Selfie dalla quarantena

Noia, bulimia social e nostalgia della «libertà»: testimonianze dal nulla della reclusione pandemica

La versione in inglese di questo articolo è stata originariamente ospitata sul sito dell’Institute of Network Cultures. Traduzione in italiano di Elena Santoro.

Il 5 marzo 2020, il governo italiano ha ordinato di chiudere tutte le scuole. Qualche giorno dopo, ormai un mese fa (anche se sembrano secoli), tutte le città italiane sono state chiuse, e tutti noi costretti a stare in quarantena forzata in risposta all’emergenza Coronavirus. Niente più uscite, passeggiate, attività all’aria aperta, ad eccezione della spesa strettamente necessaria. Anche io, in questa situazione straordinaria, ho dovuto adattare la mia vita personale e professionale. 

Una delle classi in cui insegno alla John Cabot University, un college americano di arti liberali nel cuore di Roma, si chiama «Selfies and Beyond: Exploring Networked Identities». 

Prima della quarantena, insieme alle mie studentesse, scrivevamo autoetnografie per esplorare le nostre vite digitali. Considerato il distanziamento sociale forzato, e dato che ora molte di loro sono oltreoceano negli Stati Uniti, ci è venuta l’idea di spostare le loro autoetnografie, che prima inviavano solo a me privatamente, in una piattaforma online pubblica dove tutti possono vedere, leggere, e commentare quello che scrivono.

Nelle prossime settimane tratterò di teoria critica che riflette sulla nostra identità digitale e sul capitalismo emotivo, analizzando i pensieri di Benjamin, Baudrillard, Žižek e Illouz. Ho chiesto alle mie studentesse di leggere le teorie alla luce della situazione attuale, interpretandole dalla prospettiva della loro vita digitale quotidiana in quarantena.  

Questa serie assembla le loro e le mie riflessioni, ansie, sporadiche gioie o forse soddisfazioni temporanee che incontriamo quando condividiamo i nostri pensieri e, qualche volta, qualche risata digitale. Per questa serie ho deciso di utilizzare uno stile grezzo, approssimativo e irregolare. È una bozza, una «brutta copia».. .è l’estetica del frammento. In un periodo in cui siamo tutti col fiato sospeso, non riesco a immaginare qualcosa di finito, con una struttura pulita e chiara. Finché le nostre vite sono in attesa, lasciamo che la nostra scrittura sia una bozza permanente. Già tratteniamo il fiato, a questo punto tratteniamo anche i nostri pensieri. Congeliamo la costanza, la certezza e al loro posto postiamo bozze. Almeno finché non si riaprirà il sipario. Questa è l’estetica ma anche l’etica del frammento.

I giudizi permanenti sono sospesi, le analisi definitive sono in attesa. Tutto fiorirà dalla fragilità del frammento, dallo stile incerto della bozza; senza un rigore, come i fili d’erba stanno ora crescendo dalle crepe del pavimento della città.

Primo episodio
NOIA, TRISTEZZA, APATIA

In collaborazione con: Danielle, Shaina, Briana, Jackie, Marta, Gabriella, Sydney, Natalia, Elena e Sophia.

Materiale di studio di questa settimana: estratti di Sad by Design di Geert Lovink, la visione della conferenza di Geert Lovink alla John Cabot University, e l’analisi del quadro di Edouard Manet Il bar delle Folies-Bergère.

Abbiamo preso come spunti di riflessione le seguenti citazioni:

«Emotion is a luxury, right? To be angry is a luxury. We don’t have that luxury right now. Let’s just deal with the facts, let’s just get through it.» Andrew Cuomo, Governor of New York

 «There wasn’t any anger involved (I think). I mean, what was I supposed to be angry with? What I was feeling was a fundamental numbness. The numbness your heart automatically activates to lessen the awful pain when you want somebody desperately and they reject you. A kind of emotional morphine.» Haruki Murakami, Killing Commendatore

 «I lean to you, numb as a fossil. Tell me I’m here.» Sylvia Plath, The Collected Poems

SOCIAL DISTANCING IS THE NEW BLACK

I social media ci aiutano a sopportare questo forzato distanziamento sociale o sono l’ennesimo strumento per manipolarci e farci credere che alla fine ci abitueremo a «vedere», «guardare» e persino «sentire» l’altro tramite uno schermo?

