Ci hanno sempre detto “prima il dovere, poi il piacere”, come se ci potessimo meritare soddisfazioni e benessere solo dopo aver adempiuto alle nostre responsabilità e dopo aver dimostrato impegno e sacrificio. Cosa succederebbe se riscrivessimo questa narrativa e iniziassimo a vedere la nostra esistenza orientata al e dal piacere, per noi e per tuttə? A cosa ci porterebbe? Dovremmo innanzitutto ragionare per ridefinire l’idea stessa, sfaccettata, di piacere e della sua misteriosa matrice, il desiderio. Fin troppo spesso associato unicamente alla sessualità, il piacere è in realtà ovunque e per chiunque, nonostante ci venga “venduto” come raro e scarso, tanto da dover competere tra noi per sperare di ottenerlo. Dovremmo riflettere su identità e intimità, mettendo in discussione l’applicazione del concetto di privacy in un sistema di potere diseguale e oppressivo. Dovremmo capire come fare i conti con la brama di piacere, o meglio di potere, che ci istigherebbe a prevaricare lə altrə, portandoci all’eccesso; e, allo stesso modo, ci sarebbe richiesto di imparare a gestire l’equilibrio con il disagio e la scomodità, praticando e allenando quotidianamente un approccio di cura collettiva, oltre che personale. Insomma, ci è richiesto di trasformare radicalmente i nostri binari di pensiero, la cultura su cui si formano e, di conseguenza, la società che siamo. Non è certamente un processo semplice e immediato, ma insieme alla prospettiva e alla guida delle parole di adrienne maree brown possiamo vedere che è possibile, e che dipende da ciascunə di noi.
adrienne maree brown è una scrittrice, attivista e facilitatrice di movimento e pratiche somatiche statunitense, con oltre 25 anni di esperienza. Il suo lavoro si basa su concetti e pratiche che promuovono la trasformazione sociale, come l’emergent strategy, il pleasure activism e la giustizia trasformativa, integrandole anche in diversi progetti artistici e musicali. Nel suo libro Pleasure Activism, brown ci presenta un quadro visionario per utilizzare il piacere come strumento politico: in parte mezzo di resistenza contro i sistemi di oppressione, in parte catalizzatore per una trasformazione sociale che sia davvero per ogni persona. Per farlo, ci propone stimoli pratici, riflessioni ed esempi concreti basati su un approccio intersezionale, che parte dal mettere al centro le esperienze delle persone queer, razzializzate, e di altre comunità marginalizzate per riconoscere il bene collettivo come il bene di ciascunə. Attraverso il suo lavoro, adrienne maree brown raccoglie numerosissimi stimoli teorici e pratici su questa filosofia. Lo fa spaziando tra questioni come il sesso e le droghe, ma anche la musica, l’arte, la moda o la convivenza con la malattia. L’autrice ragiona su come ognuna di queste esperienze e di questi fenomeni siano legati non solo al piacere, ma anche all’attivismo, inteso come lotta intenzionale per la giustizia. Al centro c’è l’intenzione di diffondere modalità per sostenere reciprocamente i nostri desideri e di creare spazi in cui ogni persona possa essere sé stessa.
Quando il tuo libro è arrivato in Italia, ha suscitato un’affascinante discussione durante la prima presentazione a Roma, in cui le traduttrici hanno voluto far luce sulle loro scelte oculate nella traduzione di concetti culturalmente specifici. Il titolo stesso, Pleasure Activism, ne è un chiaro esempio: è stato lasciato invariato proprio per evitare potenziali fraintendimenti che potrebbero sorgere da una traduzione letterale. In Italia, infatti, le prospettive sull’attivismo e sul piacere possono divergere da quelle di altre culture, e non è raro trovare opinioni contrastanti anche tra gli italiani stessi. Dal momento che c’è ancora una tendenza a valorizzare le norme tradizionali, il piacere è principalmente legato alla sessualità e può essere considerato tabù a causa dello stigma religioso, mentre l’attivismo è spesso frainteso o non sempre apprezzato perché costringe le persone a interrogarsi sulla possibilità del cambiamento, oltre che della lotta e dell’impegno. Date le tue esperienze uniche e il tuo contesto di riferimento, potresti descrivere brevemente il viaggio che ti ha portata a concettualizzare il “Pleasure Activism”? E quali sono state le sfide che hai dovuto affrontare riguardo alle scelte linguistiche durante il tuo lavoro?
