Sul pessimismo

Perché, mai come ora, abbiamo bisogno di vedere il bicchiere mezzo pieno… di veleno

Il nuovo titolo di Not è Rassegnazione infinita di Eugene Thacker, già autore del classico Tra le ceneri di questo pianeta. Il libro è una raccolta di aforismi a cui si accompagna una lunga appendice (intitolata I santi patroni del pessimismo) nella quale Thacker passa in rassegna il pensiero di autori come (tra gli altri) Giacomo Leopardi, Emil Cioran, Michel de Montaigne e ovviamente Arthur Schopenhauer.

Di seguito un piccolo estratto dalle prime pagine, nella traduzione di Claudio Kulesko. Trovate Rassegnazione infinita in libreria, oppure potete ordinarlo qui.

Ogni filosofia è sospesa tra l’assioma e il sospiro. Il pessimismo vacilla, in bilico sul baratro.

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Ovunque appaia, qualunque forma      assuma, il pessimismo non ha che un solo effetto: quello di introdurre l’umiltà nel pensiero. Esso mina, fin nelle loro fondamenta, le innumerevoli posture autocelebrative che costituiscono l’essenza dell’essere umano. Il pessimismo è l’atto di umiltà di una specie definitasi da sé, un pensiero che inciampa furtivamente sui propri limiti, librandosi sulle nere ali della futilità. (A che pro?)

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Il pessimismo è il lato oscuro del pensiero, un melodramma sulla futilità del cervello, un poema composto nel bel mezzo del cimitero della filosofia. Non vi è alcuna necessità del pessimismo – non nel modo in cui si ha bisogno dell’ottimismo, per slanciarsi verso le più nobili altezze e ritemprare lo spirito; non nella misura in cui si ha bisogno di critiche costruttive, di consigli e risposte, di libri dai quali trarre ispirazione o anche solo di una pacca sulla spalla (benché mi piaccia immaginare che, per certi versi, il pessimismo sia una sorta di autoaiuto). Il pessimismo è filosoficamente insostenibile. Nessun filosofo che si rispetti, di fatto, si definirebbe «pessimista» – trattandosi più di un’accusa che di un orizzonte filosofico. 

Nessuno ha bisogno del pessimismo. E tuttavia, a un certo punto della propria vita, ciascuno di noi, senza eccezione alcuna, è costretto a confrontarsi con il pessimismo, se non come una vera e propria filosofia, quantomeno come una sorta di rancore – nei confronti di se stessi o degli altri, di ciò che ci circonda o della vita, di un certo stato di cose o del mondo in generale.

Ciò che nel pessimismo più si avvicina all’argomentazione filosofica è un beffardo e sardonico «non ce la faremo mai», o un più modesto «siamo condannati». Ogni sforzo è condannato al fallimento; ogni progetto è condannato a restare incompiuto; ogni pensiero è condannato a non essere pensato; ogni vita è condannata a non essere vissuta.

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Quando le soluzioni finiscono per concepire nuovi problemi; quando il pensiero annega nell’assenza di ordine, unità e scopo; quando il sano scetticismo si tramuta in patologico sarcasmo: è in tali frangenti che il pessimismo si getta nella mischia. 

Il problema, tuttavia, è che quando il pessimismo fa il suo ingresso nel dibattito filosofico, non è di alcun aiuto. Al contrario: volge al peggio e inasprisce ogni situazione. E tuttavia, alle volte – nel suo infinito miserere – qualcosa di interessante accade: il pessimismo rilancia la posta in gioco, innalzando il pensiero al di là del narcisismo degli esseri umani e del loro mondo, al di là dei nostri bisogni e desideri, al di là dell’importanza che attribuiamo a individui e collettività. Credevate sul serio che saremmo riusciti a farcela, che ci saremmo davvero spinti così lontano? Il pessimismo è la più bizzarra tra tutte le filosofie – la più adatta all’impresa e, al tempo stesso, la meno utile.

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Vi è forse filosofia che non sia, in un modo o in un altro, fondata sul disincanto – e che, prima o poi, non finisca con il crollare, schiacciata dal suo stesso peso? Un disincanto che è come un canto, un mantra, una voce solitaria e monofonica, resa insignificante dalla profonda immensità che la sovrasta.

