Tecnostalgia

Non per forza musica + memoria = retromania. Riflessioni su tempo, spazio e suono a partire da El Tren Fantasma di Chris Watson

Domenica mattina sono partita da casa per andare a prendere l’aereo che mi avrebbe riportato a Londra, dove vivo ora. Da Gatwick ho preso la Southern per una fermata, in direzione East Croydon. Il treno era pieno come al solito: gli sguardi goffi e curiosi dei turisti, i pendolari concentrati su loro stessi e i bagagli ovunque. Rimango in piedi. Mentre il treno riparte, una donna sulla trentina con due bambini, una femmina e un maschio nel passeggino, si siede nel posto vuoto di fronte a me. Mamma e figlia, entrambe dai bei capelli lunghi, rispettivamente castani e biondi, cominciano a cantare questa filastrocca, molto popolare nei paesi ispanici, «laaa gaaaallina turuuuuleca, haa puesto un huevo, ha puesto dooos, haa pueesto trees…,» e iniziano a giocare. Sono rimasta lì, a fissarle come se le conoscessi, sorridendo per tutto il tempo.

Mentre arrivavamo alla stazione si sono fermate, hanno chiamato il papà, che era rimasto in mezzo alla folla vicino alla porta del treno: «Daaaad!» – «Yes, sweetie!»; hanno raccolto le loro cose e siamo scesi tutti. È stato un momento per me pieno di gioiosa e malinconica nostalgia. Mi hanno fatto ripensare alla mia famiglia, mia madre argentina e mio padre italiano, e a tutti gli anni trascorsi viaggiando da un posto all’altro, crescendo tra cambiamenti di lingua e di abitudini. Mi ha fatto pensare a mia madre così come me la ricordo con gli occhi da bambina: stessi capelli, stessa borsa di paglia, stesso atteggiamento rilassato e a tratti un po’ freak. E a tutte le volte in cui ha cantato quella stessa filastrocca a me e ai miei fratelli. Più di tutto però, quei quindici minuti di viaggio mi hanno fatto ripensare a come mi sono sentita la prima volta in cui ho ascoltato El Tren Fantasma di Chris Watson, e a come esso mi ha accompagnato attraverso memorie sovrapposte e frammentate, originali o acquisite, della mia infanzia e della mia adolescenza. È stato come se, improvvisamente, mi fossi ritrovata sul treno di Watson.

Già membro fondatore dei Cabaret Voltaire e degli Hafler Trio, Chris Watson è un sound recordist specializzato in storia naturale: dai suoni degli animali a qualsiasi rumore collegato a un ambiente esterno. Nel 1999 Watson ha trascorso più di un mese registrando i suoni di un viaggio in treno per un episodio della serie di documentari della BBC Great Railways Journey; successivamente ha utilizzato, montandolo e ricombinandolo, il materiale audio raccolto per le 10 tracce pubblicate nel 2011 come El Tren Fantasma. L’episodio della serie era «Los Mochis to Veracruz», girato ovviamente in Messico e il cui scopo principale era quello di documentare le persone, le atmosfere e i paesaggi del viaggio in treno, dalla costa del Pacifico al golfo del Messico. Essendo stata dismessa la tratta ferroviaria poco dopo, ciò che Watson ha voluto fare era ricreare l’atmosfera del viaggio in treno, andando oltre un progetto storico di documentare il reale per le generazioni future e lasciandosi cullare invece in una nuova dimensione dove il reale si fonde con il fittizio: la registrazione di un luogo e di un momento specifico che è tuttavia in grado di cogliere una molteplicità di esperienze, narrazioni e ricostruzioni.