Risponderò a queste domande in ordine inverso. Cerco costantemente di rendere il mio lavoro il più accessibile possibile, cercando di rivendicare il linguaggio come qualcosa attraverso cui possiamo creare il nostro significato… Penso che abbiamo il diritto di usare le parole che hanno più senso per le cose, e so che in questo momento siamo in una guerra linguistica (almeno negli Stati Uniti) in cui la destra conservatrice e fondamentalista prende costantemente le nostre parole e le applica a concetti, politiche e credenze in modo impreciso. Quindi una delle sfide principali è lavorare per parlare onestamente e elevarsi al di sopra del caos del linguaggio improprio per dire esattamente ciò che intendo dal cuore.
Pleasure Activism è un’espressione usata per la prima volta da Keith Cylar, il fondatore di Housing Works a New York, che è morto prima della pubblicazione del libro. Volevo onorarlo come grande protagonista del movimento per la riduzione del danno, per il suo approccio non giudicante al nostro corpo. Stavo leggendo il saggio di Audre Lorde, Usi dell’erotico: l’erotico come potere, e volevo parlare dell’erotismo, ma anche dei piaceri che vanno oltre la relazione, oltre il corpo – piaceri della mente, piaceri della collettività. Mi sono concentrata comunque molto sul sesso e sulle droghe, ma c’è anche l’umorismo, la convivenza con il cancro, l’arte, la moda. L’attivismo, la difesa intenzionale della giustizia possibile in quell’area di pensiero o di azione, mi interessa davvero in ogni ambito, in ogni conversazione.
Anche in Italia possiamo dire di star assistendo (e volenti o nolenti anche partecipando) a una “guerra linguistica”, dove le parole – soprattutto quelle nuove o rivisitate che mettono in discussione le visioni più tradizionali e normate – vengono travisate e utilizzate come spauracchio del cambiamento. Pensiamo anche solo alla parola “gender” e alla sua strumentalizzazione da parte delle frange più conservatrici e dai movimenti “pro-vita”, o meglio anti-scelta, per ostacolare non solo la libertà di autodeterminazione di diverse soggettività non conformi, ma anche la diffusione di programmi educativi e iniziative di divulgazione al rispetto delle differenze, alla socio-emotività e alla sessualità onnicomprensiva. Nel caso di Pleasure Activism, ciò che dalla prospettiva italiana può apparire come un’unione di concetti contrastanti è in realtà la necessità di trasmettere un concetto nuovo, sfaccettato e trasformativo: la politica dello star bene. L’intento è quello di diffondere un approccio orientato al piacere a trecentosessanta gradi, e in questo modo permettere di individuare nuove prospettive riguardo a ciò che possiamo fare per un cambiamento positivo, oltre che nuove modalità affinché questo impegno collettivo risulti più gratificante ed efficace. Se il piacere può essere un modo per riappropriarci di noi stessə, uno dei primi passi richiede che diventiamo più consapevoli dei nostri desideri. Quali sono i tuoi pensieri sul desiderio e sui relativi ostacoli che stiamo affrontando collettivamente – così come personalmente – nell’entrare in contatto con i nostri bisogni? Perché abbiamo paura, come dici tu, dei nostri “sì”?
Il desiderio può essere frainteso e può essere usato contro di noi. Per me, uno dei punti più importanti è capire che il sì più profondo è legato a un sì collettivo. Il nostro sì più profondo è quando diciamo di sì al nostro sé più autentico – e ciò che vogliamo costruire è un futuro in cui tuttə possiamo essere i nostri sé più autentici, sé che non hanno bisogno di rimpicciolire sé stessə o lə altrə, ed essere abbondantemente amatə. Gli ostacoli che dobbiamo affrontare sono ideologie che suggeriscono che la scarsità è la nostra verità e che tuttə dobbiamo rimpicciolirci per permettere a una piccola manciata di persone di vivere la loro autentica vita creativa – questi ostacoli trasformano le nostre vite in un lavoro e le nostre comunità in una competizione. Ma stiamo cambiando la tendenza, moltə di noi stanno imparando gli strumenti per essere sé stessə, per essere responsabili lə unə verso lə altrə e per dar vita al nostro orgasmico sì.
