Terminali, sofferenze, cavi di plastica, soldi nel mare, ecc

I nervi trasmettono messaggi, le piante sanguinano, e tutte le nostre scelte sono il terminale della sofferenza di altri esseri viventi

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Fu uno zio, uno dei fratelli di papà, che mi rese partecipe di questa scoperta: tutte le piante, soprattutto nel periodo della fioritura, se lacerate nelle frasche o nei rami, rilasciano un liquido di colore bianco o giallognolo. Sono le loro ferite. […] Quando lavori la terra, quando il mondo che ti circonda è la fonte del tuo sostentamento e della tua vita, le piante le tagli e gli animali li uccidi. È la contraddizione dell’esistenza che determina le priorità degli obblighi vitali. […] La vita di tutto è regolata da contraddizioni che, nel loro sviluppo, possono provocare sofferenza. Niente ne è immune. La scelta di incidervi implica sempre un’assunzione di responsabilità con la quale occorre ogni volta sapersi misurare.

Sono le parole di un uomo che ha ucciso esseri umani scambiandoli per simboli. Sono anche le parole di un contadino – poi operaio e clandestino – nato nella campagna reggiana nei primi anni Cinquanta, e vanno contestualizzate. Quella del brigatista Prospero Gallinari, dalle albe in trattore al commando di Via Fani, è una storia molto lunga e non c’entra con quella di oggi. Cosa significa però che «la vita di tutto è regolata da contraddizioni che, nel loro sviluppo, possono provocare sofferenza»? E che niente ne sia immune?

Di tutti gli alberi e le piante che ci vivono attraverso, e sanguinano, la storia di oggi è dedicata al palaquium gutta. Nel 1848, mentre nel continente si lottava inseguendo i propri «obblighi vitali», Michael Faraday pubblicava uno studio sulle formidabili capacità isolanti del gutta percha, da noi detta guttaperca. Una gomma naturale ideale per quel futuro lontano in cui i cavi telegrafici sarebbero stati posati sul fondo oceano. A sorpresa, furono sufficienti dieci anni, e un ecosistema. Il 16 agosto 1858 la regina Vittoria scriverà, online, al presidente degli Stati Uniti d’America:

La regina desidera congratularsi con il presidente per il successo di questa grande impresa internazionale, in cui la regina ha il più grande interesse. Sua maestà spera che il presidente sarà d’accordo sul fatto che il cavo elettrico si rivelerà un ulteriore collegamento tra le nazioni, la cui amicizia è basata su interessi comuni e stima reciproca. La regina ha il più grande piacere nel comunicare con il presidente e nel rinnovargli gli auguri per la prosperità degli Stati Uniti.

La regina Vittoria e il presidente Buchanan si erano inchinati attraverso un cavo di guttaperca pesante 2.000 tonnellate. Per produrre una tonnellata di lattice servivano 900.000 tronchi. E crescendo la rete telegrafica, crescevano anche gli investimenti sull’isolante: la linfa non traboccava spontanea dalla pianta, offrendosi lenta, ma era raccolta da manodopera sottopagata che si arrampicava sugli alberi con nelle mani il machete. Il lattice veniva poi lavorato (nell’Ottocento non esistevano meccatronica e turni da 8 ore) e spedito da inglesi a inglesi.

Se leggere «guttaperca» vi stranisce è perché la sua estrazione non era sostenibile; nel 1883 il palaquium gutta era quasi scomparso, e con l’albero la parola. Restavano ecosistemi distrutti, schiavi senza lavoro, mercati deserti. Poco male, le contraddizioni possono provocare sofferenza. Si passò ad altro.

La guttaperca è sopravvissuta, e si usa ancora, almeno «in odontoiatria per chiudere i canali dopo la devitalizzazione della polpa, la parte più interna del dente». Fu introdotta in Italia per la prima volta nei primi del Novecento da Giovanni Battista Pirelli, «fondatore dell’omonima ditta». L’omonima ditta che poi divenne la base dei primi compagni di Gallinari, tra le altre cose.

Comunque

La storia della guttaperca getta uno dei primi traccianti di quella rete di sofferenza, ineguaglianza, e orribile scialo di risorse che si attiva ogni volta che accendiamo la luce, il wi-fi, quei servizi impalpabili al punto da farci dimenticare che i cavi del mondo sono nascosti dalle sue pareti.

Ai cavi telegrafici si sostituirono quelli telefonici; oggi, sui fondali marini, scorre la fibra ottica. Il 97% del flusso di informazioni su scala globale scorre sul fondo dell’oceano, dove ogni giorno vengono processate 15.000.000 transazioni finanziarie, spostando qualcosa come 10 miliardi di miliardi (non è un refuso) di dollari. Nel 2020 Google diventerà la prima società della Silicon Valley capace di finanziare e stendere in autonomia un cavo lungo 5.700 chilometri tra la Francia e la Virginia. Andrà ad aggiungersi agli altri 428 cavi sottomarini che – scrive Wired nel 2019 – costituiscono «la spina dorsale» di Internet.