Il disco, direttamente ispirato ai lavori di musique concrète del compositore francese Pierre Schaeffer e che fa uso di tecniche tipiche della musica elettronica, racconta il viaggio di questo treno ormai «fantasma», combinando i pesanti loop industriali e meccanici della locomotiva con le voci dei passeggeri e dei lavoratori, e unendo al tutto i suoni naturali provenienti dall’ambiente circostante. Nell’affrontare le questioni relative ai suoni «amelodici» utilizzati da Watson, quindi se debbano essi effettivamente essere considerati musica e perciò apprezzati dai fan della popular music, i giornalisti hanno scritto che la bellezza intrinseca delle manipolazioni effettuate da Watson su quei field recordings risieda nella sua abilità di conferire un senso di spazialità al suono e di creare un minuzioso ed elegante collage elettroacustico, nel quale i suoni della ferrovia «vengono pesantemente effettati con l’eco ed estesi fino a divenire musica ambient drone». I ritmi che emergono e si dileguano aprono il disco a una narrazione del viaggio in treno più complessa, ricca di sfumature e tridimensionale, che riesce non solo a condurre l’ascoltatore in uno «spettrale diorama uditivo», ma anche a trasportarlo attraverso gli estremi opposti tra l’incontaminato paesaggio bucolico e l’ambiente tecnologico e «civilizzato».

Per utilizzare le parole dello stesso Watson, El Tren Fantasma serve inoltre da personale esercizio mnemonico, finalizzato al ricordo dei sentimenti e delle atmosfere associati al luogo in cui la registrazione è stata effettuata. L’atto stesso di registrare, così come quello di manipolare e ricostruire il materiale audio in singole composizioni, è secondo Watson un modo per rappresentare l’identità di quel luogo specifico attraverso i suoi suoni e attraverso gli strati mnemonici in cui quei suoni si sono fossilizzati nella mente dell’artista.

Chris Watson all’opera

Posizionando queste opinioni e queste prospettive nel più ampio panorama degli studi e delle riflessioni sulla cultura contemporanea, e lasciando risuonare la mia esperienza personale in un contesto collettivo, vale la pena sottolineare che El Tren Fantasma richiama senz’altro l’attenzione sulle discussioni riguardanti il rapporto tra popular music e la temporalità, che comprendono in gran parte le questioni relative alla memoria, alla nostalgia, e i lunghi dibattiti incentrati sulle implicazioni culturali, politiche e musicologiche dell’intricato dialogo tra il passato più recente e il presente.

Quest’ultimo argomento, è stato ampiamente definito come l’ossessione del nostro presente per qualunque stile musicale, atteggiamento, tecnologia di registrazione o formato sia stato utilizzato nel pop dei decenni precedenti. A voler fare i soliti nomi: ricorderete sicuramente Retromania di Simon Reynolds (2010) e ricorderete sicuramente i molteplici passaggi imbevuti di teoria, o il lento scorrere delle pagine che assomigliano più a un volume della Treccani che altro, o quantomeno l’acceso dibattito – nostalgico ma che bene si traveste da rivoluzionario – contro lo sguardo rivolto al passato della musica, dei musicisti e degli ascoltatori del nuovo secolo che viene in breve dismesso come un’accozzaglia consumistica di suoni e forme decrepiti che brancolano nel buio. Ricorderete l’hauntology, Mark Fisher e Adam Harper. Le teorie hauntologiche uniscono la mercificazione della nostalgia e un interesse per le capacità estetiche del format a un sentimento di decadenza più storico e politico, per descrivere come la nostalgia e i media giochino (e giocano) un ruolo decisivo nella perdita contemporanea di qualsiasi riferimento temporale. Priva di un suono definitivo, incapace di concentrarsi sul presente e insoddisfatta dell’effimero futuro, la musica hauntologica è perseguitata da fantasmi: spettrali riferimenti al passato, meglio se provenienti dalle più pure esperienze d’infanzia, onnipresenti tracce sbiadite di memorie culturali nel presente, un feticismo per l’analogico nell’era digitale e un orientamento esistenziale conscio del fatto che una narrazione storica lineare non è più realizzabile, e che la temporalità in quanto tale è collassata su se stessa. Infine, volendo osare qualcosa di più accademico, va menzionato tra gli altri il lavoro di Caroline Bithell, di Marion Leonard o di Sarah Baker che offrono spunti meno retorici per dare spazio a concetti come tradizione, memoria culturale, dinamiche archivistiche e di preservazione del patrimonio artistico nazionale.

