Takeshi Murata, Golden Banana

Quale salto oltre l’apocalisse

Sarà capace la generazione iperconnessa di produrre coscienza collettiva? Al di là del volontarismo etico e della resistenza: con Darwin e Marx, per la neuro-evoluzione che (forse) verrà

Non so quanto sia fondata la leggenda secondo cui Marx avrebbe voluto dedicare uno dei volumi del Capitale a Charles Darwin. Secondo Richard Carter, scrittore e fondatore del circolo degli amici di Darwin, «anche se Marx ammirava l’opera di Darwin, alcune delle sue tesi, in particolare il sostegno che Darwin diede alle teorie di Malthus, non lo convincevano. Per questo è molto improbabile che Marx abbia davvero considerato la possibilità di dedicare la sua opera a Darwin». Ciononostante è certo che Marx e Darwin furono in corrispondenza, e che Marx aveva per Darwin una grande considerazione intellettuale.

Tutti sanno però che nel corso del XX secolo Darwin è stato preso in ostaggio dalla scuola neoliberale, fortemente anti-marxista. L’evoluzione sarebbe infatti una questione di forza: il più forte, che poi significa il più adatto a sopravvivere in uno specifico ambiente, vince. E questo vale sia nel mondo naturale che nel mondo economico e sociale.

La modernità ha tentato di sottrarre la relazione tra esseri umani alla legge del più forte, cercando di sottoporla piuttosto a convenzioni linguistiche, etiche, politiche e legali. Ma l’esperienza mostra che la legge del più forte prevale ogni qual volta la relazione sociale si trasforma in conflitto. Cioè quasi sempre.

Takeshi Murata, Art and the Future

La legge del più forte

L’universalismo etico intende sfuggire alla logica ferrea dell’evoluzione. Ma la legge morale sembra aver fallito la prova della storia moderna, e sia l’amore cristiano che l’imperativo etico kantiano sono stati incapaci di vincere il confronto con la mano invisibile che impone la logica economica e spazza via gli ideali etici e la volontà politica.

Anche il progetto politico del socialismo, dopo aver tentato di imporsi con la forza della dittatura o con la forza della democrazia, ha dovuto piegarsi alla forza prepotente del massimo profitto. Dobbiamo dunque considerare la questione conclusa, e piegarci all’evidenza dei fatti che apparentemente ci dicono che il capitalismo neoliberale incarnazione sociale dell’evoluzionismo darwinista ha definitivamente sconfitto ogni progetto di alternativa e si prepara a dominare il mondo per l’eternità?

Fermi un attimo.

Torniamo al rapporto tra Marx e Darwin. Dal punto di vista filosofico, Marx non concepisce affatto il comunismo come un’alternativa fondata su principi etici universali, e neppure come un progetto fondato sulla volontà politica. Marx, che parla pochissimo di comunismo come «progetto» e che rifugge dalla critica morale del capitalismo, ha delineato il superamento dell’economia fondata sul profitto e sul lavoro salariato come un «movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti».

In altre parole il comunismo è il processo che porta ad emergenza e a pieno dispiegamento una possibilità inscritta nei rapporti sociali esistenti, e questo processo è opera di una forza soggettiva materiale: la classe operaia. Non si tratta insomma di «volere» il comunismo, come il volontarismo leninista che produsse una lacerazione violenta e impose una dittatura politica ma non realizzò affatto una forma di vita libera dal lavoro salariato. Non si tratta di affermare valori morali collettivisti contro i valori individualisti. Si tratta di liberare la potenza materiale di una soggettività che in sé contiene le energie per portare a compimento la tendenza implicita nello sviluppo capitalistico, e per liberare la società dai limiti formali che il capitalismo impone al contenuto liberatorio iscritto nella tendenza.

In questo senso il pensiero di Marx si inscrive perfettamente nella visione evoluzionistica. Il comunismo non è «moralmente giusto», ma semplicemente più adatto a interpretare le potenzialità dell’intelletto generale e del suo prodotto: il sapere e la tecnologia.

Takeshi Murata, Problem Areas

Il metodo Marx

Naturalmente si può obiettare che le cose non sono andate così, e la classe operaia è stata sconfitta alla fine del XX secolo, dopo un lungo conflitto che ha opposto il socialismo della volontà politica al capitalismo dell’evoluzione. Quello che intendo qui sostenere è che la partita non è affatto conclusa.