Marta scrive: «A quanto pare, questo virus ci ha privato della nostra vita sociale… e se non fosse davvero così? La verità è che i social media ci hanno privato delle nostre interazioni fisiche molto prima dell’esistenza del Coronavirus. Credo che la diminuzione di interazioni sociali e l’uso sempre più spasmodico dei social media non siano una novità né che siano causate da disastri naturali: siamo noi gli unici colpevoli. La maggioranza addirittura usa questa calamità come scusa. Se pensate che il Coronavirus sia il motivo per cui non potete staccarvi dal vostro telefono, o mentite a voi stessi o rifiutate di vedere la realtà… Ciò che più mi spaventa è che ci stiamo adattando all’isolamento sociale. Anche quando saremo liberi di uscire preferiremo stare a casa con i nostri telefoni. Cosa ci rende apatici? Adattarsi al distanziamento sociale o l’uso spasmodico dei social media?»

SINFONIA DA UN ACQUARIO

Simulare le interazioni. È questa la nostra fine? Osservare le nostre vite da un acquario, e prendersi costantemente cura del pesce rosso al suo interno… che in fin dei conti saremmo noi? 

Natalia ci riporta un suo episodio onirico: «Dopo aver dormito tutto il pomeriggio, mi sono svegliata con un lieve mal di testa e mi sono spostata in un’altra stanza. Dopo un po’ sono andata su Instagram, solo per notare – oh, la magia delle coincidenze – che un mio amico stava facendo una diretta. “Magari starà suonando il piano in diretta”, avrei potuto pensare anche se l’arco di tempo di un click è troppo breve per pensare una frase del genere. Ebbene sì, stava davvero suonando il piano e mi sono messa ad ascoltarlo. Lui, accortosi di me, si è messo a suonare una delle mie canzoni preferite… ero così felice. Ma poi è sparito. Il mio amico è tornato alla sua vita, ed io ero ancora nella mia camera da letto con il mal di testa, priva di forza di volontà ed energie. Come se il nostro incontro non fosse mai esistito, come se fosse solo un sogno senza nessuna influenza sulla realtà. Normalmente dopo essersi svegliati da un sogno ci si sente meglio… quasi felici. Io però non avevo sognato, né mi ero svegliata, e nonostante ciò ero triste. È come se le nostre interazioni e la nostra vita sociale fossero una delusione innocente, un’allucinazione innocua.»

ORA SONO COME TUTTI GLI ALTRI

Una situazione di crisi ci rende più umani? Una crisi è un momento collettivo di unità, condivisione di ansia e dolore… O è solo l’ennesima occasione per gridare al mondo: «ehi guardatemi tutti, sono vivo!»? A questo ci siamo ridotti? Gridiamo dalla finestra in cerca di attenzioni per fuggire dalla noia? 

Sydney ammette: «La quarantena non è più entusiasmante. All’inizio più o meno lo era, quando avevo solo tre giorni per fuggire dall’Italia. Era come vivere in un film senza copione e mi dava uno scopo. Anche tornare a casa prima di tutti gli altri sembrava parte dell’avventura. Mi sentivo pericolosa per gli altri a uscire. Molti mi chiedevano come stessi, ma ora è la routine di tutti. Niente di tutto ciò è entusiasmante ormai. Ora che tutti sono forzati a rimanere a casa, non sento più quella sensazione di paura mista ad adrenalina. All’inizio era anche bello sentirsi dire come il nostro sacrificio aiutasse nel piccolo a risolvere la situazione, ma ora è un dovere di tutti. Niente più adrenalina, solo noia. È deprimente non ricevere costantemente stimoli. Non mi sento più una soldatessa americana che lotta contro il Coronavirus e fugge dall’Italia. Sono solo una cittadina che passa le ore al telefono, guarda la stessa serie tv che tutti guardano e si lamenta sempre delle stesse cose. Quelli che un tempo erano i miei entusiasmanti “racconti di guerra” sui social media, ora sono la storia di tutti. La mia voce si unisce a quella degli altri e il mio corpo diventa apatico.»

