Veganismo nero

Antispecismo antirazzista per un’alleanza multispecie!

Estratto dal libro Afro-ismo, Cultura pop femminismo e veganismo nero, di Aph Ko e Syl Ko, curato e  tradotto da feminoska, pubblicato da VandA edizioni con prefazione di Ippolita e postfazione di Carol J. Adams.

Una delle domande più frequenti che ci viene posta è: «Cosa c’entra la razza con il veganismo? Il veganismo dovrebbe riguardare esclusivamente gli animali!».

Ora, questa domanda (e questa opinione in generale) ci è stata posta nei contesti più svariati, e quindi, a seconda del contesto, cambia il modo in cui si può decidere di affrontarla. Qui vogliamo però concentrarci specificamente sul fenomeno forse più frequente che suscita questo interrogativo, ovvero la tendenza di alcune persone a contraddistinguere o rendere evidente la propria identità razziale o etnica quando si affiliano a un’ideologia, a un movimento, a uno stile di vita o a una forma di attivismo.

Naturalmente, questa tendenza non è peculiare degli ambienti vegani o animalisti, né è caratteristica esclusiva delle persone di colore. Esistono femminismi neri, indigeni, latini e di altro tipo. Ambienti di attivismo al contempo queer e marxisti e così via. Ma in tal caso la questione appare diversa, dal momento che è evidente che le persone si riferiscono a identità plurali da loro condivise, e affrontare il sessismo o il classismo, nel caso di soggetti razzializzati o emarginati che affrontano questi problemi, fa una bella differenza.

Anche se la gente capisce facilmente perché, per esempio, i femminismi debbano essere declinati a seconda delle identità delle persone che vi fanno parte, potrebbe non risultare automatico capire perché il veganismo debba essere declinato allo stesso modo. Del resto, il veganismo è evidentemente diverso, poiché il suo focus, e il fulcro del nostro attivismo, sono le vittime non-umane. Non riguarda noi: si tratta di loro. Mettendo da parte la genealogia problematica dei termini umano e animale, noi non dovremmo essere al centro del veganismo, perché al centro ci sono gli animali.

E quindi? La tendenza a contrassegnare o evidenziare le nostre identità razziali ed etniche negli spazi vegani ha il potere di inquinare il messaggio del veganismo o interferire con esso? Di nuovo, cosa c’entra la razza con il veganismo?

1. Vegan neri

Innanzitutto la razza non ha necessariamente a che fare con il veganismo in senso stretto, molto dipende da come si inquadra la situazione animale. Conosciamo un sacco di vegan neri per i quali non è importante includere nel proprio attivismo per gli animali la questione razziale, e che non sentono il bisogno di includere significanti razziali ed etnici nel proprio veganismo. In effetti, eravamo ansiose di scrivere questo capitolo proprio perché volevamo chiarire con precisione che cosa intendiamo con veganismo nero, che per noi non significa semplicemente essere allo stesso tempo nere e vegane (ne parleremo più avanti). Tra coloro che affermano che il veganismo è «solo per gli animali» vi sono molte persone di colore.

Per questi vegan, il veganismo riguarda gli animali. Costoro abbracciano l’idea tradizionale che la situazione animale abbia a che fare con lo specismo, che è diverso ma allo stesso tempo molto «simile» al razzismo o al sessismo. Ritengono che per resistere allo specismo occorre astenersi dai prodotti animali (per quanto è possibile) e rifiutare la retorica e l’immaginario specista. Questa resistenza può essere politica, personale, o entrambe le cose.

Tuttavia, anche i vegan neri allineati al progetto vegano tradizionale spesso si trovano ad affrontare comportamenti e atteggiamenti discriminatori di vegan non neri. Comprensibilmente, possono non sentirsi sicuri ed esclusi, e cercare spazi sicuri tra coloro che hanno subito discriminazioni simili o con coloro che considerano alleati, il che può portare ad ambiti di attivismo connotati razzialmente.

Ma non è questo che intendiamo per «veganismo nero».

2. Veganismo nero

Nell’autunno del 2009 una nostra amica, all’epoca performer amatoriale e autodidatta, mise in scena una meravigliosa versione di Cut Piece di Yoko Ono (1964). Per chiunque non abbia familiarità con quest’opera, l’artista si siede sul palco con un paio di forbici poste davanti a sé. Uno a uno, membri del pubblico si avvicinano e, usando le forbici, tagliano uno o più pezzi del vestito dell’artista.

Fu sorprendente notare come l’identità dell’artista influisse notevolmente sulla performance e sul suo significato. Ogni volta che vengono eseguite le istruzioni (o la «partitura») per Cut Piece, la performance cambia a seconda dell’artista. L’artista è fondamentale per la rappresentazione del pezzo e, come tale, non può mai essere isolato dal prodotto finale.

