Una farsa mediocre e per questo eccezionale

Matrix Resurrections, ovvero: per un’ontologia (comica) contro il binarismo occidentale

Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa.
Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte.

Thomas Anderson, famoso sviluppatore della saga di videogiochi The Matrix, confonde i suoi ricordi personali con quelli del personaggio del suo videogame, Neo. Sta lavorando a un nuovo gioco dal nome non casuale di Binary, combatte costantemente con se stesso per separare la realtà percepita dai suoi sogni e da questi ricordi sfocati, e il suo psicanalista (Neil Patrick Harris) gli somministra costantemente dei medicinali in forma di “pillole blu” per bloccare i momenti di dissociazione. Da qui riparte la saga di Matrix. 

Nonostante Matrix Resurrection – quarto episodio, uscito a quasi vent’anni di distanza dalla fine della prima trilogia – non convinca del tutto a livello cinematografico e narrativo, rimane incredibile dal punto di visto teoretico e speculativo. Uscendo dalla sala si ha l’impressione di aver visto qualcosa di mediocre e di eccezionale allo stesso tempo. Anzi, proprio perché mediocre, eccezionale. Se, secondo Walter Benjamin in L’origine del dramma barocco tedesco, è proprio nelle opere meno riuscite che riusciamo a intravedere meglio l’idea ed è proprio nel momento in cui viene meno la bella apparenza – che copre, totalizza e incanta –  che si espone il nucleo di verità dell’opera d’arte, così la quarta pellicola di Matrix espone e mette a nudo l’opera completa. 

Non c’è più né finzione né realtà. L’iperrealtà le abolisce entrambe.
Jean Braudillard, Cyberfilosofia

Nodi cruciali di questo quarto episodio sono, da una parte, la messa in questione del binarismo e la tematizzazione della scelta, e dall’altra il conseguente passaggio dalla tragicità della prima trilogia a una sua disattivazione in termini parodistici e di commedia. Si cercherà, dunque, in queste righe, di delineare sinteticamente i punti messi in scena da questa nuova pellicola, e le conseguenti prospettive speculative che aprono. La grandezza del quarto Matrix non sta infatti nella forza narrativa e nelle azioni – che spesso è carente e non incisiva – quanto piuttosto nell’approfondimento e nella messa in discussione a livello ontologico di alcune tematiche fondamentali dell’Occidente.

Innanzitutto, la questione della scelta si impone come decisiva e si trasforma. Nel primo film, questa risuonava tragica, l’aut aut si stagliava preciso e violento: “Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant’è profonda la tana del Bianconiglio. Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo. Niente di più”.

Nella prima trilogia, l’alternativa che si presentava a Thomas Anderson (Keanu Reeves) ovvero Neo, l’Eletto, era precisa: scegliere il mondo vero o il mondo apparente, la tranquillità di plastica o la lotta radicale, l’integrazione o l’apocalisse. Nella prima trilogia, cioè, esisteva ancora la verità, un punto fisso da cui guardare alle alienazioni e alle deviazioni da essa – seppur la conoscenza della teoria dei simulacri di Jean Baudillard veniva resa esplicita dal libro in cui Neo nascondeva i dischetti, appunto Simulacri e simulazioni; eravamo alle soglie del terzo millennio, e il mondo ancora non era stato completamente sussunto nello Spettacolo, l’essere umano ancora non inglobato nella macchina e negli algoritmi, e l’opzione tra un dentro ed un fuori ancora si dava. 

Ora invece si rende sempre più evidente che la verità come orizzonte normativo scompare, e si impone la lotta memetica tra immaginari. In Matrix Resurrections non c’è più scelta tra due pillole, tra la realtà e la matrice, tra l’umano o la macchina, ma i confini si tramutano in passaggi, in soglie di indistinzione, di indeterminazione – categoria deleuziana e agambeniana – tra i mondi. Nietzscheanamente, con il venire meno del mondo vero, scompare anche il mondo apparente. Cosa rimane una volta disattivate le polarità dialettiche? L’aver luogo del mondo, lo spazio carico di forma, la chora, bloccato finché succube di false dicotomie. 