A proposito di cambi di rotta, stando a contatto con gli ambienti dell’attivismo e legati all’ampia sfera della sessualità ho potuto notare come negli ultimi anni è emersa una prospettiva più ampia e complessa del concetto di intimità. In diverse culture, l’intimità – legata alla sessualità e al piacere – è stata tradizionalmente associata alla sfera privata e alla privacy individuale. Tuttavia, è molto interessante ragionare su come l’intimità possa anche essere vissuta come un’esperienza collettiva, che si estende oltre l’ambito individuale per comprendere le relazioni interpersonali e comunitarie. Qual è la tua opinione su questo cambiamento di prospettiva sull’intimità e sul suo significato all’interno delle attuali dinamiche sociali? Cosa potremmo imparare dal mettere in discussione il concetto di privato e condiviso, e come potrebbe influenzare il concetto di Pleasure Activism?
Penso che stiamo imparando a far parte di qualcosa di più grande di noi, e più grande di una o due relazioni intime: una rete di vita che sostiene tuttə coloro che ne fanno parte. In questa rete, l’intimità include le pratiche di trasparenza che ci impediscono di cadere in modelli dannosi. La privacy ha coperto così tanti abusi e danni, la privacy abbinata al patriarcato, alla misoginia, alla discriminazione di genere, all’omofobia, alla transfobia, eccetera. Lasciare che più persone vedano i nostri bisogni, i nostri desideri, le nostre strategie di appagamento e il modo in cui stabiliamo e manteniamo i nostri confini: questo può trasformare il funzionamento della società.
Nel tuo libro parli dell’importanza di abbracciare diverse espressioni della sessualità, ma nonostante la queerness possa chiaramente insegnarci molto come società nel complesso, per molte persone è ancora difficile da comprendere. In che modo la sessualità queer può fungere da catalizzatore per la trasformazione sociale? E, secondo la tua esperienza, come possono le comunità queer e i loro alleati sostenere e affermare meglio l’autonomia sessuale e i diritti degli individui queer?
Tutto ciò che ci fa uscire dai binarismi è un catalizzatore di trasformazione, perché non viviamo in un mondo binario. Viviamo in un mondo di spettri, di divergenze, di costante adattamento. La sessualità queer è un fuoco d’artificio di opzioni, di persone che dicono “io non rientro in una concezione binaria dell’identità o del desiderio, e ho un’idea molto specifica e chiara di ciò che voglio e di ciò di cui ho bisogno”. Gli alleati e la comunità devono vivere appieno i loro desideri e le loro complessità, e assicurarsi che noi abbiamo il diritto di vivere i nostri.
ogni volta che rischio il disagio di dire la verità, di fare una domanda di cui non conosco la risposta, di sembrare stupida o disinformata, di mostrare quanto ci tengo, quello che c’è dall’altra parte è sempre un piacere
Personalmente, è stata proprio la realizzazione della complessità delle nostre identità, desideri e relazioni che mi ha permesso di sviluppare un approccio sempre più compassionevole nei confronti del mondo e di chi lo abita. Quando inizi a vedere e accettare la complessità, ogni riflessione non può che passare attraverso questa lente e beneficiare di una visione più ampia e mai statica o troppo limitata della realtà. C’è una parte in cui parli di aver dovuto affrontare delle critiche riguardo ai rischi di indulgere al piacere dell’eccesso, piuttosto che trovare un equilibrio con un approccio del “quanto basta” (ovvero prendo ciò che mi serve fino alla sufficienza, senza esagerare). Pensi davvero che l’eccesso possa essere un problema reale nella ricerca del piacere, e se sì, come si può affrontare? Ci sono altre criticità o problemi che dovremmo tenere a mente quando affrontiamo questi argomenti e queste pratiche?
