Dana Michel, Yellow Towel

Per un femminismo decoloniale

Contro la falsa innocenza del femminismo bianco, è ora di ribadire che «giustizia per le donne» non può che significare giustizia per tutti: perché sessismo, razzismo e capitalismo saranno sempre intimamente legati

In occasione dell’intervento di Françoise Vergès all’edizione 2019 di Short Theatre, sabato 7 settembre a Roma, che sarà introdotto da Ilenia Caleo e Isabella Pinto del Master in Studi e Politiche di Genere di Roma Tre, pubblichiamo un estratto dal suo Un féminisme décolonial per la traduzione di Elena Biserna. Ringraziamo autrice, traduttrice, Ilenia Caleo, Isabella Pinto e Short Theatre per la disponibilità. Il programma completo di Short Theatre lo trovate qui.

Il rovesciamento che ha reso il femminismo, a lungo screditato dalle ideologie di destra, una delle loro punte di lancia merita di essere analizzato. Che cosa è in gioco in questo dispiegamento ideologico? Come si è realizzato questo slittamento? Come siamo passate da un femminismo ambivalente o indifferente alla questione razziale e coloniale nel mondo francofono a un femminismo bianco e imperialista? Che cosa indica il termine femonazionalismo? In che modo il femminismo è diventato, in una convergenza degna di nota, uno dei pilastri di più ideologie a prima vista in opposizione – l’ideologia liberale, l’ideologia nazionalista xenofoba, l’ideologia di estrema destra? In che modo i diritti delle donne sono diventati una delle carte vincenti dello Stato e dell’imperialismo, uno degli ultimi ricorsi del neoliberalismo e la punta di lancia della missione civilizzatrice femminista bianca e borghese? Questo femminismo e le correnti nazionaliste xenofobe non proclamano una comunità d’intenti ma condividono dei punti di convergenza e sono questi ultimi a interessarci in questa sede. 

Questo testo si pone in continuità con i contributi critici delle femministe del Sud globale e delle loro alleate al Nord sul genere, il femminismo, le lotte delle donne e la critica di un femminismo che definisco civilizzazionale perché ha intrapreso la missione di imporre un pensiero unico che contribuisce alla perpetuazione di una dominazione di classe, di genere e di razza in nome di un’ideologia dei diritti delle donne. In questo quadro, difendo un femminismo decoloniale che ha come obbiettivo la distruzione del razzismo, del capitalismo e dell’imperialismo; un programma a cui cercherò di dare una dimensione concreta. 

«Il femminismo va ben oltre l’uguaglianza di genere e oltrepassa largamente la questione del genere», ricorda Angela Davis. Oltrepassa anche la categoria «donne» – fondata su un determinismo biologico – e restituisce alla nozione di diritti delle donne una dimensione di politica radicale: prendere in considerazione le sfide poste a un’umanità minacciata di sparizione. Mi schiero contro una temporalità che descrive la liberazione solo in termini di «vittoria» unilaterale sulla reazione. Una prospettiva di questo tipo dimostra un’«immensa condiscendenza della posterità» verso le/i vinte/i. Questa scrittura della storia fa del racconto delle lotte delle/i oppresse/i quello di una successione di sconfitte e impone una linearità dove ogni passo indietro è vissuto come una prova che la battaglia è stata condotta male (cosa che è certamente possibile) invece di portare alla luce la determinazione delle forze reazionarie e imperialiste a schiacciare ogni dissidenza. È ciò che raccontano i canti di lotta, gli spiritual neri, i canti rivoluzionari, i gospel, i canti delle/gli schiave/i, delle/i colonizzate/i: la lunga strada per la libertà, una lotta senza tregua, la rivoluzione come lavoro quotidiano. È in questa temporalità che situo il femminismo di politica decoloniale.

Il termine «femminista» non è sempre facile da portare. I tradimenti del femminismo occidentale costituiscono un repellente allo stesso titolo che il suo aspro desiderio di integrare il mondo capitalista, di trovare il proprio posto nel mondo degli uomini predatori, la sua ossessione per la sessualità degli uomini razzializzati e la vittimizzazione delle donne razzializzate. Perché definirsi femminista? Perché difendere il femminismo quando questi termini sono così abusati che persino l’estrema destra può riappropriarli? Cosa fare quando i termini «femminista» e «femminismo» – che fino a dieci anni fa avevano ancora un potenziale radicale ed erano usati come insulti – fanno ormai parte dell’arsenale della destra neoliberale modernizzatrice? Quando, in Francia, una ministra può organizzare una «Università del femminismo» dove il pubblico a maggioranza femminile e sedicente femminista fischia una giovane donna velata ma lascia che un uomo gli faccia la lezione per 25 minuti (delle proteste sono apparse, giustamente, su twitter)? Di quale femminismo parliamo quando quest’ultimo diventa un’impresa di pacificazione? Se il femminismo e le femministe sono al servizio del capitale, dello Stato e dell’Impero, è ancora possibile rendergli il respiro di un movimento che sostiene gli obbiettivi della giustizia sociale, della dignità, del rispetto, delle politiche della vita contro le politiche della morte? Ma non bisogna anche difendere il femminismo dagli assalti delle forze fascistizzanti? Quando lo stupro e l’omicidio sono diventati le armi principali per disciplinare le donne? Quando persino essere una donna bionda, madre di famiglia, sposata con un uomo, professoressa all’università, conforme a tutte le norme di rispettabilità della classe media bianca negli Stati Uniti non protegge contro lo scatenarsi dell’odio, come abbiamo potuto vedere durante l’audizione di Christine Blasey Ford in occasione dei dibattiti sulla nomina di Brett Kavanaugh alla Corte suprema? O quando i governi nel mondo fanno del femminismo un’ideologia antinazionale, estranea alla «cultura della nazione», per reprimere le donne? Per lungo tempo non mi sono definita femminista; mi definivo militante anticoloniale e antirazzista nei movimenti di liberazione delle donne. Sono stata portata a definirmi femminista, da una parte, a causa dell’emergenza di un femminismo di politica decoloniale largo, transnazionale, plurale; dall’altra parte, a causa dell’assorbimento delle lotte delle donne da parte del femminismo civilizzazionale.  

La biografia non spiega tutto e spesso piuttosto poco ma è mio dovere, in un libro sul femminismo, dire qualcosa sulla mia traiettoria, non perché essa sia esemplare ma perché le lotte delle donne vi hanno giocato un ruolo importante. Per molti anni sono stata militante nei gruppi del MLF – Mouvement de libération des femmes; queste lotte sono sempre state legate a dei progetti di liberazione più ampi; nel mio caso la liberazione dal colonialismo francese post-1962. La base su cui si sono costruiti il mio interesse, la mia curiosità e il mio impegno per le lotte di emancipazione è l’educazione politica e culturale di cui ho beneficiato all’isola della Riunione. Per la ragazzina che ero, allevata in un contesto in cui la scuola, i media e le attività culturali erano tutte sottomesse all’ordine coloniale francese post-1962, questa esperienza fu eccezionalmente transnazionale. Per lungo tempo non mi sono definita militante femminista ma «militante per la liberazione delle donne». Ho avuto il privilegio di crescere in una famiglia di comuniste femministe e anticolonialiste, di essere circondata di militanti di ogni origine, genere e classe sociale che mi hanno rivelato cosa sono le lotte e la solidarietà, la gioia e l’allegria associate alle lotte collettive. Da adolescente nutrivo una forma di idealismo che non sopporta la sconfitta ma la risposta dei miei genitori mi riportava a terra: «Sono dei bruti, dei fascisti, dei vermi, non bisogna aspettarsi nulla da loro. Non rispettano alcun diritto, in primo luogo il diritto alla nostra esistenza».