Il suono e la voce sono elementi imprescindibili nella costruzione di un’identità personale, culturale e mnemonica, che prescindono da distanze spaziotemporali.

Certo, pur essendo un fantasma, ma evitando comunque gli spettri demoniaci del passato messicano o un’idealizzazione degli anni dell’infanzia di Watson, El Tren Fantasma sembra presentare una connessione forte con i dibattiti sulle modalità in cui la memoria personale e quella collettiva vengono evocate, articolate e ricostruite attraverso le associazioni emotive offerte dai suoni stessi, così come quelli sulle potenzialità di modellare le percezioni dello spazio e del tempo insite nelle tecnologie di registrazione.

Quello che mi ha veramente sorpreso ascoltando El Tren Fantasma, è stato l’immediato senso di familiarità e di quella dimensione mistica descritta sopra che vengono suscitati dalle ritmiche rassicuranti e dall’andamento meccanico della ferrovia, dal risuonare del suono della campana, dalle voci umane attutite dai rumori profondi, avvolgenti e inquietanti dei freni e del fischio del treno, dal cinguettìo della natura in sottofondo, una cacofonia di suoni degli insetti e delle galline, dal caos delle persone che si muovono e parlano, dall’urgenza dell’anunciante, dalle combinazioni di spagnolo e inglese. «El Divisadero» mi ha catturato: potevo vedere mia madre che cantava la versione di Mercedes Sosa di «Duerme Negrito» ai miei fratelli e a me, la sua collezione di dischi di musica folk latinoamericana, le estati che mia nonna ha trascorso con noi in Italia preparando empanadas e budín de pan, la pizza con la mortadella che mangiavamo per pranzo, sdraiati sull’erba, dopo aver camminato per ore sui sentieri di montagna vicino al paese dove è nato mio padre. Ho visto i video in cui i miei fratelli scartavano i regali di Natale, quando avevo nove mesi e vivevamo in Argentina, e ho visto le foto, accompagnate dai racconti dei miei genitori, del viaggio in Cile che facemmo quell’anno, noi sei e mia zia, in una Lada familiare del 1993, bianca, nuova fiammante: Córdoba, San Luis, Mendoza, la Cordillera e Aconcagua, Valparaíso, finalmente Viña del mar.

Questo intenso senso di familiarità e tranquillità, i sentimenti associati alla vividezza di questi ricordi e insieme l’offuscamento delle memorie mediate, nonché il forte senso di nostalgia, vengono probabilmente non solo dall’abilità di Watson nel fare del viaggio in treno una narrazione, ma anche dalle specifiche circostanze in cui ho ascoltato il disco: ventidue anni, vivendo all’estero e per la prima volta per conto mio. Scrivendo a proposito delle potenzialità emotive del suono, della lingua e della voce umana, lo scrittore e conduttore radiofonico Seán Street osserva che la memoria e la nostalgia in un pubblico giovane sono articolate, di contro alle complessità associate al divenire adulti, attraverso i ricordi di un mondo sicuro legato alla prima infanzia; ricordi personali che possono essere sia immaginati sia vividi e precisi. Nel contesto specifico del field recording e del potere comunicativo della radio, Street aggiunge che il suono e la voce sono elementi imprescindibili nella costruzione di un’identità personale, culturale e mnemonica, che prescindono da distanze spaziotemporali. Per quanto suono e voce siano essenzialmente effimeri, la loro «rappresentazione fisica» e quindi la riproducibilità tecnica che rende possibile la capacità umana di ricordare, dovrebbe essere considerata come un esempio di preservazione sonora.