La soggettività dotata di potenza sovversiva e liberatoria non è più la classe operaia industriale, ma il lavoro vivo nella sua forma più complessa, più ricca e più deterritorializzata. Lo  stesso Marx l’ha scritto in un punto specifico della sua opera, cioè nel Frammento sulle macchine. Quella potenza è il sapere umano stesso, che si soggettivizza nell’intelletto generale, nella rete del lavoro cognitivo. Il pensiero di Marx procede per astrazioni, come egli stesso spiega nella famosa Einleitung del 1859 in cui scrive fra l’altro: «Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il  punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione. […] La totalità concreta, come totalità del pensiero, come un concreto del pensiero, è un prodotto del pensare, del concepire; ma mai del concetto che genera se stesso e pensa al di fuori e al di sopra dell’intuizione e della rappresentazione, bensì dell’elaborazione in concetti dell’intuizione e della rappresentazione. La totalità come essa si presenta nella mente quale totalità del pensiero, è un prodotto della mente che pensa, la quale si appropria il mondo nella sola maniera che gli è possibile».

Questo metodo, che procede di astrazione in astrazione producendo il concreto come sintesi, lo condusse a dire che il Capitale crea le condizioni per il suo superamento, e che la classe operaia è il soggetto che rende possibile questo superamento. Ma Marx di mestiere non faceva il profeta. E se quella costruzione teorica si è rivelata molto utile per comprendere lo svolgimento della lotta di classe nella modernità novecentesca, si è però poi scontrata con l’imprevedibilità e l’impensabilità degli eventi storici.

L’evento costituito dalla rivoluzione sovietica, mentre si proponeva di realizzare il passaggio a una forma di società socialista, ha invece precipitato la storia in maniera tale da spostare la lotta di classe su un terreno in cui gli operai sono stati sostituiti dai popoli, dalle nazioni e dagli eserciti. La sconfitta della rivoluzione operaia in Europa, la devastazione prodotta dalla Prima guerra mondiale e l’impoverimento sociale conseguente hanno portato alla nascita del fascismo, e particolarmente del nazismo in Germania.

Una simile successione di eventi si è nuovamente prodotta, seppure entro condizioni tecniche del tutto mutate e con dimensione più vasta, nel nuovo secolo: negli anni successivi alla crisi finanziaria del 2008, l’impoverimento sociale generalizzato in Occidente ha creato le condizioni per la riemergenza di un mix di vero nazionalismo e falso socialismo – in altre parole, del nazionalsocialismo.

Takeshi Murata, Salon Kitty

Il male assoluto non esiste

Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale il nazismo è stato etichettato come il male assoluto. Il male assoluto non esiste, è un fantasma retorico che confonde la vista e impedisce di definire in modo materialistico (e quindi relativo) il male che nasce entro condizioni determinate che possono riprodursi o non riprodursi. La retorica del male assoluto ha fatto perdere di vista la genesi concreta del nazionalsocialismo, che è stato rappresentato come un mostro irripetibile. Parallelamente abbiamo definito unico e irripetibile l’Olocausto, lo sterminio di sei milioni di ebrei, due milioni di rom e centinaia di migliaia di comunisti e di omosessuali. Il risultato è che il mostro è rinato sotto i nostri occhi e noi abbiamo continuato (e continuiamo tuttora) a non vederlo.

Inoltre, accecati dalla retorica sull’irripetibilità dell’Olocausto, oggi non vogliamo nominare il nuovo Olocausto che si sta svolgendo in campi di concentramento che occupano una superficie molto più vasta di quella che occupavano Auschwitz Mauthausen, Dachau e gli altri luoghi di sterminio degli anni Quaranta del Novecento. Non abbiamo visto che la pressione esercitata dal potere finanziario sulla società riproduceva l’effetto Hitler in tutto l’Occidente, dove una forma estremamente simile al nazionalsocialismo è ormai maggioritaria. O forse più che di nazionalsocialismo dovremmo parlare di social-nazionalismo, perché l’origine dell’imbestialimento contemporaneo è tutta sociale: dopo quarant’anni di neoliberismo la maggioranza della società occidentale (bianca) ha bisogno di un capro espiatorio per la sua vendetta contro il ceto liberaldemocratico e contro la sinistra liberista.

