Piccola introduzione al post-anarchismo

Restare indifferenti alla legge è il primo passo per resistere al potere. Intervista a Saul Newman, il principale teorico post-anarchico inglese

Questa intervista nasce come una forma di espiazione. Parlerò con uno dei massimi esperti di anarchismo per capire quante fesserie ho scritto finora sull’argomento, quante nozioni ho dato per scontate, quanti nomi ho citato a caso pur di avere un brillante argomento da apericena. Perché se è vero che l’intellettuale moderno, per fare bene il suo compitino, ha abbandonato da tempo i pregiudizi contro la cultura pop, gettandosi capo e piedi nelle tendenze di consumo e rinunciando a certi tic da fan club di Toni Negri, è anche vero che spesso cediamo ad automatismi e frasi fatte che continuano a lasciare perplessi. Specialmente quando si parla di anarchismo, una corrente di pensiero che si è frammentata in mille rivoli e contorcimenti. Ad esempio: quando in quell’house party di Camberwell, Londra, dicevo che era l’anarchia, più che il marxismo, a spiegare la finanza contemporanea, ci credevo veramente? E se invece avessi lasciato troppa teoria per strada, restando soltanto con l’estetica della bandiera nera?

Così, per tracciare questa piccola storia del post-anarchismo, per prima cosa mi sono rimesso a studiare, cercando di ricollegare con orribili schemini libri e concetti che pensavo di avere già assorbito. E sì che c’è ancora molto da scoprire in questo filone del pensiero libertario, che è stato battezzato così per la prima volta da Hakim Bey – il santone delle «utopie pirata» – nel 1987, inquadrato in termini più teorici dal politologo Todd May verso l’inizio degli anni Novanta e infine reso disciplina coerente e credibile dal filosofo Saul Newman nel suo libro From Bakunin to Lacan del 2001.

Dovendo ridurre all’osso: il post-anarchismo si focalizza sull’individuo, in tutte le sue forme di resistenza al potere. Una resistenza che non guarda alla macro-politica del socialismo né all’alienazione del liberismo, ma ai piccoli focolai di rivolta locale, alla forza di «dire no» del singolo di fronte al Sistema. Un anarchismo che guarda con orrore ai meccanismi di servitù volontaria ma anche alla retorica dell’Illuminismo, con tutta la sua incondizionata fiducia nell’autogoverno; un anarchismo, forse, più vicino a Camus che a Proudhon.

Per onestà nei confronti del lettore dirò che Saul Newman è prima di tutto un amico, molto gentile e disponibile, che ho conosciuto oltre un lustro fa grazie alla gentile intercessione di un altro amico, Federico Campagna. Da oltre dieci anni insegna Political Theory alla Goldsmiths University di Londra e i suoi saggi (tra cui l’ultimo Postanarchism, Polity 2016, e  The politics of Postanarchism, EUP 2011) sono molto apprezzati negli ambienti di sinistra a sud del Tamigi, e forse un po’ meno tra i militanti corbynisti. Infatti guai a prendere il radicalismo britannico come un blocco unico senza sfumature: affinità e divergenze saranno evidenti anche in quest’intervista, con effetti che lascerò ad altri giudicare.

Proviamo a definire il post-anarchismo con una metafora visiva.
Be’, la prima cosa che mi viene in mente è una persona che inizia un viaggio, senza una traiettoria ben precisa, senza una destinazione stabilita, ma che ha di fronte una serie quasi infinita di possibilità, ed è mossa da un forte desiderio di libertà e autonomia: se la strada davanti a questa persona è ostruita, allora ne sceglie un’altra; se è bloccata da entrambi i lati, scava un tunnel o scavalca il muro. Magari questa persona non sa esattamente dov’è diretta, o dove finirà, ma sa che dovrà continuare a muoversi; incontrerà sempre ostacoli, ma sa che li potrà superare. Il Post-anarchismo è una politica che inizia e non finisce con l’anarchia. Cioè presuppone una certa libertà ontologica, una molteplicità di azioni e di possibilità. È fondata – ma andiamoci cauti con le parole – sulla possibilità sempre presente di pensare e di agire differentemente, non importa quali siano le restrizioni. Non è «strategica» nel senso di essere diretta verso la cittadella dell’anarchia – perché in essa potrebbero esserci altre restrizioni – ma piuttosto pensa tatticamente: nei termini delle pratiche quotidiane, nel momento presente.

