In tal senso, con un mondo che continua anche senza di noi, The Last of Us riesce a dare coerenza visiva e contestuale al suo desiderio di spezzare le visioni individuali e antropocentriche della realtà, manifestando con un certo nichilismo l’inutilità dell’umanità nel grande schema delle cose.

Indicativo, poi, come il mondo di gioco sia disseminato di armi, munizioni e proiettili di ogni tipo, che descrivono tanto il contesto narrativo del gioco come quello che lo ha prodotto: è effettivamente più probabile trovare strumenti simili nelle case dell’entroterra statunitense, piuttosto che farmaci, medicine e bendaggi. Non è un caso se il livello più terrificante del gioco si ambienta in un ospedale, teorico luogo di protezione e salvezza ma, per la potenza e la diffusione del fungo, ben presta divenuto simbolo di morte e isolamento: anche in questo, a posteriori, le suggestioni con la contemporaneità sono numerose. È dunque scontato che, provenendo da un contesto culturale simile, i sopravvissuti usino per comunicare gli unici strumenti rimasti: le armi. Nonostante dunque l’umanità tenda a collaborare e aiutarsi a vicenda, le risorse e i mezzi reperibili nel mondo di The Last of Us II permettono solo lotta, violenza, guerra, odio. Come afferma Hideo Kojima: «Nei videogiochi odierni ci sono tanti bastoni e poche corde, tanti strumenti per allontanare, e pochi per legare». Nell’estensione del loro arsenale, i personaggi di The Last of Us II trovano dunque strumenti comunicativi finalizzati all’allontanamento, e non alla cooperazione: anche in questo caso, una visione contraddittoria rispetto al messaggio di apertura degli orizzonti individuali voluto dal direttore creativo. Come posso comunicare con gli altri, se l’unico mezzo che mi è concesso è quello della violenza? Se tutto ciò che ho è pensato per allontanare l’altro, per distanziarmi?

È forse è proprio nelle sue miriadi di contraddizioni come nelle sue splendide suggestioni che The Last of Us II riesce a liberarsi dall’ombra della sua immagine e diventare una cosa nuova. Un’opera teoricamente ideata da poche menti creative, ma materialmente prodotta da più di duemila persone, che hanno contribuito alla creazione di qualcosa di colossale, enorme e sfaccettato. Tutto questo rende difficile poter controllare come viene espresso il messaggio, certo; ma al contempo arricchisce con mille sfumature un messaggio che è già stato interpretato in mille modi diversi, e ha prodotto video, articoli, riflessioni, post sui social. Non sempre brillanti, non sempre super partes, ma l’essere umano è fatto anche di questo: di errori. E forse The Last of Us II inteso come opera videoludica non riesce a dimostrare l’urgenza di conoscere e scoprire l’altro, ma sembra esserci riuscito come fenomeno mediatico e di costume.