Elena fa notare: «Tutti postano storie su Instagram per dimostrare che la loro vita è interessante. Ammetto che anche io sto facendo di tutto per mantenere interessante la mia vita online, anche durante questi giorni noiosi. Posto dozzine di meme, video di TikTok… mi metto persino a raccontare aneddoti divertenti del mio passato pur di intrattenere i miei followers. Ma, PERCHÉ? A chi importa? Lo sanno tutti che mi annoio anche se faccio l’impossibile per nasconderlo. La noia “digitale” è molto diversa da quella, passatemi il termine, “reale”: quando mi annoio nella vita “reale” non grido dalla finestra “guardatemi tutti, sono interessante”. Come spiega Lovink, il design dei social media produce diverse emozioni. Noi siamo tristi “per design” se non riceviamo tanti like perché non ci sentiamo apprezzati. Siamo ansiosi “per design” se vediamo che gli altri vivono una vita migliore della nostra e sono più attraenti di noi. Siamo felici “per design” quando riceviamo delle notifiche perché ci fanno sentire importanti e desiderati. È il design dei social media che decide come ci dobbiamo sentire, noi siamo impotenti.»

«Questa sono io con i miei amici al Romics nel 2015. Avevamo, per così dire, assegnato una personalità ad ogni social media: Tumblr è depresso, WhatsApp è sportivo (perché sempre attivo), Facebook è amichevole, eccetera. Ora che ho capito che sono i social media a decidere come ci sentiamo e non viceversa, trovo questa foto altamente ironica.» (Elena)

CERCARE DISPERATAMENTE L’«ANTI-EXPERIENCE»

Ci sarà mai un istante nella nostra ricerca disperata di intensità in cui aspiriamo a un po’ di sana piattezza, di completo nulla, un momento in cui desideriamo un «non-evento»?

Gabriella: «Ogni volta che siamo online, arriva quel momento in cui sentiamo il bisogno di smettere la nostra ricerca insistente di nuovi stimoli (ciò che Žižek chiama “happy accident”). In quel preciso momento necessitiamo la cosiddetta “anti-experience”, per placare e rendere più sopportabili le aspettative deluse che viviamo online.»

LA LASAGNA È ENTUSIASMANTE?

Cos’è la noia esattamente? Assenza di significato o assenza di eventi? È navigando online che possiamo scappare dalla noia e ritrovare questo significato perduto? 

Jackie scrive: «Mi sono accorta che mi manca la Wii nonostante io abbia la Playstation – perché non riesco a essere soddisfatta con ciò che già possiedo? Perché ci manca la felicità del nostro passato? Penso che questo discorso sia correlato alla possibilità perenne di ricercare eventi significativi quando ci annoiamo… Come rivedere una serie tv orribile che anni fa mi entusiasmava… ogni volta che ci annoiamo ripensiamo a quei momenti entusiasmanti del passato, pensando che riviverli sia forse l’unico modo per prevenire la noia. Per esempio, lunedì ho ignorato la lista infinita di cose da fare e ho cucinato una lasagna ricchissima con tre tipi di carne e quattro tipi di formaggio. Cucinare una lasagna mi avrebbe dovuto occupare tutto il giorno. Nonostante avessi sempre voluto cucinarla, non riuscivo a smettere di pensare a quando avrei finito così da stare alla larga dal forno e stare al telefono spensierata.  

