Ripartire dal dolore

Musiche per un malessere senza nome: il post rock e il metal estremo come sintomi della società che ha bandito la sofferenza dalle nostre vite

Il libro La società senza dolore di Byung-Chul Han è per diversi aspetti controverso, ma mette in luce un tratto caratteristico della società in cui ci capita di vivere: in questa società mancano le parole per verbalizzare il dolore. Se infatti per Han «chiunque voglia criticare la società deve effettuare un’ermeneutica del dolore», i risultati di questa analisi non possono che mostrare come «oggi il dolore viene privato di qualsiasi possibilità di espressione: viene condannato a tacere. […] La società […] non permette di animare, verbalizzare il dolore». Questa esclusione del dolore da ogni orizzonte linguistico non ha alcun potere lenitivo e, anzi, contribuisce alla sua amplificazione: «se [il dolore] viene respinto, esso si somma di nascosto creando un “capitale invisibile” che “matura gli interessi e gli interessi sugli interessi”. […] Proprio nella società […] avversa al dolore si moltiplicano i dolori silenti, confinati ai margini».
Oltre all’aumento quantitativo del dolore, l’impossibilità di tradurlo in una forma linguistica produce anche un suo mutamento di carattere qualitativo. A tal proposito Han afferma che «una caratteristica cruciale dell’odierna esperienza del dolore consiste nel fatto che esso venga percepito come privo di senso. […] Oggi il dolore è reificato al punto da essere mero strazio corporeo. […] L’insensatezza del dolore suggerisce più che altro che la nostra vita, ridotta a processo biologico, è a propria volta svuotata di senso. La sensatezza del dolore presuppone una narrazione che inserisce la vita in un orizzonte di senso. Il dolore insensato è possibile solo in una nuda vita, spogliata di senso, che non racconta più».
Il procedere dell’argomentazione di Han riguardo l’istillarsi nella società di un dolore insensato, accresciuto e senza alcuna possibilità di essere comunicato attraverso il linguaggio, mi ha riportato alla mente una riflessione che avevo compiuto tempo fa. È ormai da una decina di anni che a un’ipotetica domanda sui miei ascolti prediletti non potrei che rispondere sempre allo stesso modo: i gruppi che costituiscono il nocciolo essenziale della mia personale colonna sonora fanno capo unicamente a due stili musicali, ovvero il post-rock e il metal estremo. Il post-rock è una forma sonora molto variegata che nasce negli anni Novanta e riunisce tutti quei gruppi che, a partire dalla tradizionale formazione da rock band, si allontanano dal canone compositivo che la caratterizza. Qui mi concentrerò sui gruppi appartenenti alla cosiddetta «seconda ondata» del post-rock, che  al contrario dei pionieri di questo stile hanno contribuito alla creazione di un vero e proprio genere musicale con caratteristiche precise. Il termine «metal estremo» invece è da intendersi in modo generico, per indicare quelle tendenze che negli ultimi trent’anni hanno portato ad acuire, a intensificare alcuni tratti già presenti nell’heavy metal di stampo classico. Io parlerò di band appartenenti ai sottogeneri deathgrind, post metal e nu metal.
La mia riflessione è nata da una domanda: perché questo amore sconfinato per questi due stili musicali? In fondo rappresentano due modalità sonore molto diverse, per certi aspetti anche antitetiche. Se infatti il post-rock è caratterizzato dalla costruzione di melodie minimali, colorate però tramite un’ampia gamma di sfumature sonore, nel metal estremo invece tendenzialmente avviene il contrario: a composizioni anche molto complesse si accompagna un ristretto range di suoni distorti. È vero, il post-metal in qualche modo fa convivere le caratteristiche di entrambi, ma questa è una sorta di sintesi che non rende meno paradossale la commistione tra i due poli, e anzi gioca proprio su questo contrasto esistente. Eppure perché questi due stili musicali apparentemente così dissimili esercitano su di me lo stesso potere, mi catturano con la stessa intensità? È possibile rintracciare una matrice che sia comune a entrambi? L’unica risposta che sono riuscito a formulare può essere articolata in due punti. In primo luogo sia il post-rock che il metal estremo consistono essenzialmente in forme espressive, seppur molto diverse nella loro modalità, del dolore, la messa in forma del dolore è il loro scopo ultimo. Il secondo aspetto merita invece un’analisi più approfondita: sia nel post-rock (inteso come genere musicale) sia nel metal estremo è presente una deflazione dell’importanza del contenuto linguistico rispetto a quello sonoro, come è reso evidente dal modo in cui è usata la voce in entrambi. Queste due caratteristiche sembrano rispecchiare pienamente il discorso di Han, e se applichiamo la sua lettura, post-rock e metal estremo appaiono come sintomi emblematici della società senza dolore, della società che ha disimparato a narrare la sofferenza, a tradurla in parole, a comunicarla agli altri.
Partiamo dal post rock: nella maggior parte dei casi i brani sono strumentali, non prevedono l’uso della voce. Nei rari casi in cui sia contemplata una parte vocale, il contenuto linguistico è completamente assente o comunque non riveste un ruolo di primo piano.
Tra le band post-rock che, in controtendenza con il canone, fanno uso massiccio di parti vocali, l’esempio più calzante è quello dei Sigur Rós. Il cantante Jón Þór Birgisson, aka Jónsi, scrive però i propri testi in islandese, e ciò comporta che la maggior parte del pubblico della band non possa fare esperienza diretta dei contenuti delle sue lyrics. Ancora più interessante è il fatto che Jónsi abbia inventato una sorta di linguaggio fittizio, denominato vonlenska (traducibile in italiano come «speranzese»), che usa per i brani dei Sigur Rós. Il vonlenska consiste nella codificazione e ripetizione di certi significanti senza significato, è una lingua senza senso. Il suo uso all’interno della discografia dei Sigur Rós è molto difforme: si passa da alcuni album in cui è presente in uno o in pochi brani a ( ), disco in cui il vonlenska costituisce l’intera parte vocale di ogni singolo pezzo. L’esempio più importante di questa modalità di usare la voce come un puro strumento, e forse complessivamente anche il più significativo rispetto all’intero genere, è costituito proprio da un brano contenuto in ( ): «Untitled 8» o «Popplagið».