Non c’era nulla di disfattista in queste considerazioni, ma piuttosto una lezione su un’altra temporalità delle lotte: le immagini della presa del Palazzo d’Inverno, dell’entrata delle truppe di Castro a La Havana, delle truppe dell’ALN a Algeri erano formidabili e in grado di mobilizzare l’immaginazione, ma fermandosi a questo si correva il rischio di vivere degli indomani di disillusione. Domani la lotta continuerà. Ho anche imparato molto presto che, se lo Stato vuole schiacciare un movimento, farà ricorso a ogni mezzo, a tutte le risorse che sono a sua disposizione, da una parte per reprimere e dall’altra per dividere le/gli oppresse/i. Con una mano colpisce e con l’altra cerca di assimilare. La paura è una delle sue armi preferite per produrre conformismo e consenso. Ho compreso rapidamente il prezzo da pagare per permettersi di sfuggire all’ingiunzione: «Non ti far notare, non protestare troppo e non avrai problemi.» L’ordinanza Debré nel 1960 lo ha dimostrato: colpendo con l’esilio tredici militanti anticolonialisti, fra cui dei dirigenti sindacali, ha chiarito il messaggio; ogni voce dissidente sarà punita (il 15 ottobre 1960, un’ordinanza che aveva lo scopo di reprimere ogni forma di contestazione in Algeria (che all’epoca era divisa in «dipartimenti francesi») e di allontanare attraverso l’esilio i funzionari che avrebbero potuto «turbare l’ordine pubblico» fu applicata nei dipartimenti d’oltremare, Guadalupe, Martinica, Guyana e Riunione). Lo storico Prosper Ève ha parlato di L’isola ha paura per analizzare come lo schiavismo, il postschiavismo e poi il postcolonialismo abbiano diffuso la paura come tecnica della disciplina fino agli anni Sessanta. La paura non è certo un’esclusiva del dispositivo coloniale, ma ricordiamoci che lo schiavismo era fondato sulla minaccia costante della tortura e della morte di un essere umano legalmente trasformato in oggetto e sullo spettacolo pubblico della sua uccisione. Ho anche appreso che bisogna usare le leggi dello Stato contro di lui ma senza illusioni né idealismi, come l’avevano capito le donne schiave che si battevano per far riconoscere dalla legge lo statuto di libero che trasmettevano ai loro figli (durante la schiavitù lo statuto di un/a bambina/o era trasmesso dalla madre: se la madre era schiava, la/il bambina/o era schiava/o, se era libera, la/il bambina/o era libera/o. Questa regola era ben lungi dall’essere rispettata dalla maggioranza dei proprietari di schiavi, che la contestavano con ogni mezzo, mentendo, falsificando documenti, non riconoscendo le emancipazioni. Non sono rari i casi di donne schiave che andarono in tribunale o si batterono contro l’arbitrato); o ancora le colonizzate/i che rigiravano contro lo Stato coloniale le sue leggi (libertà di stampa, libertà di associazione, diritto di voto…).

Questa strategia non era mai la sola, era sempre accompagnata da una critica dello Stato e delle sue istituzioni. Le lotte si giocano su dei terreni multipli e per degli obbiettivi che hanno diverse temporalità. L’esistenza di un mondo ampio dove la resistenza e il rifiuto della sottomissione si oppongono a un ordine mondiale ingiusto ha fatto parte della comprensione del mondo che mi è stata trasmessa. Non ho quindi scoperto che capitalismo, razzismo, sessismo e imperialismo sono dei compagni di strada al mio arrivo in Francia o andando all’università e non ho incontrato un femminismo anticoloniale e antirazzista leggendo Simone de Beavoir; quest’ultimo ha fatto parte del mio ambiente sin dalla prima infanzia. 

Seguendo Frantz Fanon, che scriveva «l’Europa è letteralmente la creazione del terzo mondo» perché si è costruita sul saccheggio delle ricchezze del mondo e che da allora «la ricchezza dei paesi imperialisti è anche la nostra ricchezza», posso dire che la Francia è letteralmente una creazione del suo impero coloniale e che il Nord è una creazione del Sud. Rimango dunque stupita dall’ostinazione a dimenticare lo schiavismo, il colonialismo e gli «oltremare» dalle analisi della Francia attuale e della politica dei governi che si sono succeduti dagli anni Cinquanta. Gli «oltremare» fanno parte della storia contemporanea ancor meno dell’impero coloniale: nessun testo sulle questioni politiche – siano esse trattate in modo filosofico, economico o sociologico – si interessa a queste sopravvivenze dell’impero coloniale francese. C’è qualcosa che rileva una volontà di cancellare questi popoli e i loro paesi dall’analisi dei conflitti, delle contraddizioni e delle resistenze.

Qual è lo scopo di un’esclusione di questo tipo se non quello di mantenere l’idea che tutto questo – schiavismo, colonialismo, imperialismo – è certo accaduto ma all’esterno di ciò che costituisce la Francia? Così, si minimizzano i legami fra capitalismo e razzismo, fra sessismo e razzismo, e si preserva un’innocenza francese. Così il femminismo francese si veste di ritegno nei confronti dell’eredità coloniale e schiavista. Sembra quasi che, fino a quando le donne saranno vittime della dominazione maschile, non avranno alcuna responsabilità sulle politiche portate avanti dallo Stato francese. 

Dirsi femminista decoloniale, difendere i femminismi di politica decoloniale oggi, non significa solo strappare la parola «femminismo» dalle mani avide della reazione, a secco di idee, ma significa anche affermare la nostra fedeltà alle lotte delle donne del Sud globale che ci hanno preceduto. Significa riconoscere i loro sacrifici, onorare le loro vite in tutta la loro complessità, i rischi che hanno corso, le esitazioni e gli scoraggiamenti che hanno incontrato; significa ricevere la loro eredità.  Dall’altra parte, significa riconoscere che l’offensiva contro le donne ormai giustificata e rivendicata pubblicamente da dei dirigenti di Stato, non è solo espressione di una dominazione maschile disinibita, ma una manifestazione della violenza distruttrice generata dal capitalismo. Il femminismo decoloniale significa depatriarcalizzare le lotte rivoluzionarie. In altri termini, i femminismi di politica decoloniale contribuiscono alla lotta iniziata da secoli da una parte dell’umanità per affermare il suo diritto all’esistenza

[Nota: Uso sia l’espressione «un movimento» sia «i movimenti» per non dire «il movimento» e segnalare una pluralità di femminismi, la possibilità di forme alternative di queste alternative femministe che sono comunque tutte – almeno quelle che mi interessano – risolutamente antirazziste, anticapitaliste e anti-imperialiste.]