Cucinare la lasagna non è stato così entusiasmante… è stato solo un disperato tentativo di distrarmi dalla noia facendo qualcosa di diverso. A tal proposito mi viene in mente una citazione di uno dei primi Guardiani della Galassia ovvero che noi “siamo troppo di fretta per capire la differenza tra qualcosa di stupido e il completo nulla”. Ma perché poi? Quando Lovink parla di tristezza e di noia mi incoraggia. Essere “ossessionata dall’attesa” sembra un vero campanello d’allarme perché anche quando facciamo qualcosa per cui non serve internet, siamo comunque tormentati dalla voglia di usarlo. Perché devo leggere un libro quando posso leggere i post degli altri? Perché non sto soddisfacendo il mio desiderio di usare internet in questo preciso istante? Mentre Lovink parla della tristezza creata dal design di internet, io penso sarebbe ancora più interessante discutere della tristezza causata dall’assenza di internet. Cavolo se sono sofisticata.»

Sophia aggiunge: «Mi sono resa conto che da una settimana a questa parte mi sono stufata dell’eccessiva quantità di contenuti online, al punto da sentirmi frustrata e interrompere video e film senza vedere come finiscono. Baudrillard non potrebbe essere più appropriato: se le informazioni sono troppe diventano insignificanti e noiose.»

IL BAR DELLE FOLIES-BERGÈRE E LE NOSTRE PASSEGGIATE SENZA SCOPO NEI SOCIAL MEDIA 

Natalia prova a interpretare Manet con gli occhi dei nostri tempi dove la realtà e la frustrazione sociale sono egemoniche. 

«Riguardando la figura femminile, si potrebbe giungere a conclusioni perfettamente pertinenti alla realtà odierna dei social media. Consideriamo un/a qualsiasi utente di un social media e compariamolo/a alla donna del dipinto di Manet. Entrambi sono alienati dalla situazione sociale in cui vivono. Online ci sentiamo alienati dalla socialità dell’incontro digitale, conseguenza della situazione online di cui ormai facciamo parte.

La donna dovrebbe far finta di divertirsi come gli altri, ma la sua noia la fa sprofondare. Allo stesso tempo ha scelto e non ha scelto di essere lì. L’utente di un social media potrebbe scegliere di non vivere questa socialità digitale? La sua scelta di farne parte è stata veramente volontaria? Per quanto tempo ancora possiamo fuggire dalla pressione di far finta di divertirci quando in realtà siamo tristi e alienati? 

Sembra che mentre tutti gli altri se la spassano, loro (la donna/l’utente) non ci riescano. Gli altri, però, sono esattamente come loro: alienati e annoiati vanno sempre allo stesso “posto” alla ricerca dell’entusiasmo insignificante del cosiddetto “happy accident”. Nient’altro che “un’abitudine” o forse non hanno altra scelta? La donna guarda gli spettatori negli occhi, esattamente come ogni utente sui social media guarda lo schermo del telefono o del computer. Questa riflessione non fa altro che peggiorare questa tristezza e alienazione, figlie di un’individualità narcisista, soprattutto sui social media. La donna nutre questi suoi sentimenti, lasciando che la noia si veda sul suo volto per dimostrare che la sua scelta prevale sulla sua individualità. Anche se… c’è davvero ancora qualcuno con un briciolo di scelta qui?

Guardate dietro di lei, nell’angolo destro. Sta in piedi di fronte allo specchio, nonostante il suo riflesso sia contorto in modo da poterla vedere da un angolo. All’improvviso ci si accorge di un uomo – bianco, occidentale, sano, relativamente giovane e probabilmente ricco. Ora chiedetevi: chi possiede Facebook (insieme ad Instagram e WhatsApp), Amazon, Google, Twitter…? Esatto.

Esattamente come quella donna, l’utente dei social media produce manodopera esibizionista per gli altri utenti che sono ugualmente alienati e tristi. Alla fine, però, chi ne trae vantaggio e ha il controllo sono proprio quei due uomini. La manodopera della donna non è una sua scelta libera, basata su regole stabilite da lei. Lei sta in piedi dietro a un bar e fa parte di un meccanismo più grande di lei, che sfrutta e commercializza il suo corpo (e anima). Allo stesso modo gli utenti sui social media producono manodopera per coloro che dettano le regole e mercificano le nostre emozioni e la nostra socialità. Invece di prostituirsi, l’utente sui social media fa sempre circolare nuovi contenuti, postando, interagendo e producendo data. In fin dei conti non è anche questa una forma di prostituzione?»

