Porno, mestruo e femminismo

Agli antipodi del patinato «porno per donne» di Erika Lust, per una rilettura dell’universo realistico e crudo di Dana Vespoli

«If porn was rock n’ roll, I’d be The Velvet Underground.»
Dana Vespoli

Dana Vespoli è struccata, ha l’aria stanca e i capelli arruffati. Comodamente seduta sul suo divano accanto a un James Deen visibilmente più giovane ed energico di lei, si avvia a demistificare l’amplesso furioso che avverrà nel giro di pochi minuti. James Deen, attore pornografico noto per il viso angelico e per il corpo minuto, elegante e privo di tatuaggi, è uno dei coprotagonisti dell’apprezzatissima serie Dana Vespoli’s Real Sex Diaries, iniziata nel 2014. In questa sorta di diario sessuale durato due anni, la regista e performer di Portland ha utilizzato immagini sessualmente esplicite per contestare e complicare le rappresentazioni dominanti di genere, sessualità, razza, etnia, classe, età e tipo di corpo, esplorando il concetto di desiderio, potere, bellezza e piacere contro i limiti della gerarchia di genere. La forma-diario traccia una linea sottile fra pubblico e privato: la narrazione familiare degli atti sessuali, delle fantasie, delle parafilie e dei feticci trascende il senso di osceno, catapultando lo spettatore in un’intimità che ricalca i connotati del porno amatoriale. 

Vespoli è l’indiscussa protagonista del suo lavoro: il POV (punto di vista filmico) è quasi sempre il suo. «Non sono una donna in ostaggio» scrivevano Annie Sprinkle, Marlene Willoughby e Gloria Leonard durante le Porn Wars femministe degli anni Settanta e Ottanta, rivendicando il diritto a quello che le femministe antiporno schedavano come sfruttamento e oggettificazione. Analizzando il lavoro di Vespoli, in effetti, è difficile scorgere «una donna in ostaggio»: nella narrazione femminista mainstream che vede le attrici pornografiche come vittime infelici e fra loro identiche di una marcia forzata verso la tratta chiamata «pornografia», Dana Vespoli è la protagonista di una passione che diventa lavoro che diventa stile di vita, un po’ come potrebbe accadere a una qualsiasi fortunata partecipante di Masterchef. In fondo, è lo stesso stigma sociale ad accomunare cucina e sesso: la convenzione che le donne dovrebbero essere disposte a prestarvisi solamente gratis. Chi ha detto che fare la modella porno non può essere una prerogativa o una professione fra tante? Chi ha deciso che la pornografia è un marchio indelebile e decontestualizzato? La storia professionale di Dana Vespoli, è una sorta di manifesto pro-sex eclettico, non meno politico in termini di genere della Annie Sprinkle’s Herstory of Porn. È infatti la storia di una donna normale, istruita, con comunissime passioni e hobby, lungi dallo scegliere il porno a causa di drammi o in seguito a traumi, come afferma la corrente femminista antisex. Negli anni Novanta, mentre le femministe contrarie al porno – dopo aver stilato una proposta di ordinananza antipornografia in difesa dei diritti civili – occupavano i sexy shop,  Dana Vespoli, che allora era solo Christa Walker, studiava letterature comparate e praticava il cannottaggio (lo pseudonimo Vespoli proviene, appunto, da una nota marca di barche sportive). Mentre la nota femminista radicale Andrea Dworkin pubblicava Life and Death. Unapologetic writings on the continuing war against women – in cui ribadiva che «il porno è la teoria e lo stupro la pratica» – Christa iniziava a lavorare come spogliarellista presso il celebre Mitchell Brothers O’Farrell Theatre di San Francisco. Nel 2003, un anno dopo Heartbreak. The political memoir of a feminist militant della stessa Dworkin, Dana Vespoli debuttava infine nella serie di Ed Powers Dirty Debutants, all’età di 31 anni – la stessa in cui tante sue colleghe, presumibilmente, si ritiravano. E mentre le femministe radicali come Dworkin e Steinem asserivano che non esiste un modo emancipato di praticare il sex work e che la rappresentazione erotica è sempre corrotta dallo sguardo maschile, Vespoli la ribaltava da dentro, inserendo concetti come «età», «etnia» e «classe sociale» nell’universo variegato del porno. 

Nel suo Porn Studies, Linda Williams faceva notare come i dibattiti femministi circa la possibilità o meno che la pornografia dovesse esistere siano impalliditi di fronte al semplice fatto che le pornografie sono divenute presenza fissa della cultura popolare. In un simile contesto, anche il mercato del porno femminista sta non a caso conoscendo un momento di slancio, per quanto riguarda sia la pratica che la vocazione politica di chi lo produce: tantissime performer, registe e produttrici si definiscono apertamente attiviste femministe, a cominciare dalla ormai celebre Erika Lust. Allo stesso tempo, come scrive Giovanna Maina in «Cum on my Tattoo»: Le pornografie alternative tra comunità, politica e mercato, è innegabile il ruolo centrale di una certa pornografia nel processo di legittimazione culturale  delle comunità LGBTQ. Il porno queer è uno dei pochi mezzi a disposizione per raccontare esplicitamente le storie delle identità marginali, dei secondi, terzi, quarti sessi e per rendere reale e autentico quello