Uno degli eventi marcanti di questo inizio del XXI secolo, e che si afferma da diversi anni, è il movimento dei femminismi di politica decoloniale nel mondo. Questa corrente ha sviluppato una moltitudine di pratiche, di esperienze e di teorie; le più incoraggianti e originali sono dei movimenti sul campo che affrontano le questioni in modo trasversale e intersezionale. Senza sorpresa, questo movimento provoca la reazione violenta degli eteropatriarchi, delle femministe del Nord e dei governi. È nel sud globale che questo movimento si è sviluppato riattivando la memoria delle lotte femministe precedenti, mai perdute perché mai abbandonate nonostante i terribili assalti nei loro confronti. I movimenti che lo compongono dichiarano guerra al razzismo e al sessismo, al capitalismo e all’imperialismo con immense manifestazioni in Argentina, in India, in Messico, in Palestina, raggiunti da delle femministe in Spagna, in Francia e negli Stati Uniti. Le sue militanti denunciano lo stupro e il femminicidio e legano questa battaglia alle lotte contro le politiche di espropriazione, contro la colonizzazione, l’estrattivismo e la distruzione sistematica del vivente. Non si tratta né di una «nuova ondata» né di una «nuova generazione» – come suggeriscono le formule preferite che mascherano le multiple vite dei movimenti delle donne – ma di una nuova tappa nel processo di decolonizzazione che, come sappiamo, è un lungo processo storico. Queste due formule – ondata e generazione – contribuiscono a cancellare il lungo lavoro sotterraneo che permette a delle tradizioni dimenticate di rinascere e occultano il fatto stesso che queste correnti sono state sepolte; queste metafore, inoltre, affidano una responsabilità storica a un fenomeno meccanico («ondata») o demografico («generazione»). I femminismi di politica decoloniale rifiutano queste formule settarie perché si fondano sulla lunga storia delle lotte delle loro sorelle maggiori: donne autoctone durante la colonizzazione, donne ridotte alla schiavitù, donne nere, donne nelle lotte di liberazione nazionale e nell’internazionalismo subalterno negli anni Sessanta e Settanta e donne razzializzate che lottano quotidianamente ancora oggi.  

I movimenti femministi di politica decoloniale affrontano – insieme agli altri movimenti decoloniali e a tutti i movimenti di emancipazione – un periodo di accelerazione del capitalismo che, ormai, regola il funzionamento delle democrazie. Devono trovare delle alternative all’assolutismo economico, alla produzione infinita della merce. Le nostre lotte costituiscono una minaccia per i regimi autoritari che accompagnano l’assolutismo economico del capitalismo. Minacciano anche la dominazione maschile, terrorizzata dall’idea di rinunciare al suo potere e che, dappertutto, mostra la sua prossimità alle forze fascistizzanti. Minano anche il femminismo civilizzazionale che, avendo fatto dei diritti delle donne un’ideologia dell’assimilazione e dell’integrazione all’ordine neoliberale, riduce le aspirazioni rivoluzionarie delle donne alla domanda di condivisione dei privilegi accordati agli uomini bianchi dalla supremazia bianca. Complici attive dell’ordine capitalista razziale, le femministe civilizzazionali non esitano a sostenere delle politiche d’intervento imperialiste, islamofobe o negrofobe. 

La posta in gioco è enorme, il pericolo è terribile. Si tratta di opporsi al nazionalismo autoritario e al neofascismo per cui le femministe razzializzate sono dei nemici da abbattere. La democrazia occidentale non fingerà più di difenderci quando gli interessi del capitalismo saranno realmente minacciati. L’assolutismo capitalista vede di buon occhio tutti i regimi che gli permettono di imporre le sue regole e i suoi metodi, che gli aprono spazi non ancora colonizzati, che gli concedono l’accesso alla proprietà dell’acqua, dell’aria e della terra. 

La crescita dei reazionari di ogni sorta mostra bene una cosa: un femminismo che si batte solo per l’uguaglianza di genere, che si rifiuta di vedere a che punto l’integrazione lascia le donne razzializzate alla mercé della brutalità, della violenza, dello stupro e dell’omicidio, in definitiva ne diventa complice. È questa la lezione da trarre dall’elezione alla presidenza del Brasile, nel 2018, di un uomo bianco sostenuto dai grandi proprietari terrieri, dal mondo degli affari e dalle Chiese evangeliche; un uomo che ha dichiarato apertamente la sua misoginia, la sua omofobia, la sua negrofobia, il suo disprezzo dei popoli autoctoni, la sua volontà di vendere il Brasile a chi offrirà di più, di calpestare le leggi sociali per le classi più povere e per la protezione della natura, di rivedere gli accordi firmati con i popoli amerindiani; e tutto questo a distanza di pochi mesi dall’assassinio della consigliera comunale queer e nera Marielle Franco. Un approccio legato solo all’uguaglianza di genere mostra tutti i suoi limiti nel momento in cui i partiti della destra autoritaria o di estrema destra eleggono delle donne alla loro testa o le scelgono come testimonial – Sarah Palin, Marine Le Pen, Giorgia Meloni… 

Nel magnifico film L’ora dei forni (1968) di Fernando Solanas appare questa frase: «il prezzo che paghiamo per essere umanizzate/i» (The price we pay to be humanized). In effetti, il prezzo da pagare è stato pesante e continua ad essere pesante. Il sistema contro cui lottiamo ha condannato all’inesistenza dei saperi scientifici, delle estetiche e delle categorie intere di esseri umani. Questo mondo europeo non è mai riuscito a essere egemone ma si è appropriato senza esitazione e senza vergogna dei saperi, delle estetiche, delle tecniche e delle filosofie dei popoli che asserviva e di cui negava la civilizzazione. La nostra battaglia si pone fermamente contro la politica dello stupro giustificato, legittimata e praticata sotto gli auspici ancora vivaci di una missione civilizzatrice. Senza negare le complessità e le contraddizioni dei secoli di colonialismo europeo, o ciò che è sfuggito alle sue tecniche di sorveglianza; senza nemmeno nascondere le tecniche di prestito o di détournement utilizzate dalle/i colonizzate/i; una conoscenza approfondita degli scambi (culturali, tecnici e scientifici) Sud-Sud è ancora mancante, in larga parte a causa delle politiche di finanziamento della ricerca. È una lotta per la giustizia epistemologica; in altri termini, una lotta che reclama l’uguaglianza tra i saperi e contesta l’ordine del sapere imposto dall’Occidente.

I femminismi di politica decoloniale si inscrivono nel lungo movimento di riappropriazione scientifica e filosofica che rivede la narrazione europea del mondo. Contestano l’economia-ideologia della mancanza, questa ideologia occidentale-patriarcale che ha fatto delle donne, delle/i Nere/i, dei popoli autoctoni, dei popoli d’Asia e d’Africa, degli esseri inferiori caratterizzati dall’assenza di ragione, di bellezza o di uno spirito naturalmente atto alla scoperta scientifica e tecnica.  Questa ideologia ha fornito un fondamento alle politiche di sviluppo che dicono, in sostanza: «Voi siete sottosviluppati ma potete svilupparvi se adottate le nostre tecnologie, i nostri modi di risolvere i problemi sociali ed economici. Dovete imitare le nostre democrazie, il migliore dei sistemi, perché non sapete cosa sono la libertà, il rispetto delle leggi, la separazione dei poteri.» Questa ideologia nutre il femminismo civilizzazionale che, a sua volta, dice, in sostanza: «Voi non avete la libertà, non conoscete i vostri diritti. Vi aiuteremo a raggiungere il livello di sviluppo adeguato». Il lavoro di riscoperta e valorizzazione dei saperi, delle filosofie, delle letterature, degli immaginari non inizia con noi ma una delle nostre missioni è di fare lo sforzo di conoscerli e diffonderli. Le militanti femministe sanno quanto la trasmissione delle lotte è suscettibile di essere rotta; affrontano spesso l’ignoranza delle lotte e delle resistenze, sentono spesso «i nostri genitori hanno abbassato la testa, hanno ceduto».

