Ricomporre un dio smembrato

Archeologia dell’algoritmo dal lavoro manuale al capitalismo cognitivo

[Pubblichiamo un estratto da Nell’occhio dell’algoritmo. Storia e critica dell’intelligenza artificiale recentemente pubblicato da Carocci editore, che ringraziamo] 

In un mito cosmogonico dei Veda, si narra che la divinità suprema, Prajāpati, sia andata in frantumi nell’atto stesso di creare l’universo. In seguito alla creazione, in maniera controintuitiva rispetto alle narrazioni di padronanza e al principio di non contraddizione tipicamente occidentali, qui ritroviamo il corpo del creatore disfatto, smembrato. In India, questo antico mito è rappresentato ancora oggi nel rituale dell’Agnicayana, in cui i credenti indù ricompongono simbolicamente il corpo frammentato del dio costruendo l’altare di fuoco Śyenaciti. L’altare Śyenaciti viene costruito allineando mille mattoni di forma e dimensioni precise, seguendo un elaborato piano geometrico che disegna il profilo di un falco. I lavoratori innalzano cinque strati di 200 mattoni ciascuno, recitando mantra dedicati e seguendo istruzioni dettagliate “passo dopo passo”. Risolvendo un enigma, che è la chiave del rituale, ciascuno strato deve conservare la stessa area e forma ma con una configurazione diversa. Infine, l’altare a forma di falco deve essere rivolto a est, preludio a un volo simbolico del dio così ricostruito verso il sole nascente: esempio unico di reincarnazione divina more geometrico. 

L’Agnicayana è descritto meticolosamente nelle appendici dei Veda dedicate alla geometria, i sūtra Śulba, che furono composti intorno all’anno 800 a.C., in India, anche se registrano una tradizione orale molto più antica. Essi narrano che i ṛṣi (gli spiriti vitali) crearono sette puruṣa (esseri cosmici) di forma quadrata, che insieme componevano un singolo corpo. Ed è a partire da questa configurazione semplice che il corpo complesso di Prajāpati si è evoluto. I sūtra Śulba insegnano la costruzione di altri altari di specifiche forme geometriche per assicurarsi gli auspici degli dei. Essi suggeriscono, per esempio, che «coloro i quali desiderano distruggere i nemici presenti e futuri, costruiscano un altare di fuoco nella forma di un rombo». A parte il simbolismo religioso, in generale il rituale Agnicayana e i sūtra Śulba ebbero di fatto la funzione di trasmettere tecniche utili alla società dell’epoca, come pianificare una costruzione e ampliare gli edifici esistenti pur mantenendo le loro proporzioni originali. L’Agnicayana esemplifica l’originaria materialità sociale della conoscenza matematica, ma anche le gerarchie di lavoro manuale e mentale tipiche di un sistema di casta. Nella costruzione di un altare, i lavoratori sono guidati da regole che erano tradizionalmente possedute e trasmesse esclusivamente da uno specifico gruppo di padroni.

Oltre agli esercizi geometrici, i rituali come lo Agnicayana insegnarono un tipo di conoscenza procedurale che non è solo astratta, ma anche basata su un esercizio “meccanico” continuo, indicando ancora una volta il ruolo della religione in quanto motivazione all’esattezza e, allo stesso tempo, degli esercizi spirituali come un modo per disciplinare il lavoro. L’Agnicayana è un artefatto unico nella storia della civilizzazione umana: è il più antico rituale documentato dell’umanità, che sia praticato ancora oggi – anche se, a causa della sua complessità, viene eseguito soltanto poche volte in un secolo. In tutto questo tempo, ha trasmesso e preservato sofisticati paradigmi di conoscenza e, grazie al suo meccanismo combinatorio, può essere definito come un esempio primordiale di cultura algoritmica. Ma può un rituale tanto antico quanto l’Agnicayana essere considerato algoritmico? 

Gli algoritmi sono solitamente percepiti come applicazioni di complessi insiemi di regole in astratto; al contrario, qui affermo che gli algoritmi, anche quelli complessi dell’IA e del machine learning, hanno la loro genesi in attività sociali e materiali

Una delle definizioni più comuni di algoritmo nell’informatica è la seguente: una procedura finita di istruzioni “passo dopo passo” per trasformare un input in un output, indipendentemente dai dati, e ottimizzando l’uso delle risorse disponibili. I mantra ricorrenti che guidano i lavoratori nel cantiere dell’altare di fuoco possono davvero assomigliare alle regole di un programma per computer: indipendentemente dal contesto, l’algoritmo Agnicayana organizza una distribuzione precisa di mattoni che risultano ogni volta nella costruzione del Śyenaciti. Gli storici hanno scoperto che la matematica indiana è stata algoritmica in maniera predominante sin da tempi antichi, nel senso che la soluzione a un problema veniva proposta attraverso una procedura “passo dopo passo”, piuttosto che attraverso una dimostrazione logica.

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In virtù del loro ruolo nella programmazione informatica, gli algoritmi sono solitamente percepiti come applicazioni di complessi insiemi di regole in astratto; al contrario, qui affermo che gli algoritmi, anche quelli complessi dell’ia e del machine learning, hanno la loro genesi in attività sociali e materiali. Il pensiero e le pratiche dell’algoritmo, ampiamente intesi come risoluzione dei problemi basata su regole, sono stati parte di tutte le culture e civiltà.

