Una delle prime cose che bisognerebbe raccontare alla gente sulla Cina è WeChat Pay. In molte parti del mondo ormai è normale pagare con il telefono. In Cina continentale, però, non è solo comune: è praticamente obbligatorio. Il contante, che ovunque si fa sempre più raro, è qualcosa che puoi passare anni senza nemmeno vedere. I negozianti non vogliono usarlo, nemmeno nei posti più piccoli e remoti. I ragazzi che fanno lavoretti senza prospettive, come quelli nei Seven Eleven, non hanno voglia di perdere tempo ad aprire la cassa per te. Sempre più spesso, i mendicanti per strada non ti agitano davanti agli occhi una tazza di metallo, ma ti mostrano un foglio plastificato con il QR code di WeChat Pay.
La prima volta che ho assistito a questa scena ho provato quello che si potrebbe chiamare uno shock da futuro. È una sensazione comune tra chi arriva per la prima volta in Cina: può essere davanti ai treni ad alta velocità, ai grattacieli, ai robot che servono ai tavoli nei ristoranti, alla comodità delle app per ordinare cibo o prenotare un taxi. Per me è stato proprio WeChat Pay a suscitare quella sensazione di essere catapultato nel futuro.

Una parte di questa reazione è sicuramente legata a un certo orientalismo, lo stesso che portò Napoleone, osservando la Cina da lontano, a definirla un “gigante addormentato” destinato a “scuotere il mondo”. C’è sempre una certa fascinazione per l’altro, soprattutto se distante. Ma c’è anche qualcosa, in quella percezione del futuro che si respira in Cina, che continua a colpirmi. È in questo senso che si può cogliere ancora oggi un tratto fondamentale del marxismo nella Repubblica Popolare: una visione del mondo intrisa di tecno-ottimismo radicato nella convinzione che la storia abbia un andamento progressivo.
Questa idea di “tecno-ottimismo”, naturalmente, non è esclusiva della Cina: è un fenomeno globale. In Occidente affonda le radici in una visione progressiva della storia che ha trovato il suo compimento simbolico nel 1991: con il raggiungimento della “fine della storia” teorizzata da Francis Fukuyama, cioè l’affermazione egemonica di un sistema liberale imperfetto ma sostanzialmente solido, il rovesciamento delle dittature marxiste da parte degli stati socialisti, e le classi medie dei paesi in via di sviluppo che diventano abbastanza mature da scrollarsi di dosso i tiranni anticomunisti del periodo della Guerra Fredda. La questione politica era dunque archivia, e – almeno nelle versioni più utopiche di questa narrazione – si immaginava che l’umanità sarebbe andata avanti, più o meno in armonia, verso livelli sempre più alti di prosperità. Una prosperità che si pensava strettamente legata al progresso tecnologico, come quello legato a internet.
Oggi, questo ottimismo sopravvive quasi solo nella Silicon Valley. Come per molti altri tipi di ottimismo occidentale, la crisi del 2008 ha lasciato il posto a una disillusione diffusa: i social media sembrano minacciare la democrazia, mentre le nuove tecnologie – come l’intelligenza artificiale, il fracking o le criptovalute – vengono associate sempre più a profitti, truffe, inganni, o comunque a nulla che abbia un reale beneficio per la collettività. Elon Musk sogna un’umanità che abbandona la Terra in rovina per trasferirsi su Marte – forse l’unico sogno “ottimista” rimasto.
La Cina è diversa. Non sempre in senso positivo. Nel 2019, lo scienziato He Jiankui è stato condannato a tre anni di carcere per esperimenti genetici su esseri umani, dopo aver modificato due embrioni per renderli immuni all’HIV. L’episodio ha suscitato un’ondata di polemiche in tutto il mondo – e sì, He è stato processato e condannato da un tribunale cinese. Ma solo a tre anni. Ora è libero, come hanno fatto notare con sarcasmo in molti su Twitter, e pubblica regolarmente contenuti in cui afferma che la cosiddetta etica non fa altro che frenare il progresso scientifico.