Risuonano qui le parole di Morpheus nel momento in cui Neo si risveglia fuori da Matrix, e si sorprende di vedere accanto agli umani anche alcune macchine: “Not all seek to control, just as not all wish to be free.” In questo quarto episodio alcune macchine, infatti, collaborano con l’essere umano – anche loro hanno cioè indeterminato la loro funzione originaria, combattere gli umani – mentre alcuni umani non vogliono la realtà: non idolatrano la verità, di cui hanno perso il ricordo, ma preferiscono la finzione; non tutto è più manicheisticamente o bianco o nero. 

La potenzialità delle macchine non viene esautorata in un’unica attualità, quella di combattere gli umani; così come la potenzialità degli umani, non viene soddisfatta da un’esclusiva attualità, quella di scegliere, di volere, di essere liberi. In questo nuovo Matrix il dispositivo aristotelico potenza/atto viene disattivato: non si incontra più una potenzialità univoca che si può soddisfare esclusivamente in un’attualità, bensì atto e potenza si indeterminano e la potenza danza nell’atto. Ed è proprio qui la grandezza delle registe e di questo film. Nella prima trilogia gli antagonismi, gli opposti, andavano a formare polarità dialettiche contrapposte e, proprio in questo, si rimaneva irretiti in una dialettica senza fine di tesi e antitesi, di luci e ombre, di pillole blu e pillole rosse, di dentro e di fuori. Questo film, invece, tra le polarità dialettiche, attraverso soglie di indistinzione, apre campi e disattiva le opposizioni classiche. 

La regista Lana Wachovski, che nei quasi vent’anni trascorsi dalla prima trilogia, ha, insieme alla sorella (altra regista della prima trilogia) compiuto una transizione “m to f”, sa perfettamente che la critica al mondo totalitario delle macchine e degli algoritmi non può prescindere da una radicale ed epocale messa in questione della stessa logica occidentale: cioè del binarismo e della dialettica di polarità contrapposte. Bisogna ora avere cercare di disattivare il principio di non-contraddizione, l’aut l’aut, per arrivare a lasciar essere il “non identico” di adorniana memoria, ciò che sfugge alla griglia del pensiero concettuale e della ragione strumentale. Senza questa messa in questione, non ci può essere fuoriuscita dal Matrix, che proprio su questa logica binaria di 0 e 1 costituisce il suo mondo.

La grandezza di Lana Wachowski sta proprio qui: nel dire e disdire, nel fare e disfare, nel preservare integralmente l’agency, e, proprio nel preservarla, nel disattivare la possibilità della scelta.

The choice is an illusion. You already know, what you have to do.
Bugs

Nella prima trilogia tutto era scelta e responsabilità, grandi nodi problematici dell’Occidente. Sappiamo che la responsabilità non è una categoria morale bensì originariamente giuridica, ed è servita, tramite la costruzione di un soggetto di colpa, a riferire, a legare indissolubilmente delle azioni a un soggetto, così da poterlo sanzionare in primis e, successivamente (risemantizzandosi la categoria dal giuridico al morale) incolparlo. La colpa cioè nasce insieme al soggetto che la deve sopportare, non si danno l’uno prima dell’altra. Meccanismo tipico delle nostre religioni monoteiste è effettivamente quello del debito costante – ancor prima che il liberismo economico lo sussumesse come sua logica di base – che si esprime nel peccato originale. In principio siamo nate sbagliate, e abbiamo tutta la vita per poter – e sul come poter si apre lo spettro infinito delle soluzioni cattoliche, protestanti, ortodosse, ebraiche – colmare questo debito. Che, come sembra chiaro, dato che è stato presupposto in un passato inattingibile, è anche incolmabile nonostante gli sforzi e le tensioni. Sembra proprio essere questo meccanismo di presupposizione originaria a fondare la teleologia originaria, il nostro struggerci in un continuo rimando di mezzi e fini, tipico dell’Occidente.

