Siamo rovinate

Amicizia, capitale, eterosessualità e altri pesi sullo stomaco

La mia amica mi guarda e mi stringe la mano, so che sta per piangere perché l’ha già fatto altre volte. Mi dice che la scelta di andare a convivere in un’altra città con **** non si è rivelata piacevole come si aspettava. Che dividere la casa la drena, che non riesce a fare a meno di sentirsi oppressa; che le attenzioni costanti del partner, seppur dettate dall’apprensione nel vederla triste e nervosa, peggiorano la situazione; che le aspettative di condivere l’avventura di un nuovo inizio, altrove, stanno inesorabilmente naufragando di fronte alla sua urgenza di stare da sola, di conoscere nuove persone – e di farlo non “da coppia” (usa proprio questa espressione); che si sente in colpa perché l’idea di imbarcarsi in questa impresa è stata sua; che la sua famiglia la sta appoggiando economicamente, e non senza qualche sacrificio, e che questo aiuto la mette in una posizione difficile, con le spalle al muro; invece di gratitudine, prova fastidio; se invece di accogliere con inaspettato entusiasmo la sua timida richiesta di supporto i suoi genitori avessero espresso le loro legittime perplessità, mi dice, forse ci avrei davvero pensato due volte. 

Quando, mesi prima, la mia amica mi ha comunicato la decisione di trasferirsi con ****, ho ributtato dentro tutto. Non le ho detto che mi dispiaceva, che avrei sofferto, perché non volevo dare l’impressione di essere geloso, territoriale, di non essere in grado di gioire per qualcosa che evidentemente – e, aggiungo, ai tempi – sembrava renderla felice. Adesso, mentre mi tiene la mano e mi dice che non sa come fare, mantengo un profilo basso. Le dico di non farsi prendere dal panico, di valutare con serenità cosa le va di fare, di parlarne con ****, di tenere a mente che nessuna decisione è irreversibile, che decidere di fare il proverbiale passo indietro non comporta necessariamente una rottura. 

Quello che le vorrei dire è che mi manca, ma temo che esplicitarlo ora possa peggiorare il suo umore, o suonare recriminatorio. Mentre rimette le cose nella borsa mi dice che sono un amico prezioso, che per lei ci sono sempre, e che lo apprezza. Mi dice che di certe cose può parlare solo con me. Poi mi abbraccia forte e si allontana, il treno parte tra poco. Mi domando perché abbia usato quell’espressione, “per me ci sei sempre”. Sembrava davvero sincera, ma quella frase è così lontana dal vero che comincio a provare rabbia. Sempre. Cioè quella volta ogni due mesi in cui torna. Cioè quelle volte in cui mi chiama per chiedermi aiuto, perché le va di parlare. 

Il trasferirsi di pratiche e comportamenti propri dell’amicizia – come la condivisione quotidiana della vita corporea – verso il matrimonio va di pari passo con la crescente apprensione verso il desiderio omosessuale.

Nel 1982 Foucault afferma che “se c’è una cosa che mi interessa, oggi, è il problema dell’amicizia. [D]opo aver studiato la storia della sessualità, è necessario cercare di comprendere la storia dell’amicizia, o delle amicizie”. Questa indicazione, esplicita e poco nota, viene raccolta da Lorenzo Petrachi nel volume Rovine dell’amicizia (Orthothes, 2022) senza volontà di epigonismo o ortodossia nei confronti del filosofo. La perplessità che può nascere di fronte all’indicazione data da Foucault rientra appieno nella formulazione dei termini del problema. La peculiarità dell’oggetto indicato, la sua minore “serietà” se paragonato ad altri temi per cui il filosofo viene ricordato – la storia della sessualità e della follia, il sistema carcerario, il potere psichiatrico – dipende dal carattere disinteressato, libero dai vincoli imposti dalle brutture del potere, ludico e informale che viene spesso associato all’amicizia. 

Pur avendo bene in mente l’interesse di Foucault verso le tecniche del sé e il governo delle condotte, la scelta dell’amicizia come perno per condurre un’ “ontologia critica del presente” appare in qualche modo eccentrica. Cosa c’è da dire a proposito di un’isola felice? Non sarebbe più opportuno impiegare le energie e gli sforzi analitici verso questioni più gravi, che ci danneggiano con più platealità? Certo, anche per amicizia si può soffrire, ci si può sentire abbandonate e messe da parte, ma un’amicizia profonda non si distingue proprio dalla capacità di accettare gli scossoni che la vita impone, di adattarsi agli spazi e ai tempi disponibili, anche qualora diventassero risicati? I veri amici non sono quelli che, senza portarsi rancore e senza abbandonarsi a inutili recriminazioni per le lunghe assenze, riescono a sedersi a tavola e a stare bene insieme nonostante tutto?