La storia delle lotte femministe è piena di buchi, di approssimazioni, di generalismi. I femminismi di politica decoloniale e delle universitarie femministe razzializzate hanno compreso la necessità di sviluppare i propri strumenti di trasmissione e di conoscenza: attraverso dei blog, dei film, delle mostre, dei festival, degli incontri, delle pubblicazioni, degli spettacoli di teatro, della danza, dei canti, della musica, fanno circolare delle narrazioni, dei testi, traducono, pubblicano, filmano, fanno conoscere delle figure storiche, dei movimenti. È un movimento da rafforzare, soprattutto facendo lo sforzo di tradurre in più lingue dei testi femministi che vengono dal continente africano, dall’Europa, dai Caraibi, dall’America del Sud e dall’Asia. 

Fra gli assi di lotta di un femminismo decoloniale bisogna subito porre l’accento sulla battaglia contro la violenza della polizia e la militarizzazione accelerata della società sottesa a un’idea della protezione che si affida all’esercito, alla giustizia di classe/razziale e alla polizia. Questo implica il rigetto del femminismo carcerale e punitivo che si accontenta di un approccio giudiziario alle violenze, senza interrogare la morte delle donne e degli uomini razzializzate/i perché la considera come «naturale», come un fatto di cultura, un accidente, una triste occorrenza nelle nostre democrazie. Bisogna sforzarsi di denunciare la violenza sistemica contro le donne e le/i transgender, ma senza opporre le vittime le une alle altre; analizzare la produzione dei corpi razzializzati senza dimenticare la violenza contro le/i transgender e le/i lavoratrici/ori del sesso; denazionalizzare e decolonizzare la narrazione del femminismo bianco borghese senza nascondere le reti femministe antirazziste internazionali; fare attenzione alle politiche di appropriazione culturale e diffidare dell’attrazione per la «diversità» delle istituzioni del potere. Non dobbiamo sottostimare la rapidità con cui il capitale si mostra capace di assorbire delle nozioni per farne degli slogan svuotati del loro contenuto: perché il capitale non dovrebbe essere in grado di incorporare l’idea di decolonizzazione, di decolonialità? Il capitale è colonizzatore, la colonia gli è consustanziale; per comprendere come essa perduri bisogna liberarsi da un approccio che interpreta la colonia solo attraverso la forma che l’Europa le ha dato nel XIX secolo e non bisogna confondere colonizzazione e colonialismo.

Rispetto a questo, la distinzione di Peter Ekeh è molto utile: la colonizzazione è un evento/periodo, il colonialismo è un processo/movimento, un movimento sociale totale la cui perpetuazione si spiega attraverso la persistenza delle formazioni sociali che derivano dalle sue sequenze. Le femministe decoloniali studiano il modo in cui il complesso razzismo/sessismo/etnicismo impregna tutte le relazioni di dominazione nonostante i regimi associati a questi fenomeni siano spariti. La nozione di colonialità è estremamente importante per analizzare la Francia contemporanea in un momento in cui tanti, anche a sinistra, continuano a credere che il colonialismo sia finito. Secondo questa narrazione, la decolonizzazione avrebbe semplicemente messo un punto finale al colonialismo. Invece – a parte il fatto che la repubblica continua ad avere il dominio su dei territori che sono sotto la sua dipendenza – le istituzioni del potere continuano a essere strutturate dal razzismo. Per i femminismi di politica decoloniale in Francia l’analisi della colonialità repubblicana francese resta centrale. È una colonialità che ha ereditato la divisione del mondo che l’Europa ha tracciato nel XVI secolo e che non ha mai smesso di riaffermare utilizzando la spada, la piuma, la fede, la frusta, la tortura, la minaccia, la legge, il testo, la pittura e poi la fotografia e il cinema. È una colonialità che istituisce una politica di vite usa e getta, humans as waste. Tuttavia, non possiamo limitare i nostri propositi allo spazio-tempo della narrazione europea. La storia delle decolonizzazioni è anche quella della lunga durata delle lotte che hanno travolto l’ordine del mondo. Dal XVI secolo, i popoli hanno combattuto la colonizzazione occidentale (le lotte dei popoli autoctoni e delle/i Africane/i ridotte/i alla schiavitù, la Rivoluzione haitiana). D’altra parte, cancellare i trasferimenti e gli itinerari Sud-Sud delle liberazioni e occultare le esperienze internazionaliste delle forze anticoloniali fa pensare che la decolonizzazione non sia stata che un’indipendenza nella legge e persino un’illusione. L’ignoranza della circolazione Sud-Sud delle persone, delle idee e delle pratiche emancipatrici preserva l’egemonia dell’asse Nord-Sud; eppure gli scambi Sud-Sud sono stati cruciali per la diffusione dei sogni di liberazione. Queste riletture in termini di spazio-tempo sono essenziali per stimolare l’immaginazione dei femminismi di politica decoloniale. 

Per dare tutta l’ampiezza necessaria alla nostra critica bisogna spingersi a dire che il femminismo civilizzazionale nasce con la colonia, nella misura in cui le femministe europee elaborano un discorso sulla loro oppressione comparandosi alle schiave. La metafora della schiavitù è potente. Le donne non sono la proprietà del loro padre e del loro marito? Non sono sottomesse alle leggi sessiste della Chiesa e dello Stato? Il femminismo dell’Europa dei lumi non riconosce le donne che partecipano alla rivoluzione haitiana (che sarà celebrata dai poeti romantici) né le donne schiave che si rivoltano, scappano, resistono. Il punto non è emettere un giudizio retrospettivo ma domandarsi perché, rispetto a questa cecità, a questa indifferenza, non c’è ancora stato un ritorno critico sulla genealogia del femminismo europeo. Riscrivere la storia del femminismo partendo dalla colonia rappresenta una questione centrale per il femminismo decoloniale. Non possiamo accontentarci di interpretare la colonia come una questione annessa della storia. Si tratta di prendere in considerazione il fatto che, senza la colonia, non avremmo una Francia dalle istituzioni strutturalmente razziste. Per le donne razzializzate a Nord e nel Sud globale, tutte le sfaccettature delle loro vite, i rischi a cui si espongono, il prezzo che pagano per la misoginia, il sessismo e il patriarcato sono ancora tutti da studiare e rendere visibili.

Lottare contro il femo-imperialismo significa far risorgere dal silenzio le vite delle donne «anonime», rifiutare il processo di pacificazione e analizzare come e perché i diritti delle donne sono diventati un’arma ideologica al servizio del neoliberalismo (che altrove può sostenere un regime misogino, omofobo e razzista). Quando i diritti delle donne si riassumono alla difesa della libertà – «essere libera di, avere il diritto di…»– senza mettere in questione il contenuto di questa libertà, senza interrogarsi sulla genealogia di questa nozione nella modernità europea, abbiamo il diritto di domandarci se tutti questi diritti sono concessi perché altre donne non sono libere. La narrazione del femminismo civilizzazionale resta contenuto nello spazio della modernità europea e non prende mai in considerazione il fatto che si fonda sulla negazione del ruolo dello schiavismo e del colonialismo nella propria formazione. La soluzione non è dare uno spazio, per forza marginale, alle donne schiave, colonizzate o alle donne razzializzate e dell’oltremare. Ciò che è all’ordine del giorno è il modo in cui la divisione del mondo operata dallo schiavismo e dal colonialismo dal XVI secolo (fra un’umanità che ha il diritto di vivere e una che può morire) attraversa i femminismi occidentali. Se il femminismo resta fondato sulla divisione fra donne e uomini (una divisione che precede la schiavitù), ma non analizza come schiavitù, colonialismo e imperialismo agiscono su questa divisione, né come l’Europa impone la sua concezione della divisione donne/uomini ai popoli che colonizza o come questi ultimi creino altre divisioni, allora questo femminismo è razzista.