Quindi possiamo dire che il pensiero post-anarchico è una forma di processo etico, piuttosto che un insieme formale di prescrizioni dogmatiche.
Esatto. Il punto non è fissare delle «istruzioni per l’uso», o delle regole definitive su cosa sia l’anarchismo o cosa debba aspirare ad essere, o su come dovrebbe apparire una società anarchica. Ci sono diverse possibilità, che possono essere più o meno appropriate a seconda delle circostanze, e sono queste circostanze che definiscono il rapporto tra questo tipo di anarchismo e l’etica. Allo stesso tempo, però, bisogna stare attenti a non confondere il post-anarchismo con un’interpretazione troppo realista della politica, una realpolitik. Le questioni etiche sono tutte ancora lì, sul piatto. Non vanno mica evitate. Anzi, il post-anarchismo ha a che fare soprattutto con l’etica delle nostre vite, con il modo in cui ci rapportiamo agli altri, in cui ci confrontiamo con le relazioni di potere, con il grado di vulnerabilità che ognuno di noi ha nei confronti della dominazione che gli altri ci impongono. Semplificando, potremmo dire che il modo in cui il post-anarchismo mette in connessione la politica con l’etica si gioca sul campo della «servitù volontaria»: il desiderio di dominare e quello di essere dominati sono due volti della stessa medaglia.

Ma se dobbiamo reinventare di continuo la nostra vita, puntare senza tregua a nuove esperienze e ad una riconfigurazione giornaliera della nostra etica, cosa sarà considerato un «successo» e cosa un «fallimento»?
Be’, è una domanda difficile proprio per quello che ti dicevo prima, per il tentativo che dovremmo fare di non incorniciare la misura del nostro e dell’altrui «successo» all’interno di confini universali. È piuttosto qualcosa che andrà giudicato dal singolo, e dai collettivi di individui. Forse esiste davvero un modo oggettivo per definire i progressi di una società, di una comunità, a partire dalle sue condizioni di vita, dal grado di felicità di chi la abita. Ma a me sta cuore evitare gli standard etici. Sarebbero solo un’altra forma di dominazione.  

Una domanda che vorrei farti da tempo è sull’importanza che ha avuto per te Peter Lamborn Wilson, ovvero Hakim Bey. Letto nei primi anni dell’università, per me è stato illuminante, per quanto mi rendo conto che si tratta di un autore controverso e forse poco rigoroso. Ma penso all’interpretazione anarchica che lui dà ai collettivi pirateschi, oppure il modo in cui lui parla del potenziale rivoluzionario dell’amicizia, della convivialità contro la cultura del «busyness» – l’essere impegnati per il gusto di sentirsi impegnati. Io l’ho sempre trovato una sorta di Ivan Illic sotto Lsd.
Quello che scriveva Bey sulle TAZ o «Zone Temporaneamente Autonome» è molto importante, perché ci ha fornito di un terreno fertile su cui riformulare il pensiero di sinistra contemporaneo, e immaginare una trasformazione della società e delle nostre vite al di là delle grandi narrazioni rivoluzionarie. Però, se devo essere sincero, l’influenza di Bey sul mio lavoro è stata piuttosto marginale.

Quali sono le Zone Temporaneamente Autonome che si possono creare oggi?
Sicuramente sono occasionali, localizzate, dalla forma mutevole, e vanno adattate alle circostanze. Più che essere qualcosa legato a forme di protesta le immagino come nuovi modi di relazionarsi, di scambiare saperi e idee. Indeterminabili e rizomatiche [la metafora del rizoma è usata dai filosofi Gilles Deleuze e Felix Guattari in una delle loro opere principali, Millepiani, per indicare un tipo di ricerca filosofica che procede per multipli, senza punti di entrata o uscita ben definiti e senza gerarchie interne, NdR]. Insomma qualcosa che non ha la coerenza o la persistenza di una comunità stabile. Penso alle zone autonome nei termini in cui Max Stirner parlava della «unione di egoisti», intendendo un’associazione che si forma da sé, nella quale ognuno è libero di aggregarsi o andarsene a piacimento. Sono forme non oppressive per provare a ragionare sul solco che divide l’individuo dalla comunità. Oggi penso, per esempio, alle reti di persone che danno una mano ai migranti «illegali», o quelli che si organizzano fuori dalle ONG per occupare case sfitte, per proteggere l’ambiente.