In questa nuova pellicola, invece, viene negata la realtà della scelta, e proprio in questo si disattiva la tragedia. Viene infatti detto da Bugs (Jessica Henwick), una delle giovani new entries della saga: “The choice is an illusion. You already know, what you have to do.”

Che la scelta sia un’illusione, che già si sappia cosa fare, non vuol dire altro che assumere il proprio carattere. Neo sembra avere possibilità di scegliere, ma tutti sanno già cosa farà. Così come Tiffany/Trinity (Carrie-Anne Moss) sembra fino all’ultimo che compia la scelta di rimanere nel Matrix, con la sua condotta di vita borghese ed etica familiare: ma anche qui, il bivio si rivela illusorio. 

La grandezza di Lana Wachowski sta proprio qui: nel dire e disdire, nel fare e disfare, nel preservare integralmente l’agency, e, proprio nel preservarla, nel disattivare la possibilità della scelta attraverso l’assunzione del carattere. Un frammento spurio di Eraclito suona “Ethos anthropo daimon”, il carattere è destino per l’uomo. Volutamente ambiguo, sembra di primo acchito significare “se si ha carattere, siamo fautori del nostro destino”; a un’analisi più attenta, però, ci dice diametralmente l’opposto: laddove si è il proprio carattere, il destino lo si conosce già, quello che si farà è già chiaro, e in questo modo la sua tragicità, il suo pesare come orizzonte, viene disattivata – ed è qui che questo quarto episodio differisce dalla prima trilogia. Da paura del futuro si trasforma in gioiosa irreparabilità del presente. Se l’eroe tragico è colui che sceglie, e la sua scelta lo avviluppa in una serie infinita di scelte e di colpe e in un destino che gli cade sopra dall’esterno, il carattere della commedia sta esattamente in colui che non sceglie e non può scegliere, perché quello che fa è irreparabilmente ciò che è, anzi, di più, il come, il modo, in cui esso stesso è.

“At last. All these years later, here’s me, strolling out of a toilet stall. Tragedy or farce?”
Morpheus

Se la prima trilogia di Matrix era fondamentalmente tragica, (l’universo totalitario delle macchine e della realtà virtuale lasciava uno spazio effimero all’esistenza dell’Eletto che altro non è che un clinamen, una deviazione dalla matrice e dall’algoritmo), qui, sin dall’inizio, Lana Wachowski mette in bocca al nuovo Morpheus (Yahya Abdul-Mateen II) il nucleo programmatico del film, cioè la disattivazione della tragedia in farsa: “At last. All these years later, here’s me, strolling out of a toilet stall. Tragedy or farce?”. Quello che il film vuole suggerire è fin troppo chiaro: la tragedia non va combattuta, ma va svuotata di significato, perché solo una volta che essa è esposta nell’approfondimento del negativo ci si può, finalmente, giocare.

Se la prima volta che Neo incontra Morpheus questo appare completamente vestito di nero, in semioscurità, in una giornata di pioggia e di lampi, e lo mette di fronte alla più tragica delle azioni umane, la scelta,  adesso invece riappare con vestiti sgargianti – rimanda quasi al buffone medievale –  mentre esce dal bagno dei dipendenti di Deus Machina, l’azienda di videogiochi per cui lavora Thomas Anderson/Neo (da notare di sfuggita, l’azienda non si chiama “Deus ex machina” come da originale latino, il dio che subentra nelle tragedie tramite un marchingegno per risolvere una situazione senza via d’uscita; qui l’omissione dell’ “ex”  invece di insinuare la speranza e la possibilità di una trascendenza che interrompa una completa immanenza totalitaria, viene a colmare e a totalizzare: in un paradossale panteismo cyborg, la macchina diventa Dio e tutto ciò che esiste non è che macchina).