L’Europa continua a essere il suo centro, tutte le sue analisi partono da questa parte del mondo: le radici coloniali del fascismo sono dimenticate; il capitalismo razziale non è una categoria d’analisi; le donne schiave e colonizzate non sono percepite come uno specchio negativo delle donne europee. Rare sono le femministe europee che sono state risolutamente antirazziste e anticoloniali. Ci sono state, evidentemente, delle eccezioni – delle giornaliste, delle avvocate, delle militanti che hanno proclamato la loro solidarietà con le/i colonizzate/i – ma questo non ha costituito il fondamento del femminismo francese, sebbene esso fosse in debito con le lotte antirazziste. Nemmeno il sostegno alle/gli nazionaliste/i algerine/i, che è stato così importante per delle femministe francesi, ha trascinato un’analisi del «contraccolpo» di cui parla in modo ammirabile Aimé Césaire nel suo libro Discorso sul colonialismo : la colonizzazione lavora a decivilizzare il colonizzatore. Parlare di femminismo civilizzazionale o bianco borghese ha, in questa prospettiva, un senso ben preciso. Non è bianco semplicemente perché è adottato da delle donne bianche, ma perché si reclama di una parte del mondo, l’Europa, che si è costruita su una divisione razzializzata del mondo. È borghese perché non attacca il capitalismo razziale.

Abbiamo il diritto di porre questa domanda: come e perché il femminismo sarebbe sfuggito a ciò che è stato diffuso da secoli di dominazione e di supremazia bianche? Allo stesso modo in cui troppo spesso si confondono razzismo e estrema destra, pogrom e ghetti in Europa, non si valuta a che punto il razzismo si è espanso e propagato anche senza rumore e senza furore attraverso la naturalizzazione dello stato di servitù razzializzata e l’idea che alcune civilizzazioni sarebbero state incompatibili con il progresso e i diritti delle donne. Salvare le donne razzializzate dall’«oscurantismo» resta uno dei grandi principi delle femministe civilizzazionali che hanno proposto delle politiche pensate per le donne delle colonie e, nei loro paesi, per le donne razzializzate e le donne delle classi popolari. Non possiamo negare che, per alcune, queste azioni trovano un fondamento nella volontà di fare il bene, che siano animate da buoni sentimenti e dal desiderio di migliorare la situazione delle donne, né che delle/i colonizzate/i abbiano saputo trarre vantaggio da queste azioni; ma c’è una differenza fra aiuto e critica radicale del colonialismo e del capitalismo, fra aiuto e lotta contro lo sfruttamento e l’ingiustizia. O, per citare la militante autoctona australiana Lilla Watson: «se siete venuti per aiutarmi, perdete il vostro tempo. Ma se siete venuti perché la vostra liberazione è legata alla mia, allora lavoriamo assieme.»

Le teorie e le pratiche forgiate in seno alle lotte antirazziste, anticapitaliste e anticoloniali costituiscono delle risorse inestimabili. I femminismi di politica decoloniale apportano alle lotte che condividono l’obbiettivo di riumanizzare il mondo la loro biblioteca di saperi, la loro esperienza di pratiche, le loro teorie antirazziste e antisessiste sempre associate alle lotte anticapitaliste e anti-imperialiste. Una femminista non può pretendere di possedere «la» teoria e «il» metodo ma deve cercare di essere trasversale. Si pone la questione di ciò che non vede, cerca di decostruire la morsa dell’educazione scolastica che le ha insegnato a non vedere più, a non sentire, a soffocare i sensi, a non saper più leggere, a essere divisa da se stessa dall’interno e separata dal mondo. Deve reimparare ad ascoltare, vedere, sentire di poter pensare. Sa che la lotta è collettiva, che la determinazione delle/i nemiche/i ad abbattere le lotte di liberazione non deve essere sottostimata, che utilizzeranno tutte le armi a loro disposizione: la censura, la diffamazione, la minaccia, l’imprigionamento, la tortura, l’omicidio. Sa anche che la lotta è portatrice di difficoltà, di tensioni, di frustrazioni ma anche di gioia e allegria, di scoperte e di allargamento del mondo. 

È un femminismo che fa un’analisi multidimensionale dell’oppressione e rifiuta di dividere razza, sessualità e classe in categorie che si escludono mutualmente. La multidimensionalità, nozione proposta da Darren Leonard Hutchinson, risponde ai limiti della nozione di intersezionalità per poter meglio comprendere come il «potere razzista e eteronormativo crea non solo delle esclusioni precise all’intersezione delle dominazioni, ma modella tutte le proposte sociali e le soggettività, incluse quelle di coloro che sono privilegiati». Questa nozione fa eco al «femminismo della totalità»: un’analisi che intende prendere in considerazione la totalità dei rapporti sociali. 

Condivido l’importanza conferita allo Stato e aderisco a un femminismo che pensa insieme patriarcato, Stato e capitale, giustizia riproduttiva, giustizia ambientale e critica dell’industria farmaceutica, diritti delle/i migranti, delle/i rifugiate/i e fine del femminicidio, lotta contro l’Antropocene-Capitalocene razziale e criminalizzazione della solidarietà. Non si tratta di legare degli elementi in modo sistematico e, alla fine, astratto, ma di fare lo sforzo di vedere se esistono dei legami e quali sono. Un approccio multidimensionale permette di evitare una gerarchizzazione delle lotte fondata su una scala di urgenza la cui cornice resta spesso dettata da pregiudizi. Tenere più fili alla volta per superare la segmentazione indotta dall’ideologia e «cogliere come produzione e riproduzione sociale si articolano storicamente», ecco la posta in gioco. È questo approccio che mi ha guidato nella mia analisi delle migliaia di aborti e sterilizzazioni senza consenso perpetrati annualmente all’isola della Riunione negli anni Settanta: se mi fossi fermata alla spiegazione che vedeva nei medici bianchi e francesi che operavano i soli responsabili di questo crimine, lo avrei ridotto a una storia di cupidigia di qualche uomo bianco, mentre uno studio della totalità degli elementi ha messo in luce una politica di stato francese natalista in Francia e antinatalista per le donne razzializzate e povere nei suoi dipartimenti di «oltremare»; una politica che si inscriveva in una riconfigurazione globale delle politiche occidentali di controllo delle nascite nel contesto delle lotte di liberazione nazionale e della Guerra Fredda.