La nostra amica era molto diversa da Yoko Ono: è una nera americana dalla corporatura imponente, che vive di borse di studio per proseguire l’università, mentre Yoko Ono è una donna giapponese minuta, parte della scena artistica d’avanguardia di New York. Anche se entrambe intendevano inviare lo stesso tipo di messaggio con quella performance, i loro contesti di vita specifici non solo plasmavano la trasmissione di quei messaggi, ma influivano sui messaggi stessi.

In un certo senso, si potrebbe dire che esistono modi diversi per eseguire questo pezzo, e sarebbe un errore presumere che uno sia più legittimo dell’altro. Anche Yoko Ono ha capito che la sua performance originale non è l’unica maniera di eseguirla. La sua performance è la sua personale interpretazione del modo migliore per trasmettere un determinato messaggio, ma una persona di altra corporatura, sesso, razza o stile di vita, che vive in un luogo e un tempo diversi e con capacità e intenzioni diverse, interpreterà e trasmetterà a proprio modo quel messaggio.

La nostra esperienza di Cut Piece e le nostre riflessioni su questa performance nel corso degli anni ci hanno spinto a considerare allo stesso modo i luoghi dell’attivismo e i movimenti, cioè come luoghi contestualizzati dalle attiviste e dagli attivisti che li abitano. In altre parole, vogliamo richiamare l’attenzione sul fatto che è fondamentale identificarci come bianchi o neri o latini, etero o queer, atei o musulmani e così via. Perché è importante? Perché questi aspetti influenzano la maniera in cui vediamo e pensiamo ciò che accade nel mondo. Influiscono sulla maniera in cui comprendiamo la realtà, su come la descriviamo e su come scegliamo di agire.

Il veganismo nero incoraggia quindi le attiviste e gli attivisti a pensare e a esprimere la condizione animale come ritengono opportuno, attraverso la lente della propria situazione esistenziale. A volte, questo potrebbe persino significare non affrontare mai direttamente lo sfruttamento e l’oppressione degli animali. È un modo di essere vegan, secondo il quale esistono molti modi ugualmente legittimi per comprendere, esprimere e resistere al modo in cui gli animali subiscono l’influenza negativa dei nostri sistemi di potere. Come suggerisce l’espressione «veganismo nero», crediamo che la nostra identità di nere influenzi il nostro veganismo.

3. Vantaggi

Molto spesso, si ritiene che presentare un’analisi sfumata dei movimenti, evidenziando in particolare le differenze insite nel nostro personale attivismo, li frammenti; una convinzione comprensibile dato che, nella nostra cultura, le differenze sono sempre state inserite in un contesto gerarchico. Di conseguenza, le persone tendono a considerare questi progetti ambigui, o addirittura demonizzano chi sottolinea caratteristiche o attributi che le distinguono all’interno del movimento.

Dal nostro punto di vista, invece, svelare le sfumature presenti nei nostri movimenti indicando esplicitamente la prospettiva in opera (se quella prospettiva è fondata sulla propria esperienza razziale, sessuale, religiosa o altro) aiuta i movimenti.

Vale la pena ricordare che problemi come lo sfruttamento e l’oppressione degli animali devono essere innanzitutto espressi a parole e poi spiegati prima di iniziare a costruire movimenti per la resistenza. Queste parole – la maniera in cui si articola il problema – e la spiegazione di questi fenomeni infelici non ci vengono calate dall’alto, «incontaminate» da prospettive umane limitate. Sono le persone ad articolare il problema, come gli riesce meglio.

Solo perché alcune persone hanno deciso di descrivere e quindi capire un problema in un certo modo non significa che hanno esaurito i modi di dire, pensare o agire su quel problema. Forse non hanno pensato di rappresentare il problema diversamente perché non si scontrano con certi aspetti della vita. O forse era importante per loro rappresentare il problema in un determinato modo perché certi aspetti sono sempre presenti nelle loro vite.

Più persone riflettono da prospettive differenti su un problema a cui teniamo veramente, più risorse abbiamo a disposizione per fare qualcosa per risolverlo.

E questo è un bene!

Ma quando le persone iniziano a sostenere che esiste un modo (giusto) di essere vegan – che si suppone riguardi gli animali e nessun altro –, che razza, genere o abilità o qualunque altra cosa sono «distrazioni», che includere le nostre situazioni vissute è «irrilevante» e così via, stanno fondamentalmente privilegiando un particolare punto di vista! Dimenticano che chi sostiene simili istanze – come dovrebbe essere il veganismo – ha il proprio modo di pensare, parlare e agire sull’oppressione degli animali.