Fukuyama, in un’intervista del 2023, ha commentato così la vicenda:
“Una cosa che ho notato e percepito è che questo tipo di sviluppi [biotecnologici] accadranno in Asia molto prima che in Europa o negli Stati Uniti. Fondamentalmente è una questione culturale. Nei paesi con una tradizione cristiana c’è una dicotomia netta tra la natura umana e quella non umana. Si crede che Dio abbia conferito all’essere umano una dignità che la natura non umana non possiede… Nelle tradizioni culturali asiatiche, invece, questa dicotomia non esiste davvero. C’è una continuità tra natura e umanità, e la possibilità di intervenire sull’una si estende anche all’altra. In effetti, la Cina è stato il primo paese in cui è stato condotto un esperimento genetico su embrioni umani. Anche se poi è stato bloccato e il ricercatore punito, credo che in Europa e in Nord America ci saranno resistenze culturali molto più forti che in altre parti dell’Asia”
Anche qui, si può cogliere una certa dose di orientalismo nella sua visione delle “tradizioni culturali asiatiche”. Eppure non ha torto nel notare una differenza tra la Cina e l’Occidente. Solo che questa differenza non risiede tanto nella cultura, quanto nella percezione della storia.
Il liberalismo occidentale, che qui rappresenta per Fukuyama la base teorica, è un’ideologia che si definisce progressista – ma immagina il progresso solo come attuazione dei suoi principi cardine: libero mercato, diritti umani, democrazia rappresentativa. Una volta spuntati questi requisiti, non resta altro da fare. La tecnologia, in questo scenario, non ha più una direzione da seguire: viene introdotta, certo, ma senza più quel movimento totalizzante che la portava a insinuarsi ovunque, a sconsacrare “tutto ciò che è sacro”, come diceva Marx.
C’è chi spiega tutto questo con un problema di regolamentazione, ma è evidente – basta guardare Twitter, Facebook, le criptovalute – che non è tanto il fatto che regoliamo male la tecnologia: è che non crediamo più che possa portare da qualche parte. E per questo finisce col rafforzare lo status quo capitalistico.
In Cina, invece, persiste un’eredità intellettuale che affonda le radici in Mao, Stalin, Lenin e Marx. Mao fu il leader che, con il Grande Balzo in avanti e la Rivoluzione culturale, ipotizzò una sorta di “rincorsa” accelerazionista all’Occidente e postulò quella “grande confusione sotto il cielo” che avrebbe portato a un progresso rivoluzionario continuo. Ma in questo, non fece che elaborare quanto già aveva teorizzato Stalin, con i suoi piani quinquennali di sviluppo industriale su larga scala – a loro volta estensioni del pensiero di Lenin. Lenin, costretto dalle circostanze storiche ma anche guidato dalla propria visione, concepiva il socialismo come indissolubilmente legato al progresso tecnologico, anche se ottenuto a caro prezzo. Celebre la sua frase: «Il comunismo è il potere dei Soviet più l’elettrificazione di tutto il paese».
in Cina la tecnologia non serve a rattoppare le falle di uno status quo liberale imperfetto e immutabile. Serve invece come strumento per costruire una futura fase della storia
Anche questo affonda le sue radici in Marx, il cui disgusto morale per le devastazioni del capitalismo, espresso sia nel Capitale sia nel Manifesto, si accompagna a una certa inclinazione poetica da intellettuale e scrittore – un’ammirazione che, in qualche misura, resta indispensabile per comprendere davvero il processo storico: Marx, nel Capitale, paragona la trasformazione del lavoro in capitale a «un mostro vivente che si mette in moto, come se il suo corpo fosse animato dall’amore». In altre parole, fin dall’inizio il marxismo ha abbinato l’idea di uno stadio futuro di sviluppo democratico oltre il liberalismo a una miscela di repulsione e ammirazione nei confronti della tecnologia. È questo il “mostro animato” che costringe l’umanità ad attraversare le fasi della storia, fino all’emergere del proletariato e all’avvento del comunismo. Lenin, e poi Stalin, in condizioni di brutale guerra civile, hanno accentuato l’aspetto tecnologico rispetto a quello democratico, convinti che lo sviluppo tecnico sotto la guida del partito proletario – il Soviet – potesse offrire una versione più razionale dell’incubo gotico dello sviluppo capitalistico, spingendo così verso l’orizzonte comunista.
Il comunismo cinese – o socialismo con caratteristiche cinesi – porta avanti proprio questa eredità. Anche qui si parte dal presupposto che potere dei Soviet più tecnologia possano dar vita a un modello di sviluppo superiore in grado di accelerare la storia. «Introdurremo tecnologie avanzate per espandere le nostre forze produttive», diceva Deng Xiaoping nel 1978. «È ancora più conforme al nostro sistema socialista trovare il modo di ottenere risultati nello sviluppo che siano maggiori, migliori, più rapidi ed economici piuttosto che il contrario».
