Sangue, morte e necrocapitalismo

Dalla frontiera del narco-Stato messicano ai corpi smembrati del resto del mondo, dai mostri delle leggende medievali ai femminicidi di Ciudad Juárez: intervista a Sayak Valencia, autrice di Capitalismo Gore

Ochy Curiel, Francesca Gargallo, Julieta Paredes, Rita Segato (ma anche i collettivi Mujeres Creando, Las Chinchetas, Lesbianas Feministas en Colectiva, Mujeres Rebeldes, Brecha Lésbica). Cito in ordine sparso e senza alcuna pretesa di esaustività alcune delle femministe latinoamericane che, nell’ultimo decennio, hanno prodotto un pensiero anti-egemonico, sovversivo e sempre fortemente situato nel luogo d’enunciazione, invertendo così la direzione con cui di solito avviene la circolazione del sapere teorico-filosofico: dal Nord ai Sud del mondo. Sayak Valencia, studiosa, poeta, performer queer e attivista transfemminista di Tijuana, si inserisce in questa costellazione di voci dissidenti da una prospettiva di confine.

Proveniente da una delle frontiere più calde del mondo occidentale, quella tra il Messico e gli Stati Uniti, dove il progetto del neoliberismo globale esibisce le proprie incrinature, i propri mostruosi effetti collaterali, in Capitalismo gore Valencia fonde pensiero teorico e parola poetica per raccontare l’ascesa distopica della Narco-nazione, in cui la violenza machista e patriarcale diventa una paradossale forma di impoteramento per i soggetti cosiddetti “subalterni”. Nella sua lettura, tutti siamo responsabili della perpetuazione del capitalismo sempre più estremo, immorale e sanguinario evocato nel titolo, che corre lungo le frontiere, e non solo, di tutti i Sud del mondo.

Anna Boccuti: C’è stato un detonatore all’origine della scrittura di Capitalismo Gore? Che cosa ti ha ispirato e convinto della necessità di questo libro e chi sono le persone con cui ne hai condiviso la genesi?
Sayak Valencia: Sono nata e cresciuta a Tijuana, dove la violenza è talmente all’ordine del giorno da essere normale. Poi sono andata a studiare in Europa, e con la distanza sono divenuta sempre più cosciente del fatto che il capitalismo nei paesi ex colonie come il mio continua ad alimentarsi di sangue, attraverso l’esproprio dei nostri territori e la distruzione e l’omicidio di massa di persone in diversi mercati cruenti. Nel 2006, in piena guerra contro il narcotraffico in Messico, tornai a Tijuana per far visita alla mia famiglia e, mentre guidavo, sull’autostrada vidi cadere da un pick up stile gangster un sacco di plastica nera, come quelli della spazzatura, però dentro non c’era spazzatura, ma il torso di un ragazzo, squartato, che conservava ancora la testa. Quel morto mi trafisse, e il libro è un modo di parlare di questi omicidi come una forma di produzione di necrovalore che si converte in denaro. È anche un tentativo di dare dignità e accompagnare quel giovane sconosciuto che mi ha cambiato la vita.

Il libro è dedicato alle persone che con la loro resistenza trasformano micropoliticamente il nostro mondo di fronte all’assedio del capitalismo gore. Io considero e riconosco tutto il pensiero come collettivo, so che non pensiamo solз e che pensiamo da una posizione geopolitica e storica.

Definisci il capitalismo gore come il lato b della globalizzazione, il prezzo che il Sud del mondo paga per prendere parte al gioco del capitalismo neoliberista, spinto alle sue conseguenze estreme, tanto che a diventare fonte di profitto sono lo sfruttamento violento dei corpi e la spettacolarizzazione di questa violenza sfrenata, come nei film gore, appunto. Decostruisci dunque il mito della globalizzazione, ma al tempo stesso ci dici – e ci mostri – che siamo interconnessi, perché questa violenza si ripercuote a livello transnazionale ed è sua volta determinata da un mercato gore globale, nel quale sono le merci e non le persone a poter circolare liberamente. Quanto è stretto il nodo tra globalizzazione e necropolitica?
L’interconnessione tra globalizzazione e necropolitica è in atto da secoli. Dalla prospettiva decoloniale è evidente che la globalizzazione non è cominciata negli anni Ottanta del ventesimo secolo, ma, almeno in America Latina e in Brasile, risale all’epoca della conquista coloniale. In questo senso i processi necropolitici mi sembrano costitutivi, dato che, come sappiamo, lo sterminio delle popolazioni originarie dei territori delle Americhe fu la conditio sine qua non dell’espansione coloniale e del saccheggio economico e territoriale che comportò. La necropolitica, quindi, è il metodo d’azione per far sì che la globalizzazione come impresa predatrice continui a espandersi in diversi modi in tutto il mondo, non solo nelle ex colonie.