Non è una metafora banale quella della spina dorsale, da sottovalutare, ormai la ripetiamo da quasi due secoli. Lo racconta James Gleick nel suo L’informazione, da subito i sistemi telegrafici furono paragonati a quelli biologici: «I cavi come le fibre nervose, la nazione (o la Terra intera) come il corpo umano. […] Gli anatomisti che esaminavano le fibre nervose si chiedevano se fossero isolate con una versione organica della guttaperca». Al cervello invece Whitman preferì il cuore, in una delle sue chiose a Foglie d’erba, quando nel 1860 cantò il primo cavo transatlantico.

Quali sussurri sono questi, o terre, che vi corrono innanzi e corrono sotto i mari?
Comunicano forse le nazioni universe? Non ci sarà che un cuore solo per la Terra?

Quali sussurri sono questi, allora? Comunicano le nazioni universe?

La vita di tutto è regolata da contraddizioni che, nel loro sviluppo, possono provocare sofferenza, e niente ne è immune.

Un esempio

La Nigeria è tra i primi dieci paesi al mondo per produzione ed esportazione petrolifera. Le sue riserve sono le più estese del continente africano, le decime su scala globale. Sono dati che fluttuano, così come il PIL del paese, dipendente per il 40% dall’impiego dei giacimenti. Sono stati scavati quasi millecinquecento pozzi in Nigeria, e la metà dei campi petroliferi si trova nel delta del Niger.

Sul delta e al largo, nell’Atlantico, operano da decenni diversi conglomerati, tra questi ExxonMobil e Chevron (USA), Total (Francia), Shell (Paesi Bassi), Eni (Italia). Ci sono diversi documentari  – anche molto brevi, consiglio questi tre –  che raccontano lo stato di salute della realtà naturale e sociale del delta. La ricchezza distribuita dagli oleodotti stranieri scorre sotto i piedi dei nigeriani: fuor di metafora, le condutture attraversano i villaggi, dove alcuni autoctoni, stretti dalla mancanza di fonti di reddito alternative, decidono di sabotarle, rubando il greggio per poi lavorarlo nelle raffinerie improvvisate in mezzo alle mangrovie.

Quando le pressioni del governo superano le tangenti dei gruppi armati, l’esercito nigeriano smantella gli impianti informali riversando flussi spaventosi di diesel nel fiume; queste azioni, combinate agli incidenti delle multinazionali e all’incompetenza dei contrabbandieri, stanno massacrando il paesaggio, l’aria, l’acqua e il suolo. Fino al secolo scorso, per vivere, sul delta si pescava e si coltivava la terra.

La foto non restituisce l’entità del danno, vi consiglio di vedere almeno un documentario.

A differenza del petrolio, la corruzione endemica è meno volatile delle strutture di potere che la accolgono: non tende a risalire in superficie, precipita nelle crepe, dove la violenza preferisce nasconderla. In questi mesi però, a Milano, si sta facendo luce su una di queste crepe.

Internazionale l’ha definito «il più grande caso di corruzione internazionale in cui sia mai stata coinvolta l’industria petrolifera mondiale». Si chiama «Scaroni e altri» ed è un processo che coinvolge tredici imputati, tra questi Scaroni appunto, amministratore delegato dell’Eni al tempo dei fatti, l’attuale a.d. Claudio Descalzi, Luigi Bisignani, l’ex vicepresidente della Shell, l’ex ministro del petrolio nigeriano e altri. Il nodo dell’accusa lo riassumo attraverso il lavoro di Marina Forti che si occupa del caso da almeno due anni:

Secondo l’accusa sarebbero corresponsabili della sottrazione di oltre un miliardo di dollari dalle casse dello stato nigeriano: soldi pagati in teoria per l’acquisto di una concessione petrolifera in Nigeria; in realtà andati a beneficio di alcuni politici e imprenditori nigeriani, con un codazzo di intermediari e faccendieri. Tutto ruota intorno alla concessione petrolifera nota come Opl 245, che si trova in mare aperto, al largo del delta del fiume Niger. È considerato il più grande giacimento in Africa, con una riserva stimata di nove miliardi di barili di greggio, e fa gola. Nel 2011 l’Eni e la Shell si sono aggiudicate la licenza per sfruttarlo in cambio di un miliardo e trecento milioni di dollari. Ma gran parte di quel denaro è finita alla Malabu oil & gas, azienda che rivendicava un diritto sul giacimento, e dietro a cui si nasconde l’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete, tra gli imputati a Milano.

Per chi vuole approfondire, ecco un paio di articoli. Qui, per ragioni di spazio, ci limiteremo a un dato: in un paese dove il 60% della popolazione vive nella povertà assoluta, «la somma della presunta tangente Opl 245 equivale all’80% del budget sanitario» nigeriano del 2015; in un altro articolo viene confrontata «al bilancio del ministero dell’istruzione per l’anno 2018».