Dimenticano che le persone, tutte le persone, sono situate nel mondo in modi diversi, e il modo in cui sono situate informerà la loro prospettiva delle cose, indipendentemente dal fatto che lo riconoscano esplicitamente. Di solito, chi non sente il bisogno di includere significanti razziali ed etnici (o altri significanti come genere, orientamento o abilità) non si sente in dovere di farlo perché ricadono nella norma.

Chi come noi non è considerato essere nella norma tende tuttavia a vedere e pensare le cose in modo diverso. E questo avviene proprio perché siamo emarginati, ignorati, oppressi! Ovviamente, occupiamo posizioni di potere molto diverse, quindi il mondo ci si presenta in modo differente. Perciò, per chi come noi adotta la prospettiva del veganismo nero è fondamentale contrassegnare il proprio veganismo attraverso il significante dell’essere neri. La nerezza informa la prospettiva con cui affrontiamo il problema quando iniziamo a pensare e fare qualcosa per la condizione animale.

Ciò non vuol dire che tutte le persone – nere o meno – che non lo fanno, che sono soddisfatte di utilizzare prospettive e approcci più generici e tradizionali nell’ambito dell’attivismo animalista, stiano facendo qualcosa di sbagliato. Vorremmo evitare di andare negli spazi e dire a quegli attivisti e a quelle attiviste come dovrebbero pensare e sentire le cose. Anche questa volta ci sentiamo affini alle nuove prospettive proposte dagli attuali studi decoloniali nel mondo, e pensiamo che le attiviste e gli attivisti dovrebbero accogliere una pluralità di prospettive e approcci anche se non sono del tutto identici ai propri, o anche se non li capiscono del tutto.

Invece di privilegiare un solo modo di parlare e agire nei confronti di un problema – una tendenza che, tra l’altro, cancella e al contempo mette a tacere le altre voci – perché non riconoscere come le nostre esperienze vissute ci aiutino a riformulare e comprendere diversamente il problema? Perché non sviluppare connessioni tra le oppressioni che affrontiamo e le oppressioni che altri gruppi affrontano, siano essi umani o no, per considerare il quadro generale? Perché sorvegliarci a vicenda quando potremmo imparare gli uni dagli altri?

4. Conclusione

In questo capitolo abbiamo cercato di chiarire cosa sia per noi il veganismo nero. Ci sarebbe molto altro da dire sul tema, ovviamente, ma per ora possono bastare queste osservazioni introduttive. Non intendiamo criticare i principali movimenti vegani e animalisti, né vogliamo dare l’impressione che le altre persone dovrebbero vedere le cose come noi, ma ci opponiamo all’interpretazione riduttiva che vede il veganismo nero come un insieme di «persone di colore che sono anche vegane». Speriamo così di aver fornito le ragioni per cui la razza è rilevante ed è, di fatto, parte integrante del veganismo e dell’animalismo/antispecismo.

Non vogliamo cedere alla tentazione di presentare la nostra prospettiva come universale o oggettiva e, per questo, evidenziamo la prospettiva con cui stiamo lavorando. Non stiamo facendo nulla di nuovo, ci stiamo semplicemente unendo a una lunga tradizione di persone che celebrano il pluralismo.

Speriamo tuttavia di aver mostrato anche qualcos’altro. In fin dei conti, il veganismo non può riguardare soltanto gli animali, non importa fino a che punto desideriamo che sia così. Siamo coloro che parlano e agiscono in merito al problema. Quindi, riguarderà sempre un po’ anche noi.

1. Questa di Cut Piece è stata la prima versione per singolo artista. Un sacco di polemiche circondano per ovvie ragioni la performance, ma alcuni retroscena sulla controversia relativa al significato dell’opera si trovano in Kevin Concannon, “Yoko Ono’s Cut Piece: From Text to Performance and Back Again”, Imagine Peace

Aph Ko
È teorica e produttrice indipendente di digital media e fondatrice di Black Vegans Rock. Ha un Bachelor in Studi sulle donne e sul genere e un Master in Studi sulla comunicazione/ media. È co-curatrice di The Praxis of Justice e ha lavorato come produttrice associata per il film documentario Always in Season.
Syl Ko
Ha studiato filosofia alla San Francisco State University e alla University of North Carolina, Chapel Hill. Attualmente lavora a un libro che esplora le forme di vita di Wittgenstein in cui considera la razzializzazione dell'animale.
feminoska
è transfemminista e antispecista, si dedica prevalentemente alla traduzione di testi militanti.
Dal 2016 fa parte del collettivo di traduzioni militanti Les Bitches (lesbitches.wordpress.com) con cui ha tradotto il libro Animali in Rivolta. Confini, resistenza e solidarietà umana di Sarat Colling (Mimesis, 2017).