Mi colpisce molto quello che chiarisci nell’introduzione, dove ci inviti a evitare il posizionamento all’interno di una «gerarchia benevolente che uniforma il Terzo Mondo a una realtà localizzabile interamente nei paesi del Sud, precarizzata e vulnerabile», incapace di rovesciare la propria condizione di subalternità, e ci proponi di guardare al capitalismo gore senza moralismo. Nel libro adotti evidentemente una postura post-coloniale, appare quindi insolito l’utilizzo dei termini Primo Mondo e Terzo Mondo. In che accezione li utilizzi?
Più che post-coloniale, la mia postura è decoloniale, e più precisamente anti-coloniale, perché voglio creare legami con altri territori impegnati nelle lotte anti-coloniali dal XV secolo fino a oggi. Ma scelgo di usare i termini Primo Mondo e Terzo Mondo perché usare queste espressioni è problematico e risulta fastidioso in certi ambienti, come quello accademico, perciò cerco di mettere in discussione la “scomodità” di queste espressioni e implicitamente chiedere: smettere di definirci in questi termini ci aiuta davvero ad allontanarci dalle realtà che descrivono oppure stiamo solo ricorrendo a giochi di prestigio con il linguaggio per essere politicamente corretti e, anziché cambiare la realtà, limitarci a nasconderla?  

Il capitalismo è gore fin dalla sua genesi medievale, si è sempre alimentato di sangue, e in particolare del sangue, del lavoro, dello sfruttamento e della distruzione di popolazioni che caratterizza come vulnerabili.

Tu insisti sulla frontiera come cronotopo distopico, attraversato capillarmente dalla violenza e retto dalle leggi della necropolitica, che stabilisce chi deve morire e chi può sopravvivere. In Italia si è cominciato a parlare con insistenza della frontiera messicana verso la metà degli anni 2000, quando Ciudad Juárez irrompe sulla scena mondiale per i suoi femminicidi. Attorno ai crimini di Juárez ruotano non solo i reportage giornalistici Ossa nel deserto di Sergio González Rodríguez, Il deserto delle morti silenziose. I femminicidi di Juárez di Alicia Gáspar de Alba, ma anche quell’epopea del male che è 2666 di Roberto Bolaño, che sovrappone Juárez e Santa Teresa, e in «La parte dei delitti» ci fornisce un elenco dettagliato delle uccisioni di donne nella città, che fino a qualche anno fa era considerata la più pericolosa del Messico. Capitalismo gore veniva scritto, evidentemente, più o meno in quell’epoca, giusto? In che modo e perché la versione gore del capitalismo colpisce particolarmente i corpi e i soggetti non egemonici e in che modo questi soggetti possono organizzarsi?
Effettivamente la scrittura del libro è iniziata nel 2006 ed è finita nel 2009, perciò coincide con il contesto che descrivi, ma contiene esperienze precedenti ai fatti di Ciudad Juárez. Mi fa molto piacere che tu menzioni questi libri lucidi, di grande valore e scritti in modo magistrale, e mi entusiasma soprattutto perché sono scritti a partire da generi letterari come la cronaca giornalistica o il romanzo, generi che in Messico – e in America Latina in generale – sono storicamente i più innovatori, e soprattutto hanno avuto la funzione di denunciare in maniera esplicita le atrocità che ci circondano. 

Il capitalismo è gore fin dalla sua genesi medievale, si è sempre alimentato di sangue, e in particolare del sangue, del lavoro, dello sfruttamento e della distruzione di popolazioni che caratterizza come vulnerabili. Ma questa vulnerabilità non è ontologica, è piuttosto un processo storico contro il quale queste popolazioni lottano e si organizzano. Penso alle resistenze anti-coloniali in tutto il continente americano, specialmente alle forme di organizzazione indigena, come il zapatismo e la dissidenza sessuale delle comunità trans che, perlomeno in Messico, si organizzano in maniera intermittente di fronte al saccheggio, al massacro e l’omicidio sistematico.

Dalla mia prospettiva, il transfemminismo non significa soltanto includere le persone trans nei femminismi, ma considerare il prefisso trans- nel suo significato di transito, movimento, divenire. 