In modo analogo, in una presentazione di pedagogia decoloniale critica, uso un frutto familiare, la banana, per chiarire un certo numero di analogie e affinità elettive: la sua dispersione dalla Nuova Guinea al resto del mondo, banana e schiavismo, banana e imperialismo USA (banana republics), banana e agrobusiness (pesticidi, insetticidi – lo scandalo del Clordecone alle Antille), banana e condizioni di lavoro (regime delle piantagioni, violenza sessuale, repressione), banana e ambiente (monocultura, acque inquinate, terre inquinate), banana e sessualità, banana e musica, banana e spettacolo (Josephine Baker), banana e branding (Banana Republic), banana e razzismo (a partire da quale momento banana e negrofobia sono associate?), banana e scienza (ricerca della banana «perfetta»), banana e consumi (far entrare la banana nelle case, suggerire delle ricette), banana e rituali per gli antenati, banana e arte contemporanea. Il metodo è semplice: partire da un elemento per portare alla luce un ecosistema politico, economico, culturale e sociale al fine di evitare la segmentazione imposta dal metodo occidentale delle scienze sociali. Le analisi più illuminanti e produttive negli ultimi decenni sono state quelle che hanno saputo tirare il più grande numero di fili per mettere in luce le reti di oppressione concrete e soggettive che tessono la tela dello sfruttamento e delle discriminazioni.

Nel contesto di un capitalismo dalla potenza distruttrice raddoppiata, di un razzismo e di un sessismo assassini, questo testo afferma che sì, il femminismo che chiamo femminismo di politica decoloniale è da difendere, sviluppare, affermare e mettere in pratica. Il femminismo di marronage offre al femminismo decoloniale un ancoraggio storico nelle lotte di resistenza alla tratta e allo schiavismo. Chiamo qui marronage e cimarrone/i tutte le iniziative, tutte le azioni, tutti i gesti, i canti, i rituali che, di notte o di giorno, nascosti o visibili, rappresentano una promessa radicale. Il marronage affermava la possibilità di un futuro quando quest’ultimo era precluso dalla legge, dalla Chiesa, dallo Stato, dalla cultura che proclamavano che non c’era alternativa allo schiavismo, che era naturale come il giorno e la notte, che l’esclusione delle/i nere/i dall’umanità era una cosa naturale. Le/i cimarrone/i hanno reso evidente l’aspetto fittizio di questa naturalizzazione e, rompendo i codici, hanno operato una rottura radicale che ha strappato il velo della menzogna. Hanno disegnato dei territori sovrani nel cuore stesso del sistema schiavista e proclamato la loro libertà. I loro sogni, le loro speranze, le loro utopie, come le ragioni della loro sconfitta, restano spazi in cui attingere un pensiero dell’azione. Da allora, è un’utopia, nel senso di promessa radicale, un terreno contro il capitalismo che proclama che non ci sono alternative alla sua economia e alla sua ideologia, che è naturale quanto il giorno e la notte, e promette persino delle innovazioni tecnologiche e scientifiche che trasformeranno le sue rovine in spazi di gioia. Contro queste ideologie, il marronage come politica della disobbedienza afferma che esiste la possibilità di una futurità (futurity), per prendere in prestito questa nozione alle femministe nere americane. Affermandosi cimarrone, il femminismo si ancora a questa messa in discussione della naturalizzazione dell’oppressione; dicendosi decoloniale, combatte la colonialità del potere. Ma inscriversi nel campo del femminismo è la risposta adatta alla crescita di una fascizzazione politica, alla predazione capitalista e alla distruzione delle condizioni ecologiche necessarie agli esseri viventi, alle politiche di espropriazione, di colonizzazione, di cancellazione e di mercificazione, alla criminalizzazione e alla prigione come risposta all’aumento della povertà? Ha senso disputare il campo del femminismo civilizzazionale, chiamato anche mainstream o bianco borghese, che pensa di correggere le ingiustizie condividendo i posti fra donne e uomini sulla base di un 50/50 senza mettere in discussione l’organizzazione sociale, economica e culturale e che intende fare del genere, della sessualità, della classe, delle origini, della religione, un affare completamente privato o una merce? Combattere il femonazionalismo e il femo-imperialismo (ne svilupperò i contenuti più avanti) sono degli ulteriori argomenti per difendere il femminismo decoloniale. Ma questo non basta. L’argomento essenzialista di una natura femminile che sarebbe più in grado di rispettare la vita e di desiderare una società giusta ed egualitaria non tiene; le donne non costituiscono né spontaneamente né in loro stesse una categoria politica. Ciò che giustifica una riappropriazione del termine «femminismo», delle sue teorie e pratiche, si radica nella coscienza di un’esperienza profonda, concreta, quotidiana, di un’oppressione prodotta dalla matrice Stato, patriarcato e capitale, che fabbrica la categoria «donne» per legittimare delle politiche di riproduzione e d’assegnazione entrambe razzializzate. 

I femminismi di politica decoloniale non hanno lo scopo di migliorare il sistema esistente ma di combattere tutte le forme di oppressione: la giustizia per le donne significa la giustizia per tutti. Non intrattiene delle speranze ingenue, non si nutre del risentimento né dell’amarezza: sappiamo che il cammino è lungo e disseminato di insidie ma teniamo alla mente il coraggio e la resilienza delle donne razzializzate attraverso la storia. Non si tratta, quindi, di una nuova ondata del femminismo, ma della continuazione delle lotte d’emancipazione delle donne del Sud globale.

Le femministe di politica decoloniale attingono alle teorie e alle pratiche che le donne hanno forgiato su un lungo periodo in seno alle lotte antirazziste, anticapitaliste e anticoloniali partecipando a espandere le teorie della liberazione e dell’emancipazione attraverso il mondo. Si tratta di combattere fermamente la violenza della polizia e la militarizzazione accelerata della società così come la concezione della sicurezza che affida all’esercito, alla giustizia di classe/razziale e alla polizia il compito di assicurarla. Questo consiste in un rigetto del femminismo carcerale e punitivo. 

In questa cartografia delle lotte delle donne del Sud, lo schiavismo coloniale mantiene, dal mio punto di vista, un ruolo fondatore. Esso costituisce la «matrice della razza», per riprendere l’espressione così giusta della filosofa Elsa Dorlin, e lega la storia dell’accumulazione delle ricchezze, dell’economia delle piantagioni e dello stupro (fondamento di una politica della riproduzione nella colonia) alla storia della distruzione sistematica dei legami sociali e famigliari e al nodo razza/classe/genere/sessualità. La temporalità schiavismo/abolizione rinvia lo schiavismo coloniale a un passato storico e, da allora, ignora come le sue strategie di razzializzazione e di sessualizzazione continuino a gettare le loro ombre sul nostro tempo. L’immenso apporto dell’afro-femminismo (Brasile, Stati Uniti) sull’importanza dello schiavismo coloniale nella formazione del mondo moderno, l’invenzione del mondo bianco e del suo ruolo nell’interdizione dei legami familiari non ha tuttavia ancora influenzato le analisi del femminismo bianco borghese. Certo, delle femministe in occidente hanno analizzato come si costruisce la «buona maternità», la «buona madre» e il «buon padre» della famiglia eteronormativa, ma senza mai prendere in conto il «contraccolpo» dello schiavismo e del colonialismo. Si sa che, sotto lo schiavismo, si poteva in ogni momento strappare i/le figli/e alla loro madre, che esse non erano autorizzate a difenderli/e, che le donne nere erano a disposizione dei bambini dei loro proprietari come nutrici, che i loro bambini erano a disposizione dei bambini del padrone come compagne o compagni di gioco, che le ragazzine e le donne nere erano sfruttate sessualmente e che tutti questi ruoli erano sottomessi ai capricci del padrone, di sua moglie e dei suoi bambini. Gli uomini erano privati del ruolo sociale di padre e di compagno. Questa distruzione dei legami familiari stabilita per legge continua a proiettare la sua ombra sulle politiche famigliari destinate alle minoranze razzializzate e ai popoli autoctoni. 