Cominciamo, seguendo Petrachi, da Foucault, che discusse in più di un’occasione “l’idea dell’amicizia come modo di vita perlopiù in rapporto alle modalità di contestazione e d’invenzione messe in atto dalle comunità gay e dai singoli individui che, più o meno consapevolmente, si oppongono al dispositivo della sessualità e alla produzione eterosessuale delle forme relazionali”. Emerge qui una delle ipotesi euristiche cardine dell’argomentazione di Petrachi: che la produzione eterosessuale delle forme relazionali impatti in modo del tutto peculiare il campo di possibilità dell’esperienza amicale, prescrivendo limiti ed aspettative senza mai doverli esprimere direttamente. O, in altri termini, che tutto ciò che impariamo dell’amore abbia delle ricadute niente affatto accessorie sulle nostre amicizie; che una certa intensità amicale tipica dell’infanzia e della adolescenza debba spontaneamente risolversi in una maturità imperniata sulla coppia; che le richieste di aiuto materiale ed emotivo siano legittime e incoraggiate all’interno della coppia, ma che stonino se pronunciate all’interno del “libero gioco delle affinità” di cui si presume l’amicizia sia espressione. 

I progetti di vita comune, reverie adolescenziale, si rarefanno con l’età adulta, sbiadiscono insieme alla precedenza accordata ad altro – al lavoro, alla famiglia, all’amore. Il termine che sembra riassumere meglio siffatte amicizie è nonostante: il sentiero dell’amicizia è lastricato di proposizioni concessive.

Nei suoi ripetuti viaggi negli Stati Uniti Foucault ebbe modo di osservare da vicino e di partecipare alla vita di comunità – movimenti gay e lesbici radicali, sottocultura leather e BDSM – che “fornivano stili di vita alternativi incentrati su esperienze collettive irriducibili all’unità della coppia eterosessuale e spesso in aperto contrasto con essa”. I movimenti radicali non avevano ancora, a quel tempo, dovuto fare i conti con la forte spinta assimilazionista che avrebbe attraversato il discorso pubblico a partire dagli anni ottanta, di cui si cominciavano ad avvertire le prime avvisaglie proprio mentre Foucault si esprimeva con entusiasmo a proposito dell’anonimato delle saune gay. Basti pensare a questo proposito all’onda di indignazione a cui molte associazioni omosessuali diedero avvio a seguito dell’uscita nei cinema di Crusing, nel 1980, film considerato osceno e lesivo per l’immagine e l’integrazione degli omossesuali nel tessuto civile rispettabile, in quanto rappresentava con realismo la scena S/M gay newyorkese.

Nella formulazione dei termini della questione non possiamo farci guidare da ciò che sappiamo oggi riguardo all’amicizia, né dalla presunzione che il nostro panorama emotivo sia tutto sommato analogo a quello passato: già prender per buono uno degli assunti più pacifici riguardo al rapporto amicale, ovvero che escluda per costituzione il sesso e che un certo grado di intimità fisica abbia il potere di snaturarla, trasformardola in qualcos’altro (tendenzialmente, qualcosa “di più”), porterebbe fuori strada. Petrachi analizza infatti esempi di “culture monosessuali ed erotiche irriducibili tanto alla proibizione quanto all’atto sessuale in sé”, vale a dire di culture – come quelle di alcune comunità monastiche medievali – che prevedevano rapporti affettivi intensi in cui l’elemento sessuale, anche se presente, non possedeva tutta questa rilevanza. 

In questo senso le parole di Lillian Faderman, su cui Petrachi si sofferma, che definiscono lo sforzo di delineare una precisa distinzione storica tra amicizia e amore come intrinsecamente fallimentare, risultano programmatiche. Se si presupponesse ancora, in consonanza con la situazione attuale, che l’amicizia abbia sempre mancato di riconoscimento pubblico, si andrebbe incontro, ad esempio, al fatto che almeno fra l’XI e il XVII secolo le amicizie erano suggellate da cerimonie formali dotate di grande rilevanza sociale, attraverso le quali uomini accettavano di farsi carico degli oneri e degli impegni, anche economici, che dall’unione derivavano. Queste unioni prevedevano un grado di prossimità fisica e di gestione della vita quotidiana che ci pare stridere con l’istituzione matrimoniale, che consideriamo evidentemente immutata nei secoli: gli amici mangiavano, bevevano, dormivano insieme.