Poi ci sono i Mogwai. Nella maggior parte dei loro brani è assente qualsiasi linea vocale, ma i pochi in cui invece la voce è presente meritano un’analisi. In Rock Action e in Happy Songs for Happy People ci sono tre pezzi, «2 rights make 1 wrong», «Hunted by a Freak» e «Killing All the Flies», in cui il testo è completamente assente, o almeno incomprensibile, a causa dell’uso massiccio di effetti che modificano la voce e la de-umanizzano. Questo stile vocale è stato poi ripreso da diversi altri gruppi post-rock, per esempio i Caspian in «The Heart That Fed», ma un’evoluzione degna di nota è stato l’album Origins dei God Is an Astronaut, che introduce un’importante novità: i God Is an Astronaut in questo caso, diversamente dai Mogwai, hanno rilasciato dei testi che, seppur incomprensibili all’ascolto diretto, sono reperibili e possono essere letti. Un segno di questa presenza linguistica è percepibile solo in alcuni rari punti delle tracce: nella parte finale di «Reverse World» si riesce a distinguere la ripetizione della frase «you are not alone».
Nella discografia dei Mogwai ci sono anche brani cantati in inglese con voce pulita o minimamente effettata, come «Take Me Somewhere Nice», «Party In The Dark» o «Ritchie Sacramento», ma anche in questi casi c’è qualcosa che ostacola la comprensione del testo: il volume. Questo aspetto emerge pienamente nei loro live, in cui la voce è solo sussurrata e si confonde nella totalità del suono.
Altro aspetto interessante è l’uso della voce nella forma del coro. I già citati Sigur Rós ne fanno un uso massiccio nel loro ultimo album Odin’s Raven Magic, ma anche in altre canzoni della loro discografia precedente, come «Varúð» e «Ára Bátur», per accentuare le parti «in crescendo». Si potrebbero citare come esempi anche «Opening» dei Maybeshewill o «A Gallant Gentleman» dei We Lost The Sea. Nella gran parte dei casi il coro non dà voce ad alcun testo, oppure, come in “Varúð”, ripete unicamente il titolo del brano.
Veniamo adesso al metal estremo. Nei Sillogismi dell’amarezza Cioran afferma: «non si può sapere se [l’essere umano] si servirà a lungo della parola o se a poco a poco riscoprirà l’uso dell’urlo». Nel metal estremo, urlo e parola si combinano in favore del primo: la parola si fa urlo e diviene incomprensibile, e se le lyrics sono presenti in abbondanza, il contenuto linguistico non ha alcuna centralità durante l’ascolto. Tecniche vocali come lo scream e il growl opacizzano la comprensione, mettono in primo piano l’esperienza del grido rispetto a quella del significato. Prendiamo «The Prophets of Loss» dei Cattle Decapitation: qui Travis Ryan sfoggia diverse tecniche vocali, ma in nessuna il linguaggio assume un ruolo preminente. Altro esempio emblematico è l’uso della voce da parte del cantante dei Korn. In brani come «Good God» o «Right now» Jonathan Davis ripete ossessivamente le stesse parole in un crescendo che sfocia in un urlo rabbioso e sguaiato, che perde progressivamente il proprio senso linguistico. In altre canzoni Davis si serve invece del gibberish, una tecnica che utilizza suoni simili a parole ma senza significato: «Twist» è l’unico brano dei Korn a essere interamente composto in questo modo. L’esempio forse più calzante in assoluto, però, sono gli Amenra. La voce di Van Eeckhout è semplicemente non-umana e, al contrario di altri cantanti metal, si mostra in tutta la sua intensità proprio nei live.