Si sa, le donne bianche non amano che si dica loro che sono bianche. Essere bianco è stato costruito come categoria così ordinaria, così priva di caratteristiche, così normale, così priva di senso che, come segnalato da Gloria Wekker in White Innocence. Paradoxes of Colonialism and Race, è praticamente impossibile far riconoscere a una Bianca che è bianca. Glielo dite e lei è sconvolta, aggressiva, inorridita, praticamente in lacrime. Trova la vostra osservazione «razzista». Per Fatima El Tayeb, dire che il pensiero europeo moderno ha generato la razza rappresenta una violazione insopportabile di ciò che è caro ai/lle Europei/e : l’idea di un continente «color-blind», privo della violenza devastatrice che ha esportato nel mondo intero. Il sentimento di innocenza è al cuore di questa incapacità a vedersi come bianca e quindi a proteggersi da tutte le responsabilità nell’ordine del mondo attuale. E quindi non potrà esserci un femminismo bianco (visto che non ci sono Bianche), ma solo un femminismo universale. L’ideologia dei diritti delle donne promossa dal femminismo civilizzazionale non può essere razzista perché emana da un continente esente da ogni razzismo. Prima di proseguire, conviene ripetere – visto che ogni riferimento all’esistenza della bianchezza provoca un’accusa di «razzismo all’inverso» – che non si tratta del colore della pelle, né di razzializzare tutto, ma di far ammettere che la lunga storia della razzializzazione in Europa (attraverso l’antisemitismo, l’invenzione della «razza nera», della «razza asiatica», o dell’»Oriente») non è stata priva di conseguenze sulla concezione dell’umano, della sessualità, dei diritti naturali, della bellezza e della bruttezza… Ammettere di essere bianca, e quindi ammettere che dei privilegi sono stati storicamente accordati a questo colore, – privilegi che possono essere così banali come poter entrare in un negozio senza essere automaticamente sospettate di voler rubare, di non dover sentirsi dire sistematicamente che l’appartamento che si vorrebbe è già stato affittato, di essere presa naturalmente per l’avvocato e non per la sua assistente, per l’attrice e non per la donna delle pulizie… – sarebbe già fare un gran passo. È riconosciuto che delle donne bianche hanno saputo essere realmente solidari alle lotte dell’antirazzismo politico. Ma le donne bianche devono anche comprendere la fatica che si prova quando bisogna continuare a educarle sulla loro storia. Eppure è disponibile un’ampia letteratura su questi temi. Che cosa le trattiene? Perché attendono di essere educate? Alcune dicono che dimentichiamo la classe, che il razzismo è stato inventato per dividere la classe operaia, che, paradossalmente, parlando di «razza» finiamo per favorire l’estrema destra. Sta sempre alle/i razzializzate/i spiegare, giustificare, accumulare fatti, quantificarli, anche se fatti e cifre, o il senso morale, non cambiano nulla nei rapporti di forza. Reni Edo Lodge esprime un sentimento familiare e legittimo quando spiega «perché non voglio più parlare di razza con i bianchi». Pretendere che il dibattito sul razzismo si possa svolgere come se le due parti fossero in rapporto di parità è illusorio, scrive, e non spetta a quelle e quelli che non sono mai state/i vittime del razzismo di imporre il quadro della discussione.

La donna bianca è stata letteralmente un prodotto della colonia. In La Matrice de la race (La matrice della razza), la filosofa Elsa Dorlin spiega come, nelle Americhe, i primi naturalisti abbiano preso a modello la differenza sessuale per elaborare il concetto di «razza»: gli Indiani ai Caraibi o gli schiavi deportati sarebbero stati delle popolazioni dal temperamento patogeno, effemminato e debole. Si passa, scrive Dorlin, dalla definizione di un «temperamento sessuale» a quella di un «temperamento razziale». Il modello femminile della «madre», bianca, sana e materna, opposto alle figure femminili «degenerate» – la strega, la schiava africana – dà corpo alla Nazione, conclude la filosofa. Le donne europee non sfuggono alla divisione epistemologica che si opera nel XVI secolo e che riduce alla «non-esistenza» una somma considerabile di conoscenze. Ai loro occhi, le donne del Sud sono prive di sapere, di una concezione reale della libertà, di ciò che fa famiglia o di ciò che costituisce l’essere «una donna» (che non sarebbe necessariamente legato al genere o al sesso definito alla nascita). Percependosi come vittime degli uomini (e di fatto minori, per la legge, durante dei secoli), esse non vedono che il loro desiderio di uguaglianza con questi uomini si basa sull’esclusione delle donne e degli uomini razzializzate/i e che la concezione europea del mondo, della modernità in cui si inscrivono, relega le donne e gli uomini che non appartengono né alla loro classe né alla loro razza a un’inuguaglianza di fatto e di diritto. Prendendo la loro esperienza, spesso quella delle donne della classe borghese, come universale, contribuiscono alla divisione del mondo in due: civili/barbari, donne/uomini, Bianchi/Neri, e la concezione binaria del genere diviene universale. Maria Lugones ha parlato, così, di una «colonialità del genere»: l’esperienza storica delle donne colonizzate non è solo quella di una minoranza razziale, scrive, ma anche quella di un’assegnazione sessuale. Le donne colonizzate sono reinventate come «donne» a partire da norme, criteri, e pratiche discriminatorie sperimentate nell’Europa medievale. Le donne razzializzate, da allora, hanno affrontato un doppio assoggettamento: quello dei colonizzatori e quello degli uomini colonizzati. Anche la filosofa femminista nigeriana Oyèrónke Oyĕwùmí rimette in discussione l’universalismo delle formulazioni euro-moderne del genere, in cui vede la manifestazione dell’ideologia del biologismo occidentale e della dominazione dell’ideologia euro-nord americana nella teoria femminista.