Da una considerazione pubblica dell’amicizia, dalla sua pervasività nelle pratiche che regolavano i rapporti tra uomini, si giunge a un nuovo assetto, in cui l’amicizia comincia a essere prodotta indirettamente come dispositivo residuale che dipende, fra le altre cose, dall’ampio processo di “matrimonializzazione” della società che con la controriforma investe il legame matrimoniale di nuove e inedite attenzioni, processo che genera una svalutazione di tutti i legami esterni al matrimonio e un sospetto nei confronti di espressioni di intimità e prossimità che prima rientravano appieno nella considerazione sociale dell’amicizia. In questo senso, il trasferirsi di pratiche e comportamenti propri dell’amicizia – come la condivisione quotidiana della vita corporea – verso il matrimonio va di pari passo con la crescente apprensione verso il desiderio omosessuale.

La torsione adattativa dell’amicizia, che dovrà più o meno silenziosamente trovar posto nel nuovo orizzonte relazionale, che dovrà andare incontro a un sostanziale ridimensionamento della sua intensità e mantenere, per poter essere accettata, una postura di disinteresse e gratuità, al limite di supporto in caso di necessità, è rinvenibile quando si giunge a considerare la situazione attuale. Quella ritrosia, quella paura di risultare invadenti, quel farsi indietro delle amiche a fronte di una relazione romantica rimarca il confine che, in amicizia, separa ciò che è legittimo e sano da un malfunzionamento amicale, un’incapacità di provare “amicizia vera”. Espressione che, in ultima istanza, sta a indicare la volontà di retrocedere di fronte a relazioni che le amiche vivono con qualcun* altr*. 

L’immagine del giovane testimone raggiante che assiste alla destra dell’altare, facendosi letteralmente da parte, che suggella con una firma l’unione matrimoniale che porterà l’amico all’adempimento di nuovi obblighi nei confronti di qualcun altro è un tropo con cui tutte abbiamo familiarità, che si tratti di commedie romantiche o di epopee sentimentali. Similmente, le narrazioni che seguono la parabola dell’amicizia-che-dura-una-vita (da Narciso e Boccadoro ai più recenti L’amica geniale e Le otto montagne gli esempi non mancano) magnificano l’amicizia nella misura in cui essa riesce a sopravvivere agli scossoni di esistenze che non prevedono la presenza effettiva e quotidiana dell’amic*, esistenze scandite da incontri sporadici che fungono da bilanci. Amicizia quindi come contrappunto, come misura di quanto si è cambiate, come misura di quanto in fondo si è rimaste uguali, come cognizione di ciò che si è tradito e come nostalgia dell’intensità di un rapporto che non poteva sopravvivere intatto ai decenni. I progetti di vita comune, reverie adolescenziale, si rarefanno con l’età adulta, sbiadiscono insieme alla precedenza accordata ad altro – al lavoro, alla famiglia, all’amore. Il termine che sembra riassumere meglio siffatte amicizie è nonostante: il sentiero dell’amicizia è lastricato di proposizioni concessive.

Una certa intensità sembra accettata solo nell’infanzia o nell’adolescenza: le formidabili amicizie dei bambini e delle ragazze commuovono per la loro precarietà. L’età adulta richiamerà all’ordine, al ristabilirsi delle priorità.

Ucronia: cosa sarebbe successo se i tragici buontemponi di Amici miei, invece di irrancidire a fianco di compagne disprezzate, avessero messo su casa insieme? D’altronde è proprio uno dei protagonisti, al culmine dell’eccitazione per uno scherzo particolarmente riuscito, a urlare la fatidica domanda “Ragazzi, come si sta bene fra noi, fra uomini! Ma perché non siamo nati tutti finocchi”? Questa frase, gridata con candore nella concitazione dello scherzo condiviso, non allude all’omosessualità come orientamento, non si riferisce a un desiderio inmpronunciabile, latente, ma sembra piuttosto indicare la desiderabilità di un foucaltiano modo di vita gay, fondato sulla condivisione e su presupposti che esulano dalla strettoia della coppia eterosessuale. E ancora, se Thelma e Louise avessero intravisto la possibilità – concreta, materiale, imminente – di condividere la vita, chi sarebbe finito nel burrone? Probabilmente non loro.