Ciò non significa affatto che le vicende del secolo scorso si ripeteranno.

La situazione presente si differenzia da quella degli anni Quaranta per molte ragioni, ma qui mi soffermo su due. In primo luogo la soggettività sociale è oggi frammentata e precarizzata, e pare cognitivamente incapace di produrre forme di azione collettiva organizzata. In secondo luogo, la resa dei conti di cinque secoli di colonialismo – che solo l’internazionalismo comunista avrebbe forse potuto affrontare in modo cosciente – riesplode con la grande migrazione, che non è organizzata da alcuna forma politica anticolonialista cosciente e crea condizioni di guerra civile globale, anch’essa frammentaria e non ricomponibile in un unico fronte.

Non credo che serva molto la retorica della resistenza. Non abbiamo a che fare con una destra minoritaria e aggressiva. Abbiamo a che fare con un fenomeno di razzismo di massa.

Dall’inizio del secolo questa duplice tendenza (social-nazionalismo in tutto l’Occidente, e guerra civile frammentaria globale) cresce sotterraneamente, ed è divenuta manifesta con la vittoria di Trump. Eppure non osiamo riconoscerla, come se rifiutando di nominarla potessimo in qualche misura contenerla. Nessuna politica può fermare il processo in corso, perché la democrazia si è dissolta, e il senso di pietà umana è stato eroso dalla disperazione e dall’impotenza.

Il programma con cui la democrazia è stata liquidata (seppur «democraticamente») unisce proclami nazionalisti e promesse di restituzione delle risorse che l’austerità finanziaria ha tolto alla società. Possiamo facilmente prevedere che la destra non manterrà le sue promesse: l’austeritarismo finanziario non è neppure scalfito (al contrario è rafforzato) dai governi di destra. Ma non per questo le destre perderanno potere. Quando diviene evidente che la miseria cresce e il potere finanziario è intatto, il social-nazionalismo sposta l’accento sulla guerra, e individua i capri espiatori da sterminare. È quello che sta già accadendo.

Non credo che serva molto la retorica della resistenza. Non abbiamo a che fare con una destra minoritaria e aggressiva. Abbiamo a che fare con un fenomeno di razzismo di massa dei perdenti. Occorre evitare di ragionare in termini di fronte contro fronte. La guerra civile è proprio il terreno in cui si alimenta il social-nazionalismo. Né serve contrapporre ragionevolezza alla demenza nazistoide.

Prendiamo la questione del razzismo. Che possibilità esiste di convincere la maggioranza della popolazione europea ad accogliere i migranti (come sarebbe del tutto ragionevole)? Nessuna. I democratici adesso fanno gli umanitari, ma – per restare all’Italia – ad aprire la strada a Salvini è stato il Minniti che chiamava «gestione dei flussi migratori» la pratica del respingimento sistematico.

Inoltre è bene ricordare che i democratici hanno costruito i campi di detenzione per migranti non ai Parioli o nei «quartieri bene», ma al Tiburtino III e nelle periferie urbane. Il disastro prodotto dai governi di sinistra liberista non si può smontare, e non servirà affrontarne le conseguenze con le armi spuntate della politica.

Takeshi Murata, Gumbone and Coke

La resa dei conti con l’eredità del colonialismo

Una lettura evoluzionista di Marx – e non la lettura politico-volontarista che ha prevalso nella tradizione leninista, o quella legal-razionalista che ha prevalso nella tradizione socialdemocratica – permette di comprendere quello che sta succedendo e forse anche di intravedere una strategia che ci permetta di intuire come si esce da un’apocalisse a questo punto inevitabile. La prima considerazione, è che la mano invisibile del Capitale neoliberale si incarna nel nazismo, e che non c’è affatto opposizione tra nazismo e liberismo. Al contrario: è il liberismo che ha prodotto le condizioni del social-nazionalismo e dello sterminio di massa che esso porta inevitabilmente con sé.

