Tra(ns)vestirsi per aprire la pillola

Una rivendicazione queer dei corpi cosmici ispirata da Trapezia, opera dedicata alla drag queen milanese La Trape

Io non sono una donna e non voglio esserla, non sono neanche un uomo, come specificamente lo sono gli altri, dovrebbero trovare una terminologia adatta a noi, neanche transessuale o ermafrodito. Siamo delle piccole meteore, che cadono sulla terra. Non è che io voglia fare la bestia rara o che voglia essere un idolo. Siamo dei flash, belli, che il mondo strumentalizza. 
Dal film D’amore si vive di Silvano Agosti, 1984

Era il 4 aprile del 1966 e presso il Théâtre de la Chimère in Rue Fontaine 42 venne ospitata l’opera 120 minutes dédiées au divin marquis (120 minuti dedicati al marchese), uno dei controversi happening di Jean-Jacques Lebel. Non si sa se per provocazione o coincidenza, nell’edificio ospitante abitava André Breton, poeta e critico del movimento surrealista che qualche anno prima aveva espulso lo stesso Lebel dal gruppo. L’happening, come si legge tra le righe di Inferni Artificiali di Claire Bishop, traeva spunto dalla recente uscita delle Oeuvres Complètes del Marchese de Sade e la censura a La Religieuse, un film diretto da Jacques Rivette nello stesso anno che narrava le vicende di una giovane ragazza, desiderosa di una «semplice» vita laica, che si ritrova costretta ai voti in un convento di rigide suore, a causa degli errori extraconiugali della madre. 

400 persone passarono per l’ingresso sul retro dell’edificio, evocando già in questa prima fase dell’happening una metafora al piacevole «passaggio sul retro» di Sade. Appena sorpassato l’ingresso, gli ospiti venivano accolti da donne nude nella parte di doganieri che, prendendo l’impronta digitale degli spettatori, li invitavano a entrare in un lungo corridoio rivestito di carne cruda e sanguinolenta, quasi fosse il grembo di una madre o una penetrazione anale. Gli spettatori, sporchi di sangue e disagio borghese, entravano nel teatro irrompendo direttamente nella scena.

L’happening era costituito da dodici sequenze, utilizzate da Lebel esclusivamente come struttura temporale per una profonda improvvisazione caotica e beat. Tra queste c’era la soprano Shirley Goldfarb totalmente nuda che, scendendo dalle travi del tetto, cantava brani da Les 120 journées de Sodome e urinava sul pubblico che si trovava nel buco dell’orchestra (l’auditorium era stato completamente svuotato dalle poltrone). Lebel, con indosso una parrucca blu e un paramento liturgico da sacerdote sporco di merda, eseguiva una funzione sul corpo nudo e steso sull’altare della stessa Goldfarb, coprendola di panna montata e invitando il pubblico a leccargliela via dal corpo per poi, una volta finito, indossare una maschera del generale De Gaulle. Inoltre, l’artista Bob Benamou e Lebel stesso «sculacciavano» una versione de La Marsigliese sui corpi praticamente nudi di due ragazze per poi invertire i ruoli ed essere sculacciati a loro volta. Il culmine dell’azione, che portò all’arresto di Lebel alla seconda serata della performance, nella quale furono chiamati a presenziare alcuni poliziotti in borghese, mostrava una prostituta trans chiamata Cynthia, vestita da suora, che prima si denudava, poi si lavava i genitali e infine si auto-sodomizzava con dei vegetali, svelando la presenza dei seni e del pene, che provocarono un infarto allo scrittore Lucien Goldmann. 

Lo scandalo che evocò questa performance era il fisiologico risultato di una profonda stagione di mutazioni sociopolitiche in atto. Il rimescolamento sovversivo dei ruoli e l’alterazione del processo percettivo all’interno di queste pratiche artistiche erano un chiaro simbolo di un cambio di paradigma. Come affermò Günter Berghaus, «La vita, così com’era esperita negli happening [europei], non era più una mera riproduzione o un’interpretazione simbolica della nostra realtà esistenziale. Era piuttosto un confronto con la nostra esistenza alienata nella società tardocapitalista, un discorso sul conflitto tra il nostro lo reale e il suo stato alienato. Attraverso la performance, il pubblico era incoraggiato a esperire l’autenticità dell’esistenza in opposizione alla “vita non vissuta”». 