Stabilendo un’analogia fra la loro situazione e quella delle schiave, le femministe europee denunciano una situazione di dipendenza, uno status di minore a vita, ma togliendo allo schiavismo degli elementi essenziali che rendono questa analogia un’usurpazione: cattura, deportazione, vendita, traffico, tortura, negazione dei legami sociali e famigliari, stupro, sfinimento, razzismo, sessismo e morte inquadrano la vita delle donne schiave. Stabilire questa distinzione con lo schiavismo non significa negare la brutalità della dominazione maschile in Europa. Il secolo dei Lumi, quello della pubblicazione dei testi femministi storici per il continente europeo, è anche quello del picco della tratta transatlantica (fra i 70.000 e i 90.000 Africane/i deportate/i all’anno, mentre fino al XVII secolo la cifra era fra i 30.000 e i 40.000 all’anno). Le (poco numerose) femministe francesi antischiaviste del XIII secolo si basano su una visione sentimentale, su una letteratura della pietà, per denunciare il crimine dello schiavismo. Una delle opere più celebri di questo genere, il dramma Zamore et Mirza di Olympe de Gouges, conferisce il ruolo principale a una Bianca: è lei a permettere l’emancipazione delle/i Nere/i dallo schiavismo. Intitolato L’Esclavage des Nègres, ou l’Heureux Naufrage (Lo Schiavismo dei neri, o il felice naufragio) dopo le correzioni imposte nel 1785 dalla ComédieFrançaise, il dramma racconta la storia di due giovani schiavi cimarroni in fuga rifugiati su un’isola deserta. Zamore, che ha ucciso un comandante, è ricercato. Salva dall’annegamento una giovane coppia di Francesi, fra cui Sofia, figlia del governatore Saint-Frémont. Quest’ultima aiuta Zamore e Mirza a sfuggire al loro stato di schiavitù e il governatore libera gli schiavi della sua piantagione alla fine del dramma. Senza la donna bianca, alcuna libertà. Segnaliamo anche che questo tentativo, timido per tono e contenuto, fu comunque uno scandalo. Il dramma fu giudicato sovversivo, perché l’autrice lasciava intravedere «una libertà generale [che] avrebbe reso gli uomini negri altrettanto essenziali dei bianchi», che un giorno sarebbero diventati «i coltivatori liberi delle loro contee, come i contadini in Europa, [che] non avrebbero più lasciato i loro campi per andare nelle nazioni straniere». Questa narrazione in cui l’intervento delle/i Bianche/i cambia il destino delle/gli schiave/i nere/i, dove le/i Nere/i che meritano la libertà devono presentare delle qualità di dolcezza, di sacrificio e sottomissione, è stata egemonica. I testi che l’hanno messa in discussione sono le testimonianze dirette di ex prigioniere/i o ex schiave/i. In Paul et Virginie (Paul e Virginie), una delle opere più lette nel XVIII secolo, Bernardin de Saint-Pierre addolcisce la natura della relazione fra Bianchi e Neri. Uno degli episodi più stupefacenti del romanzo mette in scena una giovane ragazza schiava che, essendo sfuggita a causa dei maltrattamenti del suo padrone, si presenta una domenica mattina alla casa di Virginie. Quest’ultima l’accoglie e le dà da mangiare prima di persuaderla a tornare dal suo padrone per domandargli perdono per essere fuggita. La giovane schiava è accompagnata dalla dolce Virginie dal suo padrone che, ovviamente, la punisce. La stoltezza di Virginie non è che il frutto della sua innocenza ostinata a rifiutare di vedere il razzismo. Virginie fa dello schiavismo una semplice relazione individuale dove la violenza può essere riparata con il perdono del padrone. Le testimonianze lasciate da delle donne schiave contraddicono assolutamente questa stoltezza dalle conseguenze brutali che la donna bianca rifiuta di vedere. Nel XIX secolo, la maggioranza delle femministe, con qualche rara eccezione, come nel caso di Louise Michel o Flora Tristan, sostiene l’impero coloniale, in cui vede una leva per far uscire le donne colonizzate dai ferri del sessismo delle loro società. Non rinnegano la missione civilizzatrice ma vogliono assicurarsi che il suo versante femminile sia rispettato. Creano delle scuole per le bambine, incoraggiano i mestieri di servizio e di lavoro domestico, protestano contro gli abusi, ma non attaccano mai la colonizzazione in sé. Ne accettano la struttura e le istituzioni, trovando nella colonia la possibilità di dispiegare i principi e i valori del loro femminismo, un femminismo che aderisce all’ordine repubblicano coloniale. Di fronte all’ostilità dei coloni, sublimano le loro azioni. Lo studio dei giornali delle viaggiatrici, dei rapporti delle femministe, può da allora far dimenticare che la conquista coloniale è la base della loro azione, che è grazie agli eserciti coloniali che vengono aperte delle vie di viaggio e che sono costruiti dei luoghi in cui delle Europee possono vivere. 

Nella narrazione egemonica delle lotte per i diritti delle donne, una dimenticanza mette particolarmente in luce il rifiuto di considerare i privilegi dati dal fatto di essere bianche. Questa narrazione mette in scena delle donne private dei diritti che li ottengono progressivamente, fino a beneficiare di quello che è l’emblema delle democrazie europee: il diritto di voto. Tuttavia, se per un lungo periodo le donne bianche non hanno in effetti potuto beneficiare di numerosi diritti civili associati, hanno però goduto di quello di possedere degli esseri umani; hanno posseduto delle/gli schiave/i e delle piantagioni e poi, a seguito dell’abolizione dello schiavismo, sono state a capo delle piantagioni coloniali dove dominava il lavoro forzato (ricordiamoci del film Indocina di Régis Wargnier, 1992: nell’Indocina degli anni Trenta, Éliane Devries dirige con il padre Emile una piantagione di alberi della gomma. Ha adottato Camille, una principessa annamita orfana. Entrambe si innamorano di un giovane officiale della marina francese. Il resto è su questa falsariga: la nostalgia coloniale si accompagna a una versione edulcorata della lotta anticoloniale). L’accesso alla proprietà di esseri umani non era loro rifiutato e questo diritto era loro accordato perché erano bianche. Una delle più grandi schiaviste dell’isola della Riunione fu una donna, la Signora Desbassyns, che non aveva né il diritto di voto, né il diritto di diplomarsi, né di essere avvocato, né medico o professore all’università, ma che aveva il diritto di possedere degli esseri umani, classificati come «mobili» nel suo patrimonio. Fino a quando la storia dei diritti delle donne sarà scritta senza tener conto di questo privilegio, sarà menzognera. 

Ignorando il ruolo delle donne schiave, cimarrone, lavoratrici impegnate e colonizzate nelle lotte per la libertà e l’uguaglianza razziale, il femminismo bianco stabilisce la sola cornice delle lotte delle donne. Questa lotta equivale all’uguaglianza con gli uomini bianchi borghesi e ha luogo unicamente in Francia. La sordità, la cecità rispetto alle ragioni reali dei «diritti delle donne», rispetto al ruolo del colonialismo e dell’imperialismo nella loro concezione non potevano che nutrire un’ideologia femminista apertamente nazionalista, iniqua e islamofoba in cui il termine «francese» non ricopre il ruolo di spazio linguistico come strumento comune, ma di spazio del nazionale/imperiale.

Di quale genere si parla allora sotto la schiavitù? Le donne ridotte alla schiavitù sono nere e donne ma nelle piantagioni tutti gli esseri umani schiavizzati sono delle bestie da soma. Agli occhi degli schiavisti le donne nere sono degli oggetti sessuali, non degli esseri il cui genere dovrebbe richiedere dolcezza e rispetto. Schiave, hanno lo statuto legale di oggetti e quindi non appartengono alla piena umanità. Detto altrimenti, il genere non esiste in sé ma è una categoria storica e culturale che evolve nel tempo e non può essere concepito allo stesso modo in Francia e nella colonia. Per le donne razzializzate, affermare ciò che per loro significa essere donne è stato un terreno di lotta. Le donne, come ho detto, non costituiscono una classe politica in sé.  

Françoise Vergès è una studiosa indipendente, attivista e educatrice antirazzista e femminista, autrice di dodici libri, tra cui Monsters and Revolutionaries (1999), Le ventre des femmes. Capitalisme, racialisation et féminisme (2017) e Nègre je suis, Nègre je resterai. Entretiens con Aimé Césaire (2005). È stata presidente del Comitato nazionale per la memoria e la storia della schiavitù, è curatrice indipendente e presidente dell’associazione Décoloniser les Arts.