In uno scritto del 1962, Günther Anders formula l’agghiacciante ipotesi che il Nazismo del XX secolo non è stato che un esperimento: una prova generale in qualche teatro di provincia, in preparazione della vera rappresentazione destinata ad avvenire in un futuro tecnologicamente perfezionato. Quel futuro è adesso.

Inoltre lo stesso Anders definisce l’essenza del nazismo come disumanità che non ha più bisogno della mano umana per compiersi, come automatismo tecnico del disumano. Auschwitz e Hiroshima sono stati per Anders l’annuncio del nazismo a venire. Siamo cresciuti credendo che il nazismo fosse scomparso con Hitler, ma ci sbagliavamo: il nazismo pienamente sviluppato è quello dell’automazione del disumano, che segue alla sconfitta dell’internazionalismo.

La politica di respingimento – unico comun denominatore di tutti i governi europei senza differenza sostanziale tra quelli che sono ancora definibili come «liberal-democratici» e quelli che sono entrati nella fase apertamente social-nazionalista – non è un fenomeno politico congiunturale, ma una reazione profonda che va letta entro un contesto evolutivo di lungo periodo. In questo senso, i discorsini mielosi dei «democratici umanitari» lasciano il tempo che trovano perché sono fondati su valutazioni di corto periodo e perché nascondono una sostanziale ipocrisia. Lo stanziamento provvisorio o definitivo dei migranti che sono giunti in Europa negli ultimi vent’anni è pesato interamente sulle aree urbane povere e sui ceti sociali più disagiati.

Inoltre: è vero che il sistema previdenziale italiano può reggersi soltanto grazie all’apporto dei lavoratori migranti, ed è vero che un certo quantitativo di migranti è indispensabile per l’equilibrio economico di paesi demograficamente declinanti. Ma noi dobbiamo affrontare una prospettiva più lunga: quella di una migrazione prolungata e massiccia, provocata dal collasso dell’ecologia di intere aree africane, e dal caos politico provocato dalle guerre che sconvolgono aree crescenti del continente euroasiatico.

Siamo entrati in un processo di riequilibrio demografico planetario che non può essere gestito con gli strumenti della politica democratica. E infatti la democrazia sta crollando ovunque per lasciare il passo alla violenza del razzismo e alla guerra. Al di là delle politiche di sterminio che il governo di Salvini sta applicando nel Mediterraneo, quale strategia si sta delineando per il prossimo futuro?

Il disegno di Salvini è quello di ricostituire condizioni di controllo militare del territorio africano da cui la migrazione deriva. Quanto agli investimenti economici nel territorio africano, sarebbe ingenuo credere che questi abbiano un carattere benevolo. Gli investimenti europei non hanno mai smesso di sfruttare lavoro a basso costo e territori ricchissimi di materie prime. Si tratta di un progetto colonialista classico di sfruttamento economico e di intervento militare nel cuore dell’Africa, che ben presto porterà a una serie di conflitti intereuropei per la spartizione del continente. La Cina segue con attenzione questo processo, e non possiamo escludere che nel medio periodo il continente africano diventi il territorio di una guerra sinoeuropea o addirittura intereuropea (si veda a tal proposito questo interessante documento neocolonialista di Francesco Sisci, che interpreta con intelligenza il punto di vista cinese).

Mi fa orrore dire quello che sto dicendo, ma l’orrore non sta nelle mie parole bensì nella realtà che esse descrivono: l’Olocausto del secolo passato rischia di impallidire di fronte alle proporzioni dell’Olocausto che è già iniziato nel Mediterraneo e che rischia di estendersi e prolungarsi negli anni che verranno. E non dovremmo illuderci che l’orrore possa essere confinato al territorio oltremare: il terrorismo islamico del primo decennio del secolo è stato solo l’annuncio del terrorismo di nuova generazione che colpirà le metropoli europee nel corso della guerra coloniale che stiamo avviando, come prevede Zbigniew Brzezinski nel saggio Toward a Global Realignment.

Per ricostruire la genealogia della situazione in cui ci troviamo oggi, dobbiamo risalire ai cinque secoli di colonialismo e di terrore bianco contro le popolazioni del pianeta. L’internazionalismo fu un tentativo di affrontare quell’eredità in modo consapevole e strategicamente solidale, attraverso una redistribuzione egualitaria delle risorse e attraverso una restituzione di quello che lo schiavismo e lo sfruttamento coloniale hanno sottratto ai popoli del sud del mondo. Ma l’eclisse della prospettiva comunista ha aperto le porte di un inferno nel quale tutti rischiamo di sprofondare. A meno che…

A meno che cosa?

