Il racconto che state per leggere, Res paludans, nasce da un laboratorio di scrittura collettiva. La cornice è la prima edizione del festival “Reclaim The Tech” tenutosi al TPO di Bologna. Accanto a eventi di natura più divulgativa e teorica incentrati su un uso più critico e politico delle tecnologie digitali, noi avevamo proposto un workshop che ne indagasse la dimensione artistica e letteraria. La preparazione di questo evento avveniva nel pieno del dibattito su intelligenza artificiale e creatività, esploso negli ultimi quattro anni. Per noi è stata una prima occasione per riflettere con altre persone degli effetti di queste tecnologie sulla scrittura letteraria.
Era inevitabile sentirci implicati in prima persona plurale, dal momento che la scrittura condivisa e simultanea resa disponibile dai mezzi digitali è parte integrante della nostra pratica. Il linguaggio di Montag e le sue storie nascono grazie a mezzi digitali. Questa scelta ci ha messo davanti a due quesiti, condivisi con altrə scrittorə:
1. Quali effetti stanno avendo questi mezzi sulla scrittura narrativa?
2. Come usarli criticamente e, se necessario, sovvertirli?
Ci siamo seduti in cerchio su un palco spoglio sotto un grande schermo. Eravamo tra le venti e trenta persone, quasi tutte incontrate quel giorno. Accanto al cerchio un tavolo, dove Luca Reale e Roberto Meattini avevano allestito una consolle. Insieme a noi, a guidare l’incontro, Nadia Chiaverini, Francesco Papaleo e Francesco Pancotti.
Eravamo venuti a Bologna con due prompt per altrettanti racconti. Dopo aver discusso del rapporto tra arte e intelligenze artificiali, di rischi e potenzialità, abbiamo deciso di fare un esperimento di scrittura collettiva. Come ChatGPT, che a partire dalla sua architettura di reti neurali è in grado di rispondere ai prompt, abbiamo voluto creare una rete di partecipantə che sviluppasse i nostri prompt trasformandoli in racconti. Una rete di sconosciutə, al lavoro in simultanea, su un unico file.
Abbiamo dettato le regole del gioco della scrittura simultanea. Non esiste gelosia, proprietà privata della parola. Tutto ciò che è scritto può essere modificato da chiunque, più e più volte ancora. La parola fine potrebbe non esistere mai. Scrivere insieme per uscire dall’io e dalla voce individuale. Più umani fanno meno umani. Con queste regole ben chiare, abbiamo iniziato a scrivere il racconto che leggerete a partire da uno dei due prompt:
In una palude postantropica, immerso nel bitume, un branco di lucertole vaga. Sorelle? fratelli? creature alla ricerca di una tana. Incontrano tra le mangrovie una strana muffa gialla, quasi una bocca di melma, un bulbo viscoso. Si avvicinano, subito la muffa scatta verso il branco e s’espande, lo avvolge, con esso si ibrida e inizia a mutare.
Mentre più di venti menti si ispiravano a vicenda, inseguendosi nella scrittura, il tutto veniva accompagnato da un percorso audiovisivo curato da Luca e Roberto: un viaggio nel testo e nel sottotesto, che sfrutta le variabili sonore per smuovere le parole e le frasi. Queste diventano quindi immagini in movimento attraverso il captioning dell’IA. È nato così un concerto di stimoli, dove umano e inumano si cambiavano continuamente di posto.
PROMPT #1: Res paludans
Un senso di fine. Buio e fango. Non c’è niente intorno a me, almeno così mi pare. Qualche forma di vita rimane? La realtà che ho attorno sembra quella di Wall-E, un mondo in cui l’unico movimento percepibile è quello di uno scarafaggio. Le zampette che si muovono, antenne che vibrano. Nient’altro. Il resto è fermo. In una palude postantropica, immerso nel bitume, un branco di streghe vaga. Sono creature sorelle alla ricerca di un albero. L’albero è loro amico. Sono baccanti, FIN Creature apolidi, non hanno un posto in cui sentirsi a casa. Prede di una natura malevola, incontrano tra le mangrovie uno strano uomo itterico, quasi creato dalla melma, uno sguardo viscoso ma mai malevolo. Si avvicina, subito l’uomo scatta sul branco e s’espande, lo avvolge, lo stringe e con esso si ibrida. Inizia a mutare. Dal corpo emerge uno sguardo, creature che si annusano tra loro, si adagiano, eppure una luce si insinua tra le maglie opprimenti del bitume, dà fastidio a quel bulbo che si scatena verso il cielo. Una fitta spuma aggancia un organo all’altro, un torpore esistenziale. Ne sentono l’odore. Siamo cambiat*, siamo tornat* o siamo nat* in questa palude? Non lo sappiamo, non lo sapremo, nel dubbio benvenute nella mia palude. Shrekking. Due fastidiose ciglia si affacciano al corpo. Come Fiona e Ciuchino: le nozze diaboliche. Nozze rosse. Disgustosi fratelli. Disgustosa palude, il bitume che avvolge e risolve le trame, ci stiamo precipitando dentro. L’umidità ci bagna il corpo, viscoso il senso si sensaziona schifoso. Madonna che schifo! Aspetta, da quando ho acquisito individualità? Sono tutto? Perché “tutto” è singolare? Spinoza. Che bono. Un accenno di vento porta il puzzo della foresta paludosa che mi sembra pensare e guardarmi. Un olezzo denso e viscoso m’avvolge… è una palude o il bagno di casa mia? È la palude che mi chiama e desidera contaminarmi, come a volte fa anche il bagno di casa mia. Contaminarmi con cosa? I germi dello scopino del cesso? Da dove emerge questo sapere, questi ricordi di concetti? Speriamo non emerga dalle mie interiora. Odi un suono forse? È Tiziano Ferro. Sere nere. Non c’è tempo, né spazio, né nessuno che capisce mai, ma com’è possibile?! Non si capisce mai niente, è la notte in cui tutte le vacche sembrano palude. Non si capisce proprio. Raffaella balla a casa mia. Ma io sono qui nella palude. Confinato.