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L’idea di studiare “gli algoritmi prima dei computer” emerse dal campo dell’informatica – e la cosa non desta sorpresa. Alla fine degli anni Sessanta, il matematico statunitense Donald Knuth pubblicò il volume di grande successo The Art of Computer Programming, e contribuì in modo significativo alla ricerca delle radici storiche delle tecniche matematiche in saggi come Ancient Babylonian Algorithms. In quegli anni, la missione di Knuth era la sistematizzazione del campo dell’informatica e la sua definizione come disciplina accademica rispettabile. L’evidenza di algoritmi antichi veniva avanzata per sottolineare che l’informatica non trattava di oscuri apparati elettronici, ma era parte di una lunga tradizione di tecniche culturali di manipolazione simbolica. In questo caso, tuttavia, l’archeologia dell’algoritmo fu perseguita non per dimostrare principi di pensiero universalistici, o il potenziale emancipatorio dell’apprendimento attraverso la storia della civiltà, bensì per gli interessi specifici di nuove classi di programmatori e costruttori di computer:

Una delle maniere per contribuire a rendere rispettabile l’informatica è mostrare che essa è profondamente radicata nella storia, [e non si tratta di] un fenomeno di breve corso. È dunque naturale volgersi ai primissimi documenti conservati che trattino di computazione, e studiare come le persone affrontassero tale materia quasi 4000 anni fa. Le spedizioni archeologiche in Medio Oriente hanno portato alla luce un ampio numero di tavolette di argilla che contengono calcoli matematici, e vedremo che queste tavolette offrono molti indizi interessati circa la vita dei primi “informatici”. 

Knuth pubblicò il volume di grande successo The Art of Computer Programming, e contribuì in modo significativo alla ricerca delle radici storiche delle tecniche matematiche in saggi come Ancient Babylonian Algorithms. In quegli anni, la missione di Knuth era la sistematizzazione del campo dell’informatica e la sua definizione come disciplina accademica rispettabile. L’evidenza di algoritmi antichi veniva avanzata per sottolineare che l’informatica non trattava di oscuri apparati elettronici, ma era parte di una lunga tradizione di tecniche culturali di manipolazione simbolica. In questo caso, tuttavia, l’archeologia dell’algoritmo fu perseguita non per dimostrare principi di pensiero universalistici, o il potenziale emancipatorio dell’apprendimento attraverso la storia della civiltà, bensì per gli interessi specifici di nuove classi di programmatori e costruttori di computer:

Una delle maniere per contribuire a rendere rispettabile l’informatica è mostrare che essa è profondamente radicata nella storia, [e non si tratta di] un fenomeno di breve corso. È dunque naturale volgersi ai primissimi documenti conservati che trattino di computazione, e studiare come le persone affrontassero tale materia quasi 4000 anni fa. Le spedizioni archeologiche in Medio Oriente hanno portato alla luce un ampio numero di tavolette di argilla che contengono calcoli matematici, e vedremo che queste tavolette offrono molti indizi interessati circa la vita dei primi “informatici”. 

Knuth intendeva liberare l’algoritmo dall’epoca dell’informatica e dell’ingegneria per farne, retroattivamente, una più ampia materia di storia culturale. Questo accadeva negli anni Sessanta, quando negli Stati Uniti l’informatica ancora faticava a ottenere lo status di una vera disciplina, come ha sottolineato lo storico Nathan Ensmenger. Questa qualifica è stata resa possibile stabilendo che il concetto centrale dell’informatica era l’algoritmo, piuttosto che l’informazione, come era accaduto in Europa (si veda il tedesco Informatik, il francese informatique, e l’italiano informatica come nomi per quella che in inglese è chiamata computer science). Questa canonizzazione dell’algoritmo è particolarmente significativa per gli storici della scienza e della tecnologia, perché ha preso avvio dall’interno del suo contesto professionale originario: gli operatori delle macchine di calcolo, una nuova generazione di lavoratori mentali, intendevano scrivere la loro propria storia della tecnologia – e ovviamente lo fecero in accordo alla forma logica del loro lavoro. 

La ricostruzione della preistoria dell’algoritmo (si potrebbe dire la sua “archeologia”) ha costituito una preoccupazione ricorrente anche nel campo della matematica. In particolare, il matematico francese Jean-Luc Chabert ha offerto una sintesi esemplare, che si spinge anche oltre i limiti disciplinari dell’informatica:

Gli algoritmi sono esistiti sin dall’inizio dei tempi, ed esistevano ben prima che una parola apposita venisse coniata per descriverli. Gli algoritmi sono semplicemente un insieme di istruzioni “passo dopo passo”, da eseguire abbastanza meccanicamente, per raggiungere un risultato desiderato […]. Gli algoritmi non sono confinati alla matematica […]. I Babilonesi li utilizzavano per decidere questioni giuridiche, gli insegnanti di Latino li usavano per mettere a punto la loro grammatica, ed essi sono stati usati in tutte le culture per predire il futuro, per decidere trattamenti medici, o per preparare il cibo […]. Noi parliamo dunque di ricette, regole, tecniche, processi, procedure, metodi ecc., utilizzando la stessa parola per applicarla a situazioni differenti. I Cinesi, per esempio, utilizzano la parola shu (che significa regola, processo o stratagemma) sia per la matematica, sia per le arti marziali […]. Da ultimo, il termine algoritmo è giunto a significare un qualsiasi processo di calcolo sistematico, cioè un processo che possa essere compiuto automaticamente. Oggi, principalmente per l’influenza della computazione, l’idea di finitezza è entrata nel significato di algoritmo quale elemento essenziale, distinguendolo da nozioni più vaghe come processo, metodo o tecnica.

Anche in questa lettura, l’algoritmo non compare come la più recente astrazione tecnologica, bensì come una tecnica molto antica: una tecnica che precede molti degli strumenti e delle macchine che la mente umana ha progettato. Questi sforzi di storicizzazione invitano dunque a riconsiderare l’algoritmo come una “tecnica culturale” fondamentale dell’umanità, che emerse per gradi da pratiche collettive e rituali temporalmente molto prossimi ai tratti costitutivi e primordiali di ogni civiltà.