IL CADAVERE SOCIALE ANCHE DETTO CORPO SOCIALE

Passeggio nelle strade vuote della città. Non per noia, ma per desiderio. 

Desiderio di rianimare il cadavere che giace di fronte a me, di fronte a tutti. 

Prima conosciuto come «corpo sociale», ora è diventato un cadavere sociale. 

Questa nostra libertà appena scoperta giace in questa struttura trasparente, in questo movimento silenzioso simile a quello dei fantasmi, in questa assenza di tatto, sudore, baci… in questo vuoto totale?

Respirazione bocca a bocca, pronto soccorso per il corpo sociale prima che si trasformi in una vita senza organi.

«Quando gli avrete fatto un corpo senza organi, lo avrete allora liberato da tutti i suoi automatismi e reso alla sua autentica libertà.» Antonin Artaud (1947)

Come mi ha ridotta una vita senza libertà

PROLOGO. UNA LETTERA D’AMORE ALLA LIBERTÀ

Chiudiamo questo primo episodio con una lettera d’amore scritta da Elena:

«La Libertà mi ha lasciata più di un mese fa ormai. Eravamo una bellissima coppia, stavamo insieme da circa 20 anni. Non riesco proprio a superare questa rottura, ad andare avanti senza di lei. Mi manca così tanto, aveva un’anima così profonda e pura. La penso tutti i giorni. La Libertà era molto di più di una fidanzata, era la mia più grande fonte di gioia. Io e lei eravamo in una relazione aperta con moltissime altre persone che come me la amano. Forse ero un pochino gelosa che non fosse solo mia. E se mi avesse lasciata perché stanca della mia gelosia? No, penso di conoscere il vero motivo: io, la Libertà, non me la meritavo affatto. Lei mi dava il mondo e io la davo per scontata. Non sento neanche di avere il diritto di lamentarmi perché la Libertà ha lasciato tante persone di recente. È vero che si soffre meno quando qualcosa di orribile succede a tante persone? È vero il detto “mal comune mezzo gaudio”? Dubito altamente.

Volete sapere una curiosità sulla Libertà? Ha due soprannomi: Chi la ama la chiama “Libera”, chi invece è solo attratto dalla sua bellezza, per così dire, materiale la chiama “Gratis”. Stupidi ingrati… la Libertà è molto più importante di una merce capitalistica ma c’è chi fa confusione. Se solo potessi tornare indietro. 

Sono bloccata in un vortice all’apparenza infinito, colmo di apatia e incertezze. Quando si fermeranno queste dannate montagne russe di apatia? Quando tornerà la Libertà da me? E tornerà mai o se n’è andata via per sempre? Non voglio neanche pensare a un orrore simile. Mi tornano alla mente quei giorni in cui eravamo ancora fidanzate e mi era permesso andare a casa dei miei amici, alle feste, al cinema, a visitare la mia dolce nonna… Bei tempi. Non l’ho mai ringraziata. L’ho usata come un oggetto. Libertà, se mai leggerai questa lettera, ti prego perdonami. Sei e sempre sarai il più grande amore della mia vita. Mi manchi. Ti amo come un carcerato ama il primo soffio di vento fuori dalla galera. Non ce la faccio più a vivere questa apatia. Ti prego torna da me.

Per sempre tua, Elena»

Donatella Della Ratta insegna Comunicazione presso la John Cabot University di Roma. È specializzata in media, arte e culture dei paesi arabi e per cinque anni è stata a capo della community araba di Creative Commons. È fondatrice e board member del portale SyriaUntold e ha pubblicato Shooting a Revolution: Visual Media and Warfare in Syria (Pluto Press 2018).