Penso che l’eccesso possa assolutamente essere un problema, soprattutto per coloro tra di noi che sono stati socializzati nel capitalismo, dove la scelta è tra sopravvivere alla scarsità o accumulare ricchezza. A volte arriviamo all’eccesso perché ci hanno fatto morire di fame per tanto tempo. Per quanto riguarda il sesso, questo può manifestarsi come una dipendenza, o sotto forma di decisioni pericolose, oppure come un’insoddisfazione costante, a prescindere dalla quantità di sesso che si fa. Con le droghe questo può manifestarsi come un’overdose, una dipendenza, come la ricerca costante di una botta più forte. Possiamo anche oscillare nell’altro senso, verso un’estrema restrizione che ci impedisce di accedere all’intimità, o ai piaceri ricreativi, o a una medicina potente che potrebbe farci bene. Quello che perseguiamo sempre sono l’equilibrio e la salute.
È interessante riflettere sul fatto che non solo veniamo socializzatə secondo determinati valori riguardo ai generi e ai ruoli sessuali, ma anche sulla base di dinamiche legate al sistema capitalista e oppressivo in cui veniamo cresciutə. Oltre all’eccesso, quando pensiamo al piacere potremmo anche associarlo, in parte, a uno stato di comfort in cui ci sentiamo a nostro agio perché ci troviamo in un luogo o in una condizione (anche mentale) che conosciamo e di cui ci fidiamo. Tuttavia, uscire e spingersi oltre la nostra zona di comfort è un passo necessario in un percorso consapevole verso il cambiamento. Dove si incontrano disagio e piacere, secondo te? E come possiamo distinguere tra un disagio sano, che porta alla crescita, e un disagio dannoso, che perpetua l’oppressione?
La mia risposta è sempre il corpo. Una parte del motivo per cui sono così curiosa di sapere che cosa stanno imparando le persone nella comunità BDSM è che c’è così tanto dialogo sui desideri, sui bisogni, sui limiti, sulla sicurezza e sul come sapere qual è la giusta quantità di sensazioni per ogni corpo. Penso che negli Stati Uniti abbiamo una tolleranza incredibilmente bassa per il disagio, il che rende davvero difficile cambiare idea e imparare cose nuove. Ma ogni volta che rischio il disagio di dire la verità, di fare una domanda di cui non conosco la risposta, di sembrare stupida o disinformata, di mostrare quanto ci tengo, quello che c’è dall’altra parte è sempre un piacere. Imparo, so di più, sono più conosciuta, sono informata, so dove sono i confini, ecc. E il mio corpo mi fa capire quando il mio disagio sconfina nell’auto-negazione o nel dolore. La mia pancia mi sta letteralmente comunicando: tremo dentro quando non sono allineata o quando ho paura di essere me stessa. Rallentate, meditate, ascoltate come il vostro corpo si sente dall’interno.
Passando ora dal corpo alla collettività, mi piacerebbe approfondire il discorso sulla giustizia sociale trasformativa che abbiamo citato spesso in questa conversazione e che troviamo disseminata in tutto il tuo lavoro. In Italia è una pratica ancora poco conosciuta e diffusa, e se sono poche le persone che la conoscono, sono ancora meno coloro che la mettono in pratica. Esistono tuttavia pratiche simili in via di sviluppo che potrebbero certamente trarre beneficio e ispirazione dal confronto con le tue esperienze statunitensi e dagli strumenti pratici che ti senti di condividere riguardo al tuo percorso. Quindi, ti chiedo, potresti spiegare concretamente cos’è la giustizia sociale trasformativa e perché può essere così importante?