Che l’atmosfera tragica si faccia da subito comica lo rivelano anche le scene in cui la Deus Machina commissiona a Neo e ai suoi colleghi un quarto episodio della saga di videogiochi “The Matrix”, fortemente voluta dalla Warner. Qui la regista continua a giocare con gli infiniti piani di realtà e simulacri, indeterminando i confini, bucando lo schermo e disattivando dall’interno la stessa critica che sarebbe arrivata da parte degli spettatori: “Ce ne era bisogno di un nuovo Matrix?”, “Non ha detto tutto già la prima saga?”, “Cos’altro sarà possibile aggiungere, se non qualcosa di superfluo?”. Ed è proprio in questi momenti metacinematografici che parlano del progetto del film (anche se camuffato qui in videogioco) all’interno dello stesso fluire della pellicola, che sta la risposta alle critiche. Ciò che è possibile aggiungere alla saga di Matrix non è un qualcosa, un contenuto, bensì un come, un modo. Ed è a partire da qui che la stessa identica realtà, il medesimo stato del mondo, si fa radicalmente diverso: nel passaggio, di nuovo, da tragedia a farsa. 

Did you know hope and despair are nearly identical in code?
The Analist

L’analista, che in questo nuovo Matrix ha preso il sopravvento sull’architetto (da notare la critica delle sorelle nella prima saga all’urbanistica totalitaria e ora alla psicanalisi come processo di normalizzazione di devianze e di disfunzioni) e ha sviluppato una versione aggiornata di Matrix, pronuncia queste parole per spiegare a Neo come meglio controllare gli esseri umani nel Matrix: non più attraverso fatti, ma attraverso emozioni. Che la paura e la speranza siano secondo Spinoza fondamentali passioni tristi – quelle che, indeterminando il presente per un futuro ancora non esistente, portano al controllo e alla manipolazione degli esseri umani – deve essere stato chiaro agli sceneggiatori. Ma l’analista pronunciando queste parole non sa che gli si possono torcere violentemente contro. 

L’analista cioè qui parafrasa, quasi citando, lo Spinoza del libro III della sua Ethica. Spinoza scrive che la sicurezza e la disperazione sono identiche come stato del mondo, l’importante è che sia stato fugato ogni dubbio. Se cioè, avendo paura o speranza, basiamo il nostro agire presente su qualcosa di inesistente al momento, la sicurezza e la disperazione sono, nel momento in cui non c’è più dubbio (nel momento in cui la situazione si fa irreparabile) proprio l’antidoto alle passioni tristi che portano a farci governare e manipolare. Di una situazione irreparabile si può solo ridere o piangere.  Giunti a consapevolezza dell’universo totalitario di Matrix, la prima trilogia rispondeva con la paura, la speranza e la scelta. Con la tragedia. Qui si sceglie di disattivarlo e di ridere: la tragedia totalizzante si fa commedia liberatoria. 

Se sul piano narrativo il film si rende a questo punto meno avvincente in quanto meno tragicamente incisivo, al contempo si fa anche più interessante: l’uscita dal Matrix sembra indicare verso la disattivazione della sua tragicità – come esempio si può citare la scena finale del film, dove ogni enfasi viene svuotata in direzione comica – e verso la messa in discussione della stessa logica dell’Occidente su cui il Matrix si installa: quella binaria e dell’infinita dialettica degli opposti. La lotta dei ribelli contro le macchine non sarà più manichea, fatta di binarismi che irretiscono in una dialettica senza fine – uomo e donna, bene e male, luce e ombra, uomo e macchina; non sarà più tragica, ma si risolverà irreparabilmente e senza speranza nel gesto del ridere: l’aver luogo di un nuovo mondo sorgerà dal profanare e giocare con i contorni del vecchio.

Solo a chi è senza speranza, è dato sperare.
Walter Benjamin