Sulla dicotomia tra giovani e anziani, José van Dijck – docente di new media all’università di Utrecht – ribadisce che i due rispondono diversamente alla musica registrata: mentre i primi sono in grado di richiamare alla memoria eventi specifici, questi ultimi tendono a riferirsi genericamente ad atmosfere e a stati d’animo del passato. Inoltre il processo verbale attraverso cui le memorie culturali e musicali dei genitori e dei fratelli più grandi vengono narrate ai bambini rende spesso più difficile per i giovani distinguere tra memorie personali effettive e vissute direttamente, e quelle acquisite e in larga parte mediate. Va però sottolineato il fatto che sebbene l’atto di ricordare assuma connotati differenti in base all’età e cambi a seconda delle circostanze del presente in cui avviene, le tecnologie di registrazione, i suoni registrati e più generalmente l’aspetto materiale della musica, sono comunque decisivi nei processi di evocazione e di ricostruzione delle narrazioni della memoria, e rimangono responsabili della materializzazione di queste memorie sotto forma di sentimenti storici o spesso nostalgici. Avendo coniato il termine «tecno-stalgia», van Dijck scrive che «le tecnologie dei media e gli oggetti vengono spesso impiegati come metafore, ed esprimono il desiderio culturale che la memoria funzioni effettivamente come un archivio o un impianto di immagazzinamento», e traccia una linea tra la diffusa e più recente attrazione nei confronti delle passate tecnologie della musica pop, riferendosi a ciò come a una cultura retro meramente commerciale, e il coinvolgimento effettivo, in qualche modo più sentito e sincero, nel processo di (ri)attuazione.

Ritornando al treno fantasma e alle parole di Watson sulla reminiscenza di uno specifico luogo attraverso la manipolazione dei suoni, viene da pensare che l’esperienza d’ascolto di El Tren Fantasma si pone come risposta sonora alla nuova percezione, tecnologica e mediata, dello spazio e del tempo. Se si riflette infatti sulla consapevolezza da parte dell’ascoltatore di come ciò che sta ascoltando sia il suono di un viaggio che è già divenuto storia collettiva, le dieci tracce possono essere analizzate all’interno del discorso sulle caratteristiche estetiche di ciò che è stato definito come la nuova fase della «compressione spazio-temporale». Potrebbe darsi che sia la fluidità attraverso cui la mente dell’ascoltatore si muove nello spazio e nel tempo, reale o fittizia, e sia l’evocativa familiarità che circonda il disco, puntino al bisogno di un senso di luogo e di tempo più rassicurante, un «escapismo romanticizzato» per dirla con Doreen Massey, come risposta ai mutamenti confusi e conflittuali delle immateriali relazioni spazio-temporali odierne a livello globale. Pur essendo preoccupato dalla «scomparsa dello spazio» e dalla sua progressiva commercializzazione, che soffoca ogni pratica derivé di stampo situazionista – l’associazione fluida e creativa tra la mente e la città – David Toop riconosce l’importanza della musica e dei suoni ordinari nella rappresentazione e nell’esperienza del contesto urbano. Nella sua indagine sui rapporti tra tempo, spazio e suoni, Toop illustra nel suo Haunted Weather (2004), attraverso alcuni esempi di soundscape e field recording, il modo in cui una narrazione musicale, che «può essere una storia senza chiusura, una storia senza inizio, fine o sviluppo di superficie», sia spesso completamente guidata dalla registrazione dei suoni, e come i suoni stessi divengano, a loro volta, essenziali nella formazione, nell’evocazione e nella stabilizzazione di memorie e significati.

I suoni di El Tren Fantasma mi hanno trasportato in un luogo familiare, dove passano le memorie personali, e in un luogo distante, dove la storia del vero viaggio in treno è stata raccontata. Sono stati cruciali nella ricostruzione di narrazioni del passato e altrettanto importanti nella formazione di nuove narrazioni, come nel caso di quella domenica mattina a Londra. Quindi chissà, ben lungi dalla ricerca di sicurezze spaziotemporali, gli schemi «amelodici» della ferrovia e quella fluidità della mente dell’ascoltatore possono facilmente essere percepiti come un tentativo di aumentare l’effetto di blandimento e disorientamento, di mediare coscientemente il senso di tempo e di spazio, di accrescere la componente di mistero e imprevedibilità: «il modo in cui uno strato o un riferimento, armonicamente complessi, ci permettono di “far riposare le orecchie”, in modo tale che la mente possa viaggiare senza un indebito obiettivo o scopo; in altre parole che possa sognare a occhi aperti o rilassarsi».