L’happening di Lebel, visto nell’ottica di Berghaus, diventa un Oltre, una rottura, delirante ma netta, con l’eredità illuminista di un dominio tecno-patriarcale che impera, attraverso un regime medico-scientifico, sulla produzione di soggettività binarie ed etero-normative. La totale assenza di divisione tra pubblico e artista è la diretta conseguenza di una praxis rivolta alla costante rimodulazione dei confini che definiscono le non mappabili classificazioni sociali. Il margine, nell’opera di Lebel, si fonde, si rimodella e infine esplode nella totale astrazione multiforme, mutante e collettiva del confine tra arte e vita. L’artista, per utilizzare le parole di Félix Guattari, caro amico di Lebel, è un «concatenamento collettivo d’enunciazione», un dispositivo in cui tutte le voci convergono in uno spettro collettivo. Un blob che assorbe e rigetta costantemente, attraverso un compromesso performativo, le soggettività alienate che abitano il margine urbano, politico e sociale. 

Questo tipo di opere sono delle fughe verso i bordi del sistema, che da allora a oggi continuano a ribaltare le mura che delineano i confini di cosa è dentro e cosa è fuori questo sistema, cosa è «normale» e cosa non lo è.

L’11 gennaio del 2022, Diego Sileo, curatore del PAC di Milano, ha portato all’interno degli spazi del museo una proiezione di Trapezia di Daniele Costa e una performance della drag queen La Trape. Mentre guardavo la performance dentro gli spazi del PAC ho subito pensato al lavoro di J.J. Lebel, all’impatto che quel lavoro nel 1966 ebbe sul pubblico e sulla critica e a quanto oggi quell’impatto è ancora radicato dentro la società. L’eredità che ci portiamo dietro è ancora reazionaria di fronte a una manifestazione così reale, sovversiva e queer come quella che La Trape ha portato all’interno dello spazio istituzionale del PAC. Utilizzo la parola «istituzionale» perché, per quanto oggi i musei di arte contemporanea siano diventati dispositivi attraverso i quali far fluire e costruire un pensiero critico radicale rivolto a forme di educazione laterali ed orizzontali, in ogni caso il «vestito» istituzionale fa ancora da contenitore stretto dell’espressività, che quando trabocca, quando è troppo manifesta perché scalpita e urla, lacera il tessuto di quel vestito e scorre generando panico, come un armadio aperto pieno di scheletri occultati.

La performance della Trape, come il film Trapezia, mettono in discussione la stessa nozione di genere, spesso confusa – come aveva spiegato Paul B. Preciado tre anni prima, invitato da Diego Sileo nello stesso PAC dove La Trape si è esibita – con il concetto di disidentificazione

Josè Esteban Muñoz, nel capitolo Performing Disidentity: Disidentification as a Practice of Freedom del suo testo Disidentifications. Queer of Colors and the Performance of Politics scrive:

La disidentificazione riguarda la gestione e la negoziazione del trauma storico e della violenza sistemica. Ho fatto di tutto per spiegare, rendere e immaginare strategie e complesse tattiche che possano mettere in atto la soggettività minoritaria. Ho voluto postulare che tali processi di autorealizzazione entrino nel discorso come risposta a ideologie che discriminano, danneggiano e tentano di distruggere i componenti della soggettività che non si conformano o rispondono alle narrazioni di universalizzazione e normalizzazione.

Il soggetto disidentificante, nelle parole di Muñoz, non assimila né rifiuta l’ideologia dominante, con la quale quindi non si identifica né si contro-identifica. La disidentificazione, in quest’ottica, implica una strategia post-antagonista, che simultaneamente lavora su, con e contro la «forma» stessa. Finché esisterà la logica dell’ideologia dominante, la disidentificazione agirà come sopravvivenza politica militante e clandestina. 

In una recente conversazione tra Adelita Husni-Bey e Silvano Agosti, il regista ha detto:

Se le stelle sono clandestine, è giusto che sia clandestino anche io. Descrivendo le stelle come clandestine mi riferisco alla loro distanza, non al fatto che siano nascoste. Anch’io sono molto lontano da questa società. Ma non è meglio stare lontano da paludi, abissi e sabbie mobili? Per questo sono portatore di distanza e non di assenza. Sono orgoglioso di questa distanza.

La metafora delle stelle clandestine, e di quanto questa distanza cosmica non sia assenza ma presenza, credo sia perfetta per descrivere la modalità con la quale tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta il regime tecno-patriarcale è stato messo in discussione dai movimenti femministi della seconda e terza ondata e dalla nascita delle comunità LGBTQ. La rivendicazione alla base di questi movimenti era incentrata sulla totale disconnessione tra quello che possiamo definire come «corpo medico», ovvero l’insieme di studi e regole medico-scientifiche che hanno «definito» le funzioni e le possibilità di un corpo organico e, al contrario, un Oltre-corpo, o come lo ha definito Anaïs Duplan, poeta, critico e artista trans, un «corpo cosmico», un’architettura inconcepibilmente vasta e sconosciuta. 