La residualità dell’amicizia, l’incompatibilità di quest’ultima con un certo grado di investimento emotivo e di cura quotidiana, risulta evidente se si guarda ad un altro tropo ricorrente: l’amicizia fuori posto, che oltrepassa il limite del consentito, l’amicizia sospettosamente tenace, che si rivela, spesso dopo anni, qualcosa di diverso, qualcosa di più: amore. Film come Giovani carini e disoccupati, One day, Forrest Gump, Harry ti presento Sally, La solitudine dei numeri primi, Dieci inverni, sono accomunati dal fatto che i protagonisti, dopo aver sputato sangue nella gestione di un rapporto anomalo, decidono di mettersi insieme. Ci si amava, per questo si desiderava quel grado di prossimità, per questo si bramava la presenza costante dell’altro. La vita comune può finalmente realizzarsi, perché si scopre che si trattava di altro, si trattava di amore. 

Una certa intensità sembra accettata solo nell’infanzia o nell’adolescenza: le formidabili amicizie dei bambini e delle ragazze commuovono per la loro precarietà. L’età adulta richiamerà all’ordine, al ristabilirsi delle priorità, e le amicizie vere sapranno accettare ridimensionamenti drastici, sapranno trarre il meglio dai più o meno sporadici ritrovamenti, che siano incontri settimanali fra amici o amiche – che i partner e le partner non possessiv* accetteranno di buon grado in quanto indice di un rapporto sano, non asfissiante – o che siano abbracci ad alta intensità emotiva con cui ci si riacchiappa dopo lungo tempo.

L’invito a rovinare questa esperienza di amicizia, espressione di un’organizzazione sociale e sentimentale iniqua, perde quindi il suo carattere controintuitivo: che senso avrebbe mai, ci si potrebbe domandare, rovinare qualcosa che viene universalmente riconosciuto come importante, addirittura prezioso, come l’amicizia? Rovinare l’amicizia significa rifiutarne la sua residualità, lacerare i limiti angusti entro cui tale esperienza è stata sommessamente confinata. Fare ciò significa rigettare un’organizzazione della vita e degli effetti estrememente materiale, in cui la gestione del tempo, le modalità del lavoro, i modi dell’abitare risentono degli effetti del neoliberismo e del modo di produzione eterosessuale – intendendo con quest’ultimo, seguendo la definizione data dal filosofo Federico Zappino nel suo Comunismo queer, la razionalità che presiede alla produzione binaria dei generi e che prescrive loro complementarietà, informando l’assetto complessivo e diseguale delle relazioni sociali.

Con ciò, Lorenzo Petrachi si ricollega al lavoro compiuto da realtà transfemministe contemporanee come il Laboratorio Smaschieramenti o il Sommovimento Nazioanale, confluito recentemente nell’assemblea Stati Genderali, che da anni mirano a sovvertire la presunzione che chi vive al di fuori della coppia o della famiglia tradizione sia destinato a condurre un’esistenza solitaria. Sotto l’espressione “altre intimità” – centro nevralgico del lavoro di autoinchiesta collettivo portato avanti dal Laboratorio Smaschieramenti e raccolto nel volume Tenetevi il matrimonio e dateci la dote di Leo Acquistapace – confluiscono infatti tutte quelle forme relazionali che, al di sotto della soglia di intelligibilità e di riconoscimento sociale e istituzionale, innervano le nostre vite. A queste relazioni e al loro legame con la precarietà lavorativa e con il lavoro riproduttivo sono dedicati una serie di incontri di discussione e condivisione che hanno avuto e stanno tuttora avendo luogo a Bologna, per cui si è scelto l’eloquente nome Materiale intimo (e a cui il titolo e il contenuto di questo pezzo è intimamente debitore).

Roviniamo le nostre amicizie, quindi: facciamolo a favore di altre intimità, aggraviamo le crepe già presenti fino a compromettere la tenuta della struttura nel suo complesso. Facciamolo non in ossequio a un qualche ideale di negatività queer, ma per non finire (o rimanere) rovinate.