Ma quali sono, se ce ne sono, le battaglie nelle quali l’intellettuale contemporaneo dovrebbe davvero impegnarsi?
Ritengo che gli intellettuali, fuori dalle mura accademiche, abbiano certamente un ruolo pubblico: quello di denunciare gli eccessi del potere e l’offuscamento della verità. In una parola: giocare a fare i parresiasti, andare contro il consenso democratico e il cosiddetto «senso comune» della gente. Al tempo stesso, non dobbiamo farci troppe illusioni sulla loro importanza, che è spesso davvero limitata. La maggior parte delle volte nessuno li ascolta, e finiscono così con l’essere voci isolate e solitarie, sgradite alla società. Platone diceva che i filosofi sono figure oggetto di derisione e di ridicolo. È pur vero che siamo in un’epoca di crescente politicizzazione della sfera privata, di gruppi sociali in guerra tra loro, e con le vecchie divisioni tra destra e sinistra che emergono con vigore. La politica bipartisan è stata spazzata via, e forse in questo clima ha più senso essere un intellettuale pubblico di quanto lo fosse qualche anno fa.

Quello che penso è che l’identità sia come una prigione, un vicolo cieco per qualsiasi politica radicale. Un concetto essenzialista, che limita le possibilità della soggettività anche quando viene agitato dalla sinistra.

Ritornando all’etica e alla politica, come possiamo evitare di applicare un giudizio nei confronti di comportamenti individuali senza dimenticarci della famosa «sovrastruttura», dell’organizzazione sociale che spesso li determina? Prendiamo come esempio il caso del produttore Harvey Weinstein. A me pare che la misoginia di Weinstein fosse tollerata e rafforzata dal fatto che le attrici di Hollywood lavorano in un settore scarsamente cooperativo, molto verticistico, in cui la scarsità dei posti disponibili viene usata come uno strumento coercitivo. In un certo senso, la mano del produttore violento era quella invisibile di Adam Smith.
Be’ il caso di Weinstein e l’intera preoccupazione mediatica sulle molestie sessuali oggi è un esempio perfetto del pensiero borghese. Cosa ci può essere di più borghese della narrativa sulle «coraggiose donne di Hollywood», finite pure sulla copertina di Time, che parlano molti anni dopo di come sono state aggredite da questo predatore? Qui parliamo di donne a loro volta molto potenti. Dov’è la preoccupazione dei giornali per le donne che lavorano, per quelle senza un soldo, le donne dei paesi che bombardiamo, che vivono in società fortemente patriarcali e vittime di violenze persino più gravi?

Stai dicendo insomma che bisogna fare un distinguo tra i vari livelli di violenza.
Dico che quando siamo chiamati a denunciare e condannare casi di sessismo e machismo dimenticandoci di problemi molto più seri, vuol dire che c’è un po’ di confusione in giro. E poi io penso che sia una forma di sessismo trasformare le donne in vittime impotenti della sessualità maschile, in persone che hanno bisogno di protezione dalle avances lussuriose degli uomini. Cosa c’è di più puritano, vittoriano di questo?

Sono sicuro che tu sia animato dalle intenzioni più progressiste. Però ho sentito spesso gli «egoisti» del post-anarchismo rigettare un certo tipo di femminismo, di politica dell’identità e dire cose del tipo: «sono divisivi per gli obiettivi che ci diamo di liberarci dallo Stato e dal capitalismo», oppure «i rapporti di classe sono tutto ciò che conta». Mi sembra che per la corrente post-anarchica troppa attenzione per la questione delle «identità» limiti il potenziale di ciascuno, chiudendolo a ciò che è al di fuori di quella identità. D’altra parte, c’è Judith Butler che ti dice che grazie alla teoria postmodernista è possibile immaginare un femminismo dall’ontologia aperta, aperto cioé verso questo tipo di intersezioni. Poi però qualcosa mi dice che i post-anarchici non sono grandi fan neppure del postmodernismo.
Mah. In realtà c’è moltissima Butler nel post-anarchismo, e nessuna antipatia per il postmodernismo. Poi, stiamo attenti a non confondere gli «egoisti» – in senso stirneriano –  con gli «egotisti». Per tornare alla tua domanda: quello che penso è che l’identità sia come una prigione, un vicolo cieco per qualsiasi politica radicale. Un concetto essenzialista, che limita le possibilità della soggettività; anche quando viene agitato dalla sinistra per difendere, giustamente, le minoranze e gli esclusi. Alla fine questo porta sempre a una forma di politica moralizzatrice, che ha più in comune con i conservatori di quanto vogliano ammettere i suoi sostenitori.