Questo live degli Amenra all’Ancienne Belgique, tra l’altro, ha un ulteriore elemento in comune con la versione live di «Untitled 8» dei Sigur Rós, poiché in entrambi i cantanti, oltre che «fallire» nella comunicazione linguistica del dolore, si nascondono, non si mostrano al pubblico, rendono opaca la loro stessa presenza fisica. Se nel punto culminante di «Untitled 8», quando la voce si trasforma definitivamente in lamento straziante, le tende si chiudono e coprono il palco trasformando i Sigur Rós in delle ombre, il cantante degli Amenra Van Eeckhout per l’intera durata del concerto dà le spalle al pubblico, non rende visibile il suo volto. In questa impossibilità di comunicare il dolore viene meno persino il contatto visivo tra pubblico e cantante.
In sintesi mi sembra che ad accomunare il post-rock e il metal estremo sia la creazione, seppur contingente ed effimera, di una comunità del dolore, che prende vita per la durata di un concerto e poi si disgrega. Questa comunità del dolore è però muta, è incapace di comunicare il proprio malessere, e lo stesso vale per la musica. La voce si riversa sul pubblico sotto forma di un dolore atomizzato, solipsistico: ognuno è solo nella propria sofferenza e ciò fa sì che questa non possa essere compresa in uno spazio comune. Questo peculiare stare insieme acuisce le sofferenze di ognuno, non le diluisce in un intero collettivo. Tutto ciò dà vita alla paradossale condizione per cui la comunità del dolore creata dal post-rock e dal metal estremo è tale proprio in virtù dell’incapacità di narrare il dolore, di tradurlo da strazio individuale a discorso collettivo.
Questa individualizzazione del dolore porta per Han alla sua indebita depoliticizzazione. Sempre ne La società senza dolore Han afferma che «il dispositivo neoliberista […] ci distrae dai rapporti di dominio vigenti costringendoci all’introspezione. Fa sì che ognuno si tenga occupato con se stesso […] invece di indagare criticamente le questioni sociali. La sofferenza, della quale sarebbe responsabile la società, viene privatizzata». Se è vero che in alcuni punti del testo Han pare assumere una posizione affine al dolorismo, come afferma Davide Sisto in una recensione al libro su Doppiozero, ovvero sembra guardare al dolore come a qualcosa che sia di per sé positivo e catartico, secondo me in Han è rintracciabile quantomeno un’altra via, quando afferma che «il dolore mette in moto processi riflessivi», ovvero se messo in comune espone la società a una critica che non sarebbe possibile all’interno del processo di individualizzazione muta della sofferenza. Mi sembra che per Han il dolore possa assumere una funzione positiva proprio in virtù della possibilità che offre, se preso in considerazione discorsivamente all’interno di uno spazio comune, di minare alle fondamenta le proprie cause sociali, di trasformare la società in qualcos’altro che, per quanto possibile, agisca sul dolore in vista di una sua cura collettiva: «il fermento della rivoluzione è […] il dolore percepito insieme».Mi sono permesso di mutuare il titolo di questo articolo dal bellissimo libro Ripartire dal desiderio di Elisa Cuter per sottolineare un’esigenza che mi sembra impellente: rimettere il dolore al centro del discorso pubblico. Dolore è probabilmente un termine troppo generico: parlare invece di dolori, al plurale, intesi come diversi motivi di sofferenza di cui discutere e su cui agire anche in modi di volta in volta circoscritti e puntuali, forse è più corretto. Tentare di dare nomi al dolore, di mettere in comune le sofferenze per rintracciare le cause sociali che le provocano e agire su di esse per modificarle mi sembra un compito che con il passare del tempo sta diventando sempre più urgente.

Lorenzo Marsili Nato nel 1995, è laureato in Scienze Filosofiche a Roma Tre con una tesi sull’abitudine nel pensiero di David Hume e nell’interpretazione deleuziana. È redattore di Dude Mag e ha scritto su alcune riviste online e blog di men’s studies, pessimismo filosofico e musica.