Questo richiamo al “maggiori, migliori, più rapidi” era un’eredità diretta di Mao, Stalin e Lenin. Ma l’innovazione di Deng fu quella di spingersi ancora oltre rispetto a quella logica da “basta che funzioni” adottato dai teorici comunisti precedenti, autorizzando di fatto qualunque misura: borse valori, investimenti esteri, relazioni di mercato e persino violazioni delle norme del partito, della legge cinese e della costituzione, purché tutto ciò servisse al raggiungimento di quel “maggiori, migliori, più rapidi”. In termini ufficiali, si parla delle Quattro Modernizzazioni, tappe che dovrebbero condurre alla Grande Rinascita della Nazione Cinese e, un giorno, anche se non lo si dice apertamente, verso il luminoso futuro del comunismo.
Cosa c’entrano dunque He Jiankui e WeChat Pay? Potrebbe sembrare una distinzione arbitraria, ma in Cina la tecnologia non serve a rattoppare le falle di uno status quo liberale imperfetto e immutabile. Serve invece come strumento per costruire una futura fase della storia – una fase che, per ragioni politiche, non può essere discussa apertamente. Di conseguenza, si finisce per considerare la tecnologia come un fine nobile in sé, da abbracciare con la stessa urgenza con cui Stalin abbracciò la pianificazione centrale negli anni Trenta: «Siamo indietro di cinquanta o cento anni rispetto ai paesi avanzati. Dobbiamo colmare questo divario in dieci anni. O ce la facciamo, o ci schiacceranno». Il timore di essere schiacciati, e insieme la tensione verso lo sviluppo: è questo impulso che ha guidato la Cina attraverso l’anarchia delle fasi maoiste e riformiste, e che resta vivo anche nella sua fase più stabile. Ed è un fatto significativo. Non sono WeChat Pay, i treni ad alta velocità o gli scintillanti skyline delle città cinesi a stupire in sé: è l’ambizione, l’urgenza, la dichiarazione d’intenti che li accompagna a colpire l’immaginario occidentale, a farci credere che il secolo cinese sia già cominciato. Ma secondo i principi teorici del Partito, non è così – e non lo sarà finché le “forze produttive” non saranno davvero mature.
È il sogno marxista-leninista del Novecento, ma senza le zavorre del modello centenario di pianificazione sovietica. E guardarlo mentre viene messo in pratica, tentare di comprenderne la scala, è davvero impressionante. Molti dei nostri esperti non riescono a cogliere la natura di questa scala – come sia nata e perché persista. Nella stessa intervista già citata, Fukuyama torna sulle classiche paure occidentali legate alla tecnologia – l’IA, la disinformazione online – per poi rivolgersi di nuovo alla Cina: «Sul tema del controllo totalitario» dice, «il sistema di credito sociale cinese rappresenta un nuovo livello di sorveglianza individuale reso possibile dal machine learning e dall’analisi su vasta scala dei dati. Con l’integrazione del monitoraggio COVID e del sistema generale di controllo sociale, la Cina oggi ha una conoscenza dettagliata degli spostamenti, delle interazioni sociali e persino delle conversazioni dei singoli individui».

Qui si insiste ancora su una visione astorica delle cose: il totalitarismo come esito negativo contrapposto all’esito positivo del liberalismo. È una visione che non coglie come la Cina concepisca questi sistemi di controllo sociale, spesso fraintesi come strumenti rigidi per imporre una sorta di “armonia” neoconfuciana. In realtà, essi – così come le “stretta autoritarie” dell’era Xi, ad esempio nei settori immobiliare e tecnologico – non sono altro che contrappesi alla corsa sfrenata allo sviluppo, che minaccia costantemente di oltrepassare i confini morali e politici. He Jiankui è stato arrestato; il vasto e turbolento settore tecnologico è stato regolamentato – certo, per il bene della nazione, ma anche in funzione di quella visione più grande a cui tutto è subordinato.
È proprio quella visione – il comunismo, in forma astratta, ma più in generale il progresso storico – a fornire la base tanto per lo sviluppo tecnologico più o meno accelerazionista quanto per la consueta tendenza alla regolamentazione, talvolta eccessiva, non solo della tecnologia ma delle vite e delle attività umane. Alcuni, in Occidente, provando lo stesso stupore che provai io la prima volta davanti a WeChat Pay, hanno iniziato a desiderare un tecnocratismo autoritario, l’emulazione delle grandi campagne di sviluppo condotte dalla Cina sotto il potere statale assoluto, “per il bene dell’Occidente”. Ma manca loro la chiave essenziale: senza una visione sottostante di progresso storico, senza la consapevolezza che il presente non è un punto d’arrivo, nulla di ciò che la Cina ha fatto dal 1949 in poi sarebbe stato possibile. Inclusi, curiosamente, anche i mendicanti con il QR code di WeChat Pay.