Non mi sento benissimo. Sto avendo un momento (non esattamente il mio). Sprofondo e riemergo, nuoto e mi avvolgo di vortici, snodo e allungo i tentacoli, sporosi e desiderosi? Ci vogliono, forse, ci seguono. Sono intelligenza, sanno cosa fare. Intelligenza collettiva. Ciberneticaaaaaaa! Uno sciame brulicante. Comandano segnali e stimoli. Sono tentacoli, protuberanze che servono a orientarsi in questa melma circostante. Colgono quanto non so prima che possa percepirlo, e mi aiutano a muovermi. È grazie a loro se posso andarmene lontano. Vorrei scappare dai miei genitori così come dalle streghe. Spezzare i miei legami corporei, mi odio e mi sento vivo: l’odio è pur sempre un sentimento. Aiutami a odiare meno. Riemergo come in un sogno, perché le mie membra sono parte di questa palude. E se le mie membra sono parte di me, allora anche io sono parte della palude? O no? Funzionavano così i sillogismi? Res paludans. O sono io la palude stessa? Sprofondo con tutto il corpo, un sentore di scompiglio, è un gioco? Rap paludans. Pensieri in rima. Flusso di coscienza. Forse mi piace. Mi nascondo, fuggo ma rimango, non riesco a trovarmi, impigliata a terra, radici sulle piante dei piedi mi bloccano. Grido. Oh! Qualcuno mi ascolti! È un liquore che mi mangrovia di brutto e ricopre il mio fondo, un pezzo di terra mi finisce tra i piedi. Sono vecchi ricordi che attanagliano la mia esistenza. Tipo caimani merdosi. Terra di Mordor, senti gli spigoli del mio corpo, la verità è che ci piace stare insieme agli umori. Ci piace, è vero, ma solo a volte, cioè dipende, nel senso certe volte il mio nasino è molto sensibile, come dire.. 👉👈
elfi. Lo divoro, lo addento, i lembi sono sciolti, i denti e gli artigli del branco si fanno lichene, muschio. Mi ricopro di questo viscidume verde, appare un profilo selvaggio che rinnego continuamente. È forse lui? si tratta di Sméagol? Non lo reggo più. Ora provo a strisciare, dimenticandomi a cosa servo. Forse non servivo a niente neanche prima. Ma in fondo a che serve servire a qualcosa? Siamo esseri piccoli e inutili, cerchiamo solo di sopravvivere. Non basta, non basta più. Voglio solo vivere, sparisci con me. Sgrido la morte e rido. La funzionalità è un concetto sopravvalutato, come essere gentili è una perdita di tempo.
Le zampe si spandono, ormai sprofondano e giungono al bordo della palude, toccano le radici delle mangrovie, sfondano gli organi interni e ne suggono le fibre. One with the swamp. E che svampa palustre! La decomposizione inizia, primo stadio dell’evoluzione, del nuovo. Questi concetti, ancora, da dove venite, ma cosa volete? Un fiorino. Evoluzione, di nuovo, orrore. Mangio le radici, le vomito. I coccodrilli rimasticano il tutto. È un liquore forte e il rigurgito mi sale. Anche i coccodrilli procedono a vomitare. Mi sovvengono ricordi gore della mia adolescenza. C’è quel sapore, ha quell’odore acre, quel sapore orribile. Ora capisco molto meglio la pubblicità del tè Lipton. È buono qui. È buono qui.
È buono qui?
Da ora inizia il caos: stomaco, intestino. Un destino, un caos intenso che si espande. Intestino fa rima con destino. Wow. È qui che mi rendo conto che siamo un tubo digerente, come diceva il Buon Carmelo Bene. O forse sono un pensiero stupendo.
Che schifo, l’orrore mi avvolge, e poi mi sveglio, con quel pensiero in testa: ma un tubo ha un buco o ne ha due? Sonno, mi avvolgi? No? Vaffanculo. Le parolacce si possono dire? Non lo so, porcoporco! Si possono dire, solo se riferite alla propria persona. Persona? Concetto assolutamente sopravvalutato, come la sopravvivenza. Il caos determina le nostre esistenze, non è che me ne pento. Siamo così, così caotici, esattamente come un corpo informe ibrido meticciato che si rende disponibile alla vita. Mi vergogno. Ecco, l’ho detto. Me lo sono detto. Tra me e me. Da distante, come un’eco. Una risonanza che vibra nella materia che mi fa.
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