E in effetti, accanto alla visione distopica dal tuo libro affiora una visione-forza dall’afflato quasi utopico, incarnata dall’azione dei movimenti femministi e dal transfemminismo. Cosa significa per te costruire una pratica di resistenza dalla prospettiva transfemminista?
Dalla mia prospettiva, il transfemminismo non significa soltanto includere le persone trans nei femminismi, ma considerare il prefisso trans- nel suo significato di transito, movimento, divenire. In questo senso i transfemminismi offrono uno spazio di ribellione a tutte le persone che si oppongono all’oppressione, perché come sappiamo il progetto femminista presegue la giustizia sociale per tuttз, non soltanto per le donne cis. Le pratiche di resistenza dei transfemminismi si trovano nei movimenti antirazzisti, nei movimenti per i diritti sessuali e i diritti delle persone migranti, per la difesa della terra e del territorio, per la legalizzazione dell’aborto, e in altre lotte che alleandosi costruiscono dei fronti micropolitici di opposizione all’assedio neoliberista e neofascista.

Cosa è successo lungo quella frontiera messicana nei quasi vent’anni intercorsi tra quelle riflessioni e oggi? Si è compiuto il passaggio dal capitalismo gore al capitalismo snuff?
Sono successe molte cose, e una delle più evidenti è la crisi migratoria che ha “frontierizzato” il paese. La frontiera del Nord è permeata fino a Stati non di frontiera attraverso la violenza e il narcotraffico, ma anche per mezzo di nuove “imprese” sanguinarie che sfruttano la vulnerabilità delle persone migranti. In questo senso, la frontiera come metodo di controllo e sfruttamento del capitalismo gore gode di nuove nicchie di mercato emerse a causa di politiche anti-immigrazione che cristallizzano il capitalismo gore in una politica snuff (nel senso di realpolitik), nella quale i paesi del Nord – soprattutto gli Stati Uniti ma anche l’Unione Europea – legalizzano forme di governo in cui si uccidono le persone migranti “in diretta”, come è successo a Melilla o sulle coste del Mediterraneo, incassando il beneplacito dei conservatori e accrescendo le spese statali destinate alla “sicurezza”. Questo è solo un esempio del capitalismo gore nel mondo attuale.

Rinvieni altri spazi di applicazione del capitalismo gore nel nostro presente oltre i confini del Sud “globale”? La macchina bellica è un’altra forma di capitalismo gore?
Naturalmente la macchina bellica è una manifestazione attuale e visibile del capitalismo gore in diverse regioni, non solo nel Sud globale. Un altro spazio in cui il capitalismo gore si legittima è il cyberspazio, attraverso il “colonialismo dei dati” (vedi Mejías e Couldry) e il gangsterismo digitale.

L’intenzione di questa analisi non è criminalizzare i giovani impoveriti e razzializzati. Al contrario, è smascherare la logica seduttiva della violenza

Perché hai scelto proprio la figura mostruosa dell’endriago – ripresa dalla letteratura medievale  – per questi soggetti dissidenti protagonisti del capitalismo gore? Ti chiedo di spiegarlo un po’ nel dettaglio perché la parola endriago è una di quelle che abbiamo scelto di non tradurre, e chi non ha familiarità con il romanzo di cavalleria dove compare l’endriago, l’Amadis de Gaula, forse non coglie appieno tutte le risonanze – non solo fisiche, ma anche morali – che questa creatura-emblema porta con sé.
L’endriago è un mostro medievale con due caratteristiche principali: abita un territorio desolato, agreste, totalmente anomalo, ed è un essere dotato di forza brutale che esercita la violenza in modo esplicito e feroce. Gli endriagos combinano la dimensione coloniale dello sterminio con la costruzione di feroci capri espiatori per giustificare la conquista coloniale, cercare di eliminare i mostri e addomesticare le popolazioni “selvagge”. Ho fatto ricorso alla letteratura medievale intendendola come un dispositivo che ha configurato la soggettività dell’epoca in modo da riprodurre la logica medievale e rinascimentale che attivava l’immaginazione coloniale e l’invenzione di narrazioni sulle popolazioni native delle Americhe ribattezzate come indios, dipinti come una specie di infraumani, corpi “senz’anima”, spietati, mostri diversi. Allegorie che nell’epoca contemporanea ritornano come forme discorsive con cui si costruiscono tipologie che criminalizzano, razzializzano e genderizzano la povertà.

Così gli endriagos contemporanei, incarnati dai narcotrafficanti e criminali messicani (sebbene non solo da questi), sbandierano la rinascita dei “senz’anima” nella loro versione attuale, quella di soggetti spietati, anomali, bestiali, feroci, violenti e portatori di un’agentività distopica; mostri che obbediscono implicitamente alla biopolitica, alla necropolitica e alle esigenze dettate dalla mascolinità egemonica, plasmati nei contesti eteropatriarcali dell’Occidente, dove la massima podestà sulla vita e la morte e gli strumenti della necropolitica sono conferiti ai maschi come privilegio di genere.