Takeshi Murata, Jazz Funeral

Evoluzione e coscienza etica

A questo punto il Marx evoluzionista che abbiamo deciso di adottare ci suggerisce due cose: la prima è che non ci sarà resistenza politica o militare contro il nazismo, perché la guerra contro il caos è solo uno strumento del caos, e anche perché il potere attuale non è fondato sulla volontà politica, ma su una catena di automatismi tecno-linguistici che vanno smantellati linguisticamente e tecnicamente.

La seconda è che solo una forza più grande e più adatta a sopravvivere potrà sconfiggere e rovesciare il nazismo tecnologizzato: e quella forza è la coscienza dell’intelletto generale.

Non c’è dubbio sul fatto che l’intelletto generale (milioni di lavoratori cognitivi nella rete) è più grande e più forte del sistema tecnocapitalista, dal momento che soltanto l’intelletto generale può generare, produrre e gestire giorno dopo giorno quel sistema.  Ma le condizioni politiche entro cui questo accade non sono state decise dall’intelletto generale, che anzi è costretto a subirne le conseguenze nelle forme di esistenza (materiale e soprattutto psichica) dei soggetti cognitivi. Soltanto l’azione consapevole e coordinata dei lavoratori cognitivi può dunque decostruire e riprogrammare l’automa tecnico che produce miseria, alienazione e infine guerra. Ma il punto è questo: può il lavoro cognitivo esprimere quella coscienza collettiva che, sola, può permettergli di organizzarsi autonomamente, cioè di esercitare la sua funzione di creazione continua del mondo al di fuori del comando capitalistico e della funzione profitto?

Recentemente la mia attenzione è stata catturata da un evento che si è verificato negli uffici della Google corporation. Quattromila dipendenti della più potente centrale della net-economica globale hanno firmato una lettera di protesta contro la decisione dell’azienda di collaborare con il Pentagono alla dotazione di intelligenza artificiale per i droni da combattimento. Dopo alcuni mesi di discussione, Google ha deciso di rinunciare all’accordo con il Pentagono che rappresentava un grosso affare sul piano economico, ma rischiava di aprire un conflitto di lungo periodo con i suoi lavoratori e di rovinare l’immagine di un’azienda che si vanta di fare soltanto del bene.

Questo episodio mi è parso segnalare una cosa importantissima: esiste la possibilità di una fuoriuscita dall’inferno in cui il neoliberismo prima e il social-nazionalismo adesso ci hanno proiettato. Sta nelle mani e nelle teste di alcuni milioni di lavoratori cognitivi che posseggono la potenza di bloccare, sabotare, smantellare gli automatismi tecnici che muovono la macchina globale. E posseggono anche la potenza per riprogrammare la macchina globale producendo automatismi tecnici guidati da un principio di sobrietà, di uguaglianza e di pace.

Ma quella possibilità non è affatto a portata di mano: perché la soggettività che ne possiede la chiave è al momento socialmente frammentata, psichicamente fragile e incapace di solidarietà. Quattromila persone che lavorano per Google hanno firmato una lettera di protesta contro la subordinazione del loro lavoro a un’azienda militare, certo; ma gli altri settantaseimila dipendenti dell’azienda, quella lettera non l’hanno firmata. Solo un risveglio della coscienza etica di alcuni milioni di lavoratori cognitivi sparsi nel mondo ma connessi nella rete può attualizzare la possibilità.  

Dobbiamo chiederci se i lavoratori cognitivi della generazione iperconnessa sono in grado di esprimere coscienza e particolarmente coscienza collettiva.

L’evoluzione è un processo che si svolge secondo linee che sono essenzialmente indipendenti dalla volontà umana; ma nella sfera umana la coscienza ha una funzione evolutiva importante. La coscienza non è un effetto della volontà, bensì una funzione interna al processo cognitivo, che rende possibile la produzione e la riproduzione del dominio.