Già Mario Mieli con la definizione di soggetto «perverso polimorfo deviante», analizzando quelle che poi verranno definite da Helena Velena come le differenze tra il transgender e il transessualismo, aveva reimmaginato una posizione radicale di stasi marginale, un complesso raccordo intorno all’ordine sociale che al centro ha il transessualismo come metamorfosi Oltre-umana, per riprendere l’Oltre di Lebel; un soggetto (ancora lontano dalle teorie queer) che nell’alienarsi dalla condizione di «corpo medico» diventa, nell’isolazionismo coercitivo ma rivoluzionario, un esule dal binarismo dogmatico sociale, un «corpo cosmico» o una meteora aliena. Il soggetto «perverso polimorfo deviante» secondo Mario Mieli è la condizione di passaggio tra un sesso e un altro, lo stare a metà, «incompiuto» per la società ma molteplice per Mieli. 

La transessualità per Mieli era una lotta politica e rivoluzionaria, una pratica mutante di ripensamento dei confini che definiscono il corpo stesso. Per questo il suo pensiero radicale arrivava a rifiutare il transessualismo medicale, ovvero tutte le persone che si sottoponevano all’operazione di riassegnazione dei genitali. L’intervento era, dalla sua prospettiva, un processo di «normalizzazione sociale» che riportava il soggetto trans nella norma familiare/cristiana borghese. Attraverso questo processo i diseredati, i marginalizzati, i reietti «mostruosi» tornavano a essere «normali», tornavano in quella condizione medico-scientifica di corpo, e venivano reintrodotti nella società attraverso il nuovo debutto del genere. Questa posizione radicale deriva chiaramente dalla complessità del pensiero di Mieli, che teorizzava speculativamente ma concretamente questo Oltre sconfinato del corpo e la sua profonda condizione di liberazione dagli schemi capitalisti, sociali, medici e politici. 

Mario Mieli non si considerava né uomo né donna, nel senso più stretto dei termini, utilizzava abitualmente vestiti di entrambi i generi, facendo sbigottire spesso i borghesi nella metro di Milano dove performando manifestava, attraverso il superamento del gender, una complessa pratica rivoluzionaria. Come spiega Helena Velena, punk, transgender e storica figura della controcultura degli anni Settanta/Ottanta, «Tra(ns)vestirsi è un gesto di ribellione spontaneo, diretto, interiore; è una riaffermazione di un Io scisso che torna a fondersi nella doppia sessualità completante, e ha un ruolo sociale da un lato ribelle verso le istituzioni, da un lato completamente accettato dal quartiere, dai vicini di casa, dalla gente che vive nella casa occupata». 

Nel 1980 in Italia non esisteva ancora nessuna legge sul transessualismo, le persone trans non avevano nessun diritto giuridico e legale e, ancora peggio, erano imputabili a livello penale e giuridico di «mascheramento» in base all’articolo 85 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza. Le implicazioni giuridiche del «travestitismo o mascheramento» potevano portare a pene anche gravi come il ritiro della patente, la negazione del diritto di voto o, in alcuni casi, l’invio al confino, reminiscenza delle leggi fasciste del 1931. Ulteriori reiterazioni di questi fantomatici «comportamenti socialmente pericolosi» legati al travestimento o in generale all’abbigliamento non conforme al sesso di appartenenza, poteva portare al carcere e in altri casi all’internamento presso i manicomi (fino al 1978, quando grazie alla legge Basaglia furono aboliti). 

Quando parliamo di «genere» dobbiamo essere coscienti del fatto che utilizziamo esclusivamente terminologie provenienti dalle tecnologie mediche, incentrate a «normalizzare» differenze.

Questa viscerale relazione con l’istituzione, fuggitiva e persecutoria allo stesso tempo, ci apre davanti una prospettiva sempre più alienante della «posizione» sociale di queste comunità, e di quanto il corpo sia un dispositivo controllato e regolamentato dal discorso scientifico. Ciò che oggi conosciamo del genere e della sessualità non è altro che un’impalcatura epistemologica che ha applicato, attraverso il linguaggio, un discorso di potere. 

Come ha spiegato Paul B. Preciado in una conferenza al PAC del 2019, quando parliamo di «genere» dobbiamo essere coscienti del fatto che utilizziamo esclusivamente terminologie provenienti dalle tecnologie mediche, incentrate a «normalizzare» differenze, ad appiattire la gigantesca risonanza che un corpo può avere, che una narrazione dal margine può evocare, nella dimensione del conosciuto o del «vero». La nozione di genere, alla luce delle implicazioni storiche, è una nozione che possiamo utilizzare solo se consapevoli delle profonde implicazioni politiche che ha avuto nei protocolli medici. 