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Nessuno ha tempo da dedicare al pessimismo. Dopotutto, una giornata ha solo tante ore. Qualunque sia il nostro temperamento – malinconico o gioioso, intraprendente o distaccato – siamo sempre in grado di riconoscere il pessimismo al primo ascolto. 

Generalmente si ritiene che il pessimista sia un frignone, sempre pronto a lamentarsi del mondo senza mai offrire una qualche soluzione. Il più delle volte, tuttavia, il pessimista è il più taciturno dei filosofi – avendo sommerso i propri sospiri nella letargia dell’insoddisfazione. Di quel poco di baccano che fa, non si cura anima viva – «Questa l’ho già sentita», dicono, «dimmi qualcosa che io non sappia già». Grandi parole, prive di qualsiasi significato.

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Potrebbe andare bene – mi dico – e tuttavia non va mai poi così bene. Nulla sembra avere senso – eppure un senso dovrebbe esserci (dico bene?). Di certo, prima non andava tutto alla perfezione, ma ora la situazione è decisamente peggiorata (…o così pare). Tutto questo solo se ci si sofferma sulla più semplice delle imprese: vivere.

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Nel porre problemi privi di soluzione e interrogativi privi di risposta, ritraendosi nelle ermetiche e abissali dimore del lamento, il pessimismo si è macchiato di quello che per l’Occidente è il più imperdonabile dei crimini: non aver finto che tutto accada per una qualche ragione. 

Il pessimismo fallisce prima ancora di giungere al più fondamentale tra tutti i principi filosofici: il «come se». Pensa, come se pensare possa essere di una qualche utilità; agisci, come se agire possa fare la differenza; parla, come se ci sia qualcosa da dire; vivi, come se in realtà non fossimo noi per primi a essere vissuti da una imperscrutabile e mormorante non-entità – al tempo stesso, uno spettro e un ammasso di collagene.

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Quell’acme luminoso in cui la logica si tramuta in contemplazione, sperduta tra i meandri del pensiero, alla deriva nello spazio profondo. Un sonno senza sogni. 

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Il pessimismo ha uno statuto ambiguo, sia nella vita di tutti i giorni che nella storia della filosofia. Solitamente, è ritenuto l’inverso dell’ottimismo – una sorta di polo negativo contrapposto a un polo positivo, un peggio contrapposto a un meglio, il classico bicchiere mezzo vuoto contrapposto al bicchiere mezzo pieno. Da questa prospettiva, i confini tra ottimismo e pessimismo si confondono perennemente – a seconda del temperamento di ciascuno, delle circostanze, delle fortune e delle sfortune. 

Si prenda un qualsiasi dizionario filosofico. Con ogni probabilità, vi si ritroverà una definizione di pessimismo che, oltre a menzionare il filosofo del XIX secolo Arthur Schopenhauer, provvederà una delle tre seguenti definizioni: «L’idea per la quale questo mondo è il peggiore dei mondi possibili»; «L’idea che la vita non sia degna di essere vissuta»; o persino «L’idea che la non esistenza sia preferibile all’esistenza» (comunemente accompagnata dall’appendice: «vedi anche: ottimismo»). A mio parere, tuttavia, la definizione che più di ogni altra è in grado di cogliere l’essenza del pessimismo è offerta da un noto motto di spirito: «Vedo il bicchiere mezzo pieno, sì… ma di veleno».

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Il pessimismo tenta con tutte le forze di presentarsi sotto le mentite spoglie di un requiem dai toni profondi e sofferti, o di un tonante canto tibetano. E tuttavia, si lascia di frequente sfuggire qualche nota dissonante, al tempo stesso lamentosa e patetica. Di sovente, poi, la sua voce si incrina così bruscamente da ridurre le sue solenni parole a null’altro che un guazzabuglio di suoni gutturali. 

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Se riconosciamo il pessimismo non appena lo sentiamo, è proprio perché ci è già capitato di sentirlo in passato – e anche allora non ne avevamo alcun bisogno. La vita è già abbastanza dura così com’è. Ciò di cui abbiamo davvero bisogno è un nuovo modo di pensare, nuovi orizzonti, slittamenti di prospettiva… e magari anche di una bella tazza di caffè fumante.