Cosa significa coscienza? Per fare semplice una questione infinitamente complessa, dirò che coscienza è la funzione di auto-situazionamento di un organismo. Ogni organismo è situazionato: gli uccelli volano in cielo e i pesci nuotano in mare; grazie alla coscienza, gli umani possono modificare il loro situazionamento nel contesto e possono modificare il contesto stesso in funzione dei loro interessi e delle loro intenzioni. La coscienza implica un porsi all’esterno di sé e agire sul sé situazionato.

Le formiche, le api, i ragni svolgono azioni estremamente elaborate, coordinate, in qualche modo intelligenti: ma non sono in grado di modificare le condizioni del loro lavoro, non sono in grado di riflettere e di agire coscientemente.

I lavoratori cognitivi sono posti nella condizione di produrre software, progetti, oggetti, algoritmi, sostanze e relazioni. Il loro comportamento coordinato non è dissimile da quello delle formiche o delle api: la conoscenza (o piuttosto le informazioni funzionali inscritte nel loro cervello collettivo) gli permette di svolgere la funzione che è stata loro assegnata dall’ambiente sociale in cui si trovano, ma la conoscenza non gli permette di cambiare le condizioni stesse in cui si trovano.

Se mi è permesso di saltare molti passaggi logici, direi che la coscienza è la funzione di mutamento del processo cognitivo che si manifesta in condizione di sofferenza. Il disagio, la sofferenza psichica, la non adesione al proprio essere situazionato, la percezione dolorosa del dolore dell’altro, è ciò che spinge gli umani a compiere un passaggio che né le formiche né i ragni sono in grado di compiere: riprogrammare il contesto. Riprogrammare il funzionamento semiotico, psichico economico dei segni prodotti dall’uomo. Riprogrammare il contesto patogeno per non riprodurre all’infinito la sofferenza.

La coscienza etica non è adesione volontaristica a valori universali, come pretendeva il pensiero universalista, illuminista o socialista, ma è un effetto della distonia estetica, del disagio psichico, della sofferenza. Ora dobbiamo chiederci se i lavoratori cognitivi della generazione iperconnessa sono in grado di esprimere coscienza e particolarmente coscienza collettiva. È su questo punto che la nostra ricerca deve concentrarsi.

L’apocalisse in corso costituisce la condizione entro la quale può verificarsi (o può non verificarsi) il risveglio della coscienza etica del lavoro cognitivo.

Sappiamo che l’intensificarsi della connessione e l’accelerazione degli stimoli infoneurali sta producendo un aumento strabiliante della sofferenza psichica. Si vedano a questo proposito i dati raccolti negli ultimi decenni da Monitoring the Future (dal 1976 al 2015), dal Youth Risk Behavior Surveillance System (dal 1991) e dal General Social Survey (dal 1972), riportati da Jean M. Twenge nel libro Iperconnessi (Einaudi). Da questi dati emerge con chiarezza un incremento della sofferenza psichica, della propensione al suicidio e alla solitudine. Queste tendenze dovrebbero spingere gli iperconnessi (e quindi in primo luogo coloro che quotidianamente creano e sviluppano l’automa globale produttivo) a cercare un mutamento. Ma purtroppo cresce al tempo stesso un’incompetenza emozionale e relazionale che rende gli iperconnessi incapaci di solidarietà, di empatia e di azione conflittuale. Il conflitto sembra essere intollerabile alla snowflake generation.

In questo scarto tra sofferenza e incompetenza emozionale si gioca probabilmente la possibilità di un processo di autorganizzazione del lavoro cognitivo che renda possibile (o impossibile?) nel prossimo futuro lo smantellamento dell’automa globale capitalista e la sua riprogrammazione secondo linee di sobrietà, egualitarismo e solidarietà.

L’apocalisse in corso costituisce la condizione entro la quale può verificarsi (o può non verificarsi) il risveglio della coscienza etica del lavoro cognitivo. Il trauma che si sta producendo non sconvolgerà soltanto le strutture della vita sociale, le istituzioni politiche ed economiche, ma anche l’equilibrio psicocognitivo. È forse sul piano neuroevolutivo che il prossimo passaggio storico si verificherà.

Il nuovo libro Futurabilità di Franco «Bifo» Berardi uscirà a fine agosto per la collana Not di NERO.