Come spiega l’autore, utilizzato dalle femministe degli anni Settanta come strumento di critica, il termine genere è stato inventato tra il 1940 e il 1950 nel contesto diagnostico de* bambin* nati intersessuali e tutt’oggi è implicato nei processi di transizione per definire la terapia/cura di una specifica patologia, in questo caso la «disforia di genere». Secondo Preciado, «il corpo è il luogo in cui agiscono i più grossi processi di appropriazione, espropriazione e lotta politica», la battaglia che stiamo combattendo oggi è la lotta somato-politica dei corpi oppressi, contenitori dei movimenti rivoluzionari del femminismo e oltre, che propongono una radicale critica alle tecnologie di oppressione. Questi corpi, considerati come «somateche» sono archivi politici vivi, complesse architetture erranti dell’oppressione, che contengono i segni del rifiuto e della sperimentazione. Sono corpi che, come ha tenuto a specificare Preciado, pretendono di «aprire la pillola». 

Questo termine deriva dall’avvicinarsi della ricerca terapeutica sull’AIDS, durante gli anni Ottanta e Novanta, all’industria farmacologica. Durante questo periodo di sperimentazione emersero una serie di pazienti «tester», ignari dei medicinali che stavano ingerendo. Rifiutandosi di essere dei consumatori ciechi della speculazione dell’industria farmacologica, chiesero spiegazioni su ciò che stavano assumendo; metaforicamente chiesero di «aprire la pillola», ovvero decodificare le forme di potere e le tecnologie che ci indentificano come maschi, femmine, omossessuali, eterosessuali, trans ecc., e che ci permettono di aprire un dibattito e una rivolta epistemologica costante contro i luoghi di produzione di queste tecnologie di identificazione: i laboratori farmaceutici. 

«Aprire la pillola» significa anche costruire un pensiero critico e mettere in atto un furto di riappropriazione nei confronti delle tecnologie medico-scientifiche del dominio, che ci permetta di rifare esperienza della comunità che siamo, complessa e mutevole, e soprattutto imparare a sostenere la lotta per il futuro che si prospetta, in termini biopolitici, dedito all’ipercontrollo tecnologico.  

Preciado concluse il suo intervento al PAC con una nota amara sulle manifestazioni performative di questo complesso discorso, spiegando come la lotta contro il dominio tecno-patriarcale e medico-scientifico deve avvenire contro i luoghi simbolo del potere e non solo dentro agli spazi di sperimentazione come musei e istituzioni. Credo che a distanza di tre anni da quella conferenza, la proiezione di Trapezia e la performance della Trape all’interno del PAC rimettano al centro del luogo di «sperimentazione» ciò che è ancora assente dai dibattiti istituzionali e quanto invece oggi, oltre che all’artist*, si chieda anche alle istituzioni di diventare dispositivi, di «aprire la pillola» e generare un pensiero pedagogico e critico nei confronti dei pubblici che sia fluido e produttivo. 

Trapezia, in questo senso, è uno scambio e un dono, un intreccio, una fuga clandestina e una meteora. Il film di Daniele Costa è il risultato di un periodo di collaborazione tra l’artista e Trapezia Stroppia in arte La Trape, drag queen del Toilet Club di Milano. Il film inizia con un’immagine rossa, una luce da club, il volto della Trape sorridente e ballereccio; in sottofondo c’è «Girl from Petaluma» un Cocktail Shakers da spiaggia o da sala di attesa, dipende dal luogo in cui vuoi sentirti. Una serie di conversazioni e momenti di confronto tra l’artista e la performer si susseguono rievocando il cinema-verità in un compost domestico, denso, umido e viscerale della casa a Milano di Aurelio aka La Trape. 

Il film è strutturato seguendo la fluidità con la quale Aurelio è La Trape e La Trape è Aurelio, un continuo movimento dentro il quale non c’è mai alienazione, ma anzi profonda consapevolezza e libertà. Aurelio parla della «comedy», l’autoironia con la quale si crea una narrazione intorno al proprio fare drag, parla del rapporto che ha con l’andare in drag, che è mettersi in discussione per conoscersi sempre di più e infine di quanta fragilità è venuta a galla nel passaggio da esibizione a performance.

L’opera di Daniele Costa sembra scavare una buca sotto a un cemento che pensiamo sia l’unico su cui camminare. Una volta tolto il cumulo di macerie, le vie sono infinite e la realtà non ha neanche un suolo, ma una moltitudine complessa di possibilità incrociate. Una costante deterritorializzazione dell’essere e del cosmo, che muta e cambia, attraversando la possibilità di un Io irriformabile. 

«Ciao! Sei stanco di vivere la tua vita brutta e triste? Fai come me, vivi la vita di qualcun altro! Che può essere molto più romantica, molto più divertente, molto più bella e piena di soddisfazioni della tua», esordisce La Trape nel rosso della stanza. 

Leonardo Bentini è nato a Roma nel 1994. Vive a Milano dove studia Visual Cultures e Pratiche curatoriali presso l'Accademia di Belle Arti di Brera. È co-fondatore, insieme ad altrə, dell’associazione culturale Genealogie del Futuro e frequenta il gruppo di ricerca Clinica della Crisi.