Le perdite potrebbero arrivare a sfiorare i sei miliardi di dollari, considerando che le condizioni fiscali dell’accordo tra Shell/Eni e il governo portano quest’ultimo a incassare soltanto il 41% del reddito generato dalle estrazioni. Le linee guida del Fondo Monetario Internazionale prevedono una cifra tra il 65 e l’85%. Concludo questa prima parte riportando un virgolettato di Antonio Tricarico di Re:Common, un’associazione che fa inchieste e campagne di sensibilizzazione sui disastri ambientali:

Il governo italiano sta scoraggiando i migranti nigeriani che cercano di raggiungere l’Italia sostenendo che li aiuterà in patria, ma la più grande multinazionale italiana, in parte di proprietà dello stato, è accusata di privare il popolo nigeriano di miliardi di dollari.

Le idee

Allora: passando alla pratica, cioè alle idee, come dobbiamo pensare per reagire a tutto questo? Alle devastazioni ambientali dell’economia fossile, all’aumento di CO2 nell’atmosfera, al riscaldamento dell’aria e alla morte dei più deboli?

Qualche settimana fa su Aeon è stato pubblicato un video di cinque minuti che si chiama Becoming. L’autore, Jan van IJken, è riuscito a documentare nel micro-dettaglio come uno zigote monocellulare si sviluppa in un organismo multicellulare. Ogni parte ricopre la sua funzione.

Siamo fatti di natura, nei nostri cervelli scorre l’oceano. A differenza delle salamandre, però, possiamo decidere come vivere nella società. Guardate il video, davvero. L’organismo si sviluppa attraverso uno scambio continuo di risorse, assemblando l’Uno che è l’insieme di Parti e persegue un obiettivo. Di solito l’obiettivo primario è: sopravvivere.

A differenza delle salamandre, qualche secolo fa i maschi bianchi di Homo sapiens hanno deciso che l’obiettivo primario è: accumulare pezzi di valore simbolico che chiamiamo denaro. Un obiettivo portato alle sue estreme conseguenze dai dirigenti delle compagnie petrolifere, bianchissimi come Rex Tillerson, assunto dalla Exxon appena laureato nel 1975, promosso ad amministratore delegato dopo trent’anni di carriera, nominato Segretario di Stato USA il primo febbraio 2017, rimosso dall’incarico («stupido come un sasso, pigro») poco più di un anno dopo da Donald Trump per divergenze sul nucleare.

Quando abbiamo iniziato MEDUSA non sapevamo dove saremmo finiti, sapevamo solo che era giusto iniziare: dopo un anno e mezzo, e trentacinque numeri, è sconvolgente guardarsi indietro e accorgersi di qualcosa che ha preso vita da sé, sempre in cerca di qualcosa, mosso dal dubbio. Scrivendo della Nigeria per esempio mi sono tornati in mente certi discorsi su Cultura e Natura, dove mi chiedo «se non siano in fondo la stessa cosa», o parlo di «dicotomia approssimativa» e altre meraviglie che oggi non scriverei mai.

Il presente continua a suggerircelo in tutti i modi, dalla Nigeria all’Artico: natura e cultura, anzi, natura e società, non sono e non saranno mai la stessa cosa. Come un albero che condivide le sue origini con il terreno, le radici, la società nasce nel naturale ma si espande nel sole e nel vento della storia, sviluppando proprietà diverse dall’humus che l’ha originata.

Mi è capitato di sbagliare. Iperoggetti, il saggio di Morton di cui abbiamo scritto l’anno scorso, era ed è capace di una forza persuasiva che può confondere. È teoria lirica, immaginifica, e nasconde poteri sedativi. Perché ti ricolloca tra l’organico e l’inorganico, in un’orgia panpsichica in cui siamo tutti serpenti gigli e stelle, dove il petrolio di dinosauri liquefatti ci sussurra e le auto ci fanno l’occhiolino; tutte immagini che possono aiutarci a sopportare quello che ci circonda, ma non a salvare chi soffre, o soffrirà nei prossimi decenni. Citando  le pagine fluorescenti di Donna Haraway, più che post-umani siamo compost, è vero, e in quello stadio ci mescoleremo di nuovo alla materia inorganica. Finché siamo in giro sulla Terra però, tocca farci il culo. Non saranno i delfini o le orchidee a salvarci.

«Scaroni e altri» non verranno giudicati dai batteri insomma, da Dio o da un iperoggetto, ma da un tribunale che nasce e muore nella società. Se verranno salvati dai loro turbo-avvocati, o da una probabile prescrizione, ai protagonisti di questa storia possiamo comunque augurare la metamorfosi di Carlo, l’ingegnere dell´Eni protagonista di Petrolio, il romanzo incompiuto di Pasolini. Sdoppiatosi in un altro da sé, e trasformatosi in una donna, Carlo espande la sua identità nel sesso e nei misteri del rituale. Ed è proprio lì sul fondale, nelle crepe nere dell’inconscio, che gli amministratori delegati potrebbero scoprire la possibilità di riscrivere la storia.