Uso l’espressione “giustizia trasformativa” in relazione al concetto di abolizionismo, all’idea che stiamo abolendo i sistemi di punizione, di detenzione e di polizia. La giustizia trasformativa suggerisce che possiamo trovare modi di essere in relazione gli uni con gli altri che mettono al centro la sicurezza, l’appartenenza e la dignità. Modi che ci tengano fuori dal sistema carcerario, modi che ci tengano dentro alle nostre comunità e che ci rendano responsabili nei confronti delle stesse. La giustizia trasformativa implica che si vada alla radice del conflitto o del danno e che si affronti il problema in modo da spezzare il ciclo di violenza e di oppressione. Credo che tutti possano trarre beneficio da questo approccio: penso che gran parte del male che dobbiamo affrontare sia dovuto al fatto che abbiamo tentato di esternalizzare la giustizia, permettendo che molte persone venissero sottratte alla nostra comunità per poi tornarvi incattivite, nella forma che hanno dovuto assumere per sopravvivere agli spazi penitenziari (o militari). La giustizia trasformativa guarda a ogni persona non come a un criminale da contenere, ma come a un essere umano che ha bisogno di cure e attenzioni, magari per la salute mentale, o per la droga, o per il trauma, o per il superamento del lutto, o per riequilibrare qualcosa nella nostra economia e nelle nostre risorse. La giustizia trasformativa è un portale verso un futuro in cui ognuno di noi ha abbastanza, e può essere accolto all’interno della comunità mentre impara e cresce.
Mi stupisce quanto possiamo migliorare la nostra vita riconoscendo che gli stessi strumenti che funzionano per aumentare il piacere nel nostro corpo possono funzionare per aumentare il piacere nelle nostre relazioni
Tenendo questi principi a mente, negli ultimi anni c’è stata una crescente enfasi sul concetto di cura all’interno dei circoli attivisti, in particolare all’interno dei movimenti transfemministi e queer. Ci tengo a citare a questo proposito il Manifesto della cura composto da The Care Collective, che porta alla luce questa etica pratica e principio organizzativo sul quale può sorgere una nuova politica, definita “dell’interdipendenza” perché si centra sull’importanza della collettività e dell’agire in nome di un bene e di una cura corali e plurali. Riesci a ricordare episodi in cui la cura è diventata cruciale nel Pleasure Activism e nel lavoro trasformativo di giustizia sociale? Quali strategie pratiche possono impiegare gli attivisti per dare priorità al “prendersi cura” all’interno dei loro sforzi organizzativi?
Credo che la maggior parte di questo lavoro consista nel passare da una cultura della transazione e dell’estrazione a una cultura della cura. Bisogna prendersi cura del proprio corpo, ascoltare i bisogni degli altri e trovare un percorso verso la giustizia che metta al centro le persone più vulnerabili. Nel mio gruppo di lavoro, ci informiamo regolarmente su come le persone si stanno prendendo cura di sé, sul loro carico di lavoro, su quanto si sentono supportate, ecc. Per me il modo più pratico per dare priorità alla cura è renderla una routine, non solo una routine per fare le cose, ma per discuterne. Le persone intorno a voi dovrebbero sapere come prendersi cura di voi e voi di loro.
Una delle cose che ho più amato del tuo libro è che, oltre alle riflessioni e agli stimoli di pensiero, fornisce strumenti pratici e strategie per integrare il Pleasure Activism nella nostra quotidianità. Ti andrebbe di condividere alcuni degli strumenti più utili che hai utilizzato o che hai valutato come particolarmente efficaci?
Gli strumenti che aiutano le persone a negoziare su ciò che sentono, vogliono e di cui hanno veramente bisogno sono i miei preferiti. Mi stupisce quanto possiamo migliorare la nostra vita riconoscendo che gli stessi strumenti che funzionano per aumentare il piacere nel nostro corpo possono funzionare per aumentare il piacere nelle nostre relazioni: dare un nome a ciò che vogliamo e di cui abbiamo bisogno, dare un feedback amorevole, sentirsi a proprio agio con le nostre verità più nude, ecc.
Se la prima sfida è quindi trovare, capire, ascoltare ciò che vogliamo e necessitiamo, ne consegue il dover imparare a verbalizzare, negoziare e rispettare questi stessi stimoli e bisogni, nella complessità delle identità, esperienze e relazioni uniche che viviamo. Per concludere questo prezioso scambio, ti chiedo di lasciare un consiglio che vorresti condividere con chi ci sta leggendo ora, ringraziandoti ancora di cuore per il tuo tempo, il tuo lavoro e l’energia che porti nel mondo.
Trova ciò che ti fa sentire vivə e dedicagli quanto più tempo prezioso possibile.