Un po’ quello che scriveva il compianto Mark Fisher nel suo articolo molto discusso sul «castello di vampiri»: l’attivismo socialmediale che ha come funzione primaria quella di propagare sensi di colpa, con un effetto paralizzante sull’impegno politico.
Be’ in fondo cos’è Trump, il populismo razzista, il nazionalismo bianco, se non una forma di politica identitaria, emersa come reazione alla politica identitaria e alle guerre culturali combattute dalla sinistra? Direi che nel migliore dei casi la politica identitaria di sinistra è una forma di neoliberismo culturale, che ci porta ad abbandonare le battaglie per l’economia o per il potere politico.

C’è qualche critico che dice che i post-anarchici hanno creato una sorta di fantasma ideologico chiamato «anarchismo classico», e lo hanno piazzato in un contesto in cui compaiono parole come «umanesimo», «razionalismo», «Illuminismo», a volte ridotte a macchietta. Proprio sull’Illuminismo vorrei chiederti: non è che i post-anarchici ci siano andati giù troppo duri? Non c’è proprio nulla da salvare?
Innanzitutto, la mia posizione sull’Illuminismo è simile a quella di Foucault: ci sono due Illuminismi, o meglio due narrative all’interno della tradizione illuminista. Una è quella egemonica, del razionalismo universalista: una «metanarrativa» che finisce per essere un progetto di potere e di dominio sacrificando ogni forma di vita, incluse quelle non umane; anzi, l’intero mondo naturale, in nome del progresso dell’Uomo. E poi però c’è anche uno spirito critico permanente, all’interno dell’Illuminismo, che agisce contro i suoi stessi limiti storici, e che può essere usato come arma di dissenso. Foucault diceva appunto che per parlare di Illuminismo dobbiamo sfuggire al suo ricatto: «o sei con me o contro di me». Ovviamente c’è una grande eredità illuminista da difendere, in tema di diritti dell’uomo, oggi più importante che mai. L’idea che il post-anarchismo o il post-strutturalismo rigettino tout-court i Lumi è un po’ una favoletta.

Come dovrebbero porsi i post-anarchici nei confronti delle narrazioni dominanti della scienza? In Italia alcuni si arrabbiano quando faccio del facile sarcasmo contro un certo scetticismo populista, «gentista» come dice qualcuno.
Infatti trovo interessante che nell’era di Trump e delle «fake news» salite al potere, la narrativa scientifica, che un tempo era l’unica egemonica, ora sembri costretta a inseguire. Ma penso pure che qui in Gran Bretagna i promotori della campagna per il Leave dall’Unione Europea rispondevano alle preoccupazioni degli economisti con frasi come: «la gente non ne può più degli esperti!». Mi ricordavano un po’ il giudice che dopo la Rivoluzione Francese mandò alla ghigliottina il chimico Lavoisier, dicendo che «la Repubblica non ha bisogno di saggi». Certo viviamo in un’epoca di profondo nichilismo e oscurantismo, due correnti stupidamente allineate col potere costituito, e quindi tocca agli scienziati fare i parresiasti. Io sono dalla loro parte, senza tentennamenti.

Violando la Legge spesso finisci per riaffermarla, perché sacralizzi quei confini come gli unici che valga la pena attraversare.

Piccola parentesi sul nume tutelare del post-anarchismo, cioè ancora lui: Max Stirner. Lo definiresti «post-Left», come fanno alcuni siti e accademici? Era vivo un paio di generazioni dopo la Rivoluzione Francese, ed era contemporaneo di Marx. Un tempo in cui ci si stava ancora raccapezzando con Hegel. Non mi sembra che all’epoca ci fosse molta sinistra di cui essere «post», allora.
Tradizione vuole che Stirner venga associato all’anarchismo individualista, in modo forse un po’ rigido, e per questo motivo è guardato male da molta sinistra e dagli anarchici più collettivisti. A volte è identificato addirittura con il libertarianesimo di destra! Però sono etichette che per Stirner non avrebbero alcun senso: lui puntava a demolire l’intera tradizione politica e filosofica del suo tempo, a ricostruirla su un nuovo terreno ontologico. Non può essere definito né socialista, né liberale, né tantomeno anarchico. Certo, poi c’era la polemica con Marx, che gli dedica buona parte de L’Ideologia tedesca e lo chiama ironicamente «Santo Max». Stirner però non era critico soltanto del comunismo ma di tutti gli idealismi che sacrificano l’individuo sull’altare delle astrazioni. Da questo punto di vista sì, possiamo definirlo il primo «post-Left», nel senso che intendiamo oggi nel mondo accademico.