Voglio chiarire che l’intenzione di questa analisi non è criminalizzare i giovani impoveriti e razzializzati. Al contrario, è smascherare la logica seduttiva della violenza come forma di lavoro e affermare che questa logica non si limita al circuito criminale, ma attraversa diametralmente le popolazioni in Messico e nel mondo, dalle classi impoverite alle classi medie, che adottano certi valori dell’estetica e della cosmetica dell’iperconsumo che definiscono le popolazioni non per classe sociale ma per il loro potere di acquisto.

Il tuo libro presenta una notevole attenzione al discorso, come strumento per creare nuove categorie esplicative di un fenomeno della contemporaneità che secondo te finora non è stato raccontato con le giuste parole: i soggetti endriagos, la Narco-nazione, il divenire snuff, la stessa definizione di capitalismo gore deriva dalla giustapposizione non convenzionale di due sfere semantiche apparentemente distanti. Che relazione c’è tra realtà discorsiva e capitalismo gore? Credi che cambiando il discorso cambi anche la realtà?
Sono contenta che mi fai questa domanda. Innanzitutto voglio ricordare che il linguaggio è un’avanzata tecnologia di soggettivazione, socializzazione e costruzione della realtà. Ma il processo per cambiare la realtà non è lineare né semplice, non cedo all’ingenuità di pensare che cambiando soltanto il piano enunciativo stiamo cambiando il piano materiale, ma ritengo che poter parlare in termini che più si adattano ai fenomeni contemporanei ci consente di situarci di fronte alla realtà in maniera critica, etica e militante. 

Da un lato, poter dare un nome a quello che ci succede e ci circonda ci aiuta a creare comunità intersoggettive situate che non ripetono come un ventriloquio le definizioni classiche, che pur essendo interessanti e importanti non sono adatte a spiegare le complessissime realtà attuali. Anche perché la creatività epistemica e discorsiva non dovrebbe essere più un privilegio ma un diritto comune e comunitario dei nostri mondi.

A quali temi ti stai dedicando in questo momento? 
La mia curiosità intellettuale è straripante e mi piace pensare nuovi termini per pensare il nostro presente, perciò dopo aver scritto Capitalismo gore ho continuato a fare ricerca sulle mascolinità. Allo stesso tempo ho cominciato a pensare nuovi concetti come quelli di regime livestreaming e glotaritarismo, per analizzare il potere delle reti digitali e le forme in cui i media in senso ampio normalizzano, diffondono e monetizzano le violenze di varia intensità attraverso prodotti culturali transnazionali. E a come l’agenda neoconservatrice e apertamente neofascista utilizza l’estetica e la cosmetizzazione del mondo per diffondere i suoi ideali attraverso l’assedio estetico e quelli che io chiamo necro-pop e necroscopie per diffondere una sensibilità retrograda.

Lavoro anche sul concetto di violenza affascinante e più di recente (nel 2021) ho pubblicato in Spagna un breve saggio sulla politica post-mortem e i transfemminismi, nel quale analizzo le forme di resistenza e di politicizzazione di alcune comunità messicane dopo l’assassinio o la scomparsa di una persona della famiglia. La reinvenzione delle politiche del lutto, la comunità e l’affetto in un paese (in un continente) pieno di omicidi e sparizioni quotidiane. Il libro è la bozza di un progetto più ampio a cui sto lavorando, che riunirà diverse prospettive della memoria storica delle resistenze in tutto il continente, dal Canada alla Terra del Fuoco. 

Continuo a interessarmi al fatto che il mio pensiero possa accompagnare queste resistenze, continuo a posizionarmi a partire dal compromesso etico-politico e militante, e mi rifiuto di prendere parte alla pigrizia intellettuale che purtroppo investe molte delle accademie in tutto il mondo. Sui temi urgenti da affrontare in maniera profonda, per me c’è il ritorno del fascismo, i neoconservatorismi, le agende anti-diritti e la svolta transfobica di certi, impropriamente detti, femminismi.

Anna Boccuti insegna Lingua e Letterature Ispanoamericane all’Università di Torino. Si occupa di letteratura contemporanea, con particolare attenzione alle forme del fantastico. Collabora con L’Indice dei libri del mese e con Alias. Tra le sue traduzioni più recenti, oltre a Capitalismo gore, il romanzo verbo-visivo dell’artista messicana Verónica Gerber Bicecci Insieme vuoto (Fahrenheit 2022).