Dicevi che le zone autonome possono essere «localizzate». In altre parole, l’oppressione può essere contrastata meglio quando le pratiche anarchiche sono adottate localmente e strategicamente. A questo proposito ti chiedo se hai mai seguito questo dibattito sul «neomunicipalismo radicale», una corrente di pensiero secondo cui il modello di città neoliberale va combattuto proprio con il «local», con le città «ribelli» sul modello di Barcellona e del suo sindaco Ada Colau, oppure la Napoli di De Magistris e tutte le «città santuario» che promettono di proteggere gli immigrati senza documenti. Se ne parlava tempo fa anche sulla rivista americana Roar. Forse perché, aggiungo io, non sembra esserci dietro l’angolo la vittoria di grandi coalizioni di sinistra a livello nazionale…
Sì certo, il municipalismo radicale è una parte importante della tradizione anarchica, fin dai tempi di Kropotkin, che scriveva di come le città-Stato autonome venissero «sussunte» dagli Stati sempre più centralizzati. Oppure, più recentemente, Murray Bookchin ha provato a rinvigorire la tradizione municipalista. Credo proprio che l’idea di reclamare spazi civici per sviluppare spazi di autonomia sia importante e positiva. Tu mi parli del caso di Barcellona, ma io ricordo che già durante la Guerra civile spagnola gli anarchici erano stati in grado di gestire intere città. Per tornare ai giorni nostri, penso ai movimenti delle Slow Cities o dei gruppi fortemente localizzati a difesa dell’ambiente come i NoTAV. Credo che l’orizzonte politico delle lotte radicali debba sempre più essere quello della protezione dell’ambiente e delle tradizioni locali, piuttosto che una rivoluzione che punti alla presa del potere statale. Anche perché, diciamola tutta, «potere statale» oggi non significa più niente.

Con una gioventù della classe media sempre più impoverita, sfiduciata, anti-utopica – almeno qui nel sud Europa, non so com’è la situazione a Londra – credi che ci possa essere spazio, per i post-anarchici del futuro, anche per la strada dell’illegalità, della criminalità organizzata, come forma di resistenza e di reazione al risentimento? O il complesso militare e di sorveglianza dello Stato non lascia più spazi da questo punto di vista?
Il concetto di illegalismo è interessante e si ricollega spesso con la tradizione individualista, egoistica in senso stirneriano. Però bisogna stare attenti: a volte Stirner sembra applaudire l’attività criminale, a volte dice che nel crimine c’è lo stesso tipo di struttura morale e di gerarchie che c’è nello Stato. Quindi violando la Legge spesso finisci per riaffermarla, perché sacralizzi quei confini come gli unici che valga la pena attraversare. E invece non è così. Io non ho nulla contro alcune pratiche di illegalità non violenta tipo mettere su un business in nero, rubare l’elettricità, l’hacking, ecc. Ma credo sia molto più interessante a livello concettuale essere indifferenti alla Legge.  Questo significa che a volte dobbiamo saper essere prudenti, senza far del male a nessuno; essere persino cittadini modello, se necessario. E poi però bisogna saper ignorare la Legge quando è irrazionale, oppressiva, antietica. Lo scontro diretto con lo Stato ormai significa soltanto autodistruzione.

Ma quali autori hanno ispirato di più il tuo lavoro?
Bruno Latour, Michel Onfray, Catherine Malabou, e soprattutto Giorgio Agamben e Jacques Ranciere, che ritengo sorprendentemente vicini al pensiero post-anarchico. Anche se loro direbbero il contrario.

Per concludere, qualche consiglio di lettura per chi voglia raccapezzarsi di più nel mondo post-anarchico?
Oltre ovviamente ai miei libri, direi The Political Philosophy of Poststructuralist Anarchism del mitico Todd May, Post-Anarchism: A Reader di Duane Rousselle, e l’antologia The Palgrave Handbook of Anarchism di Matthew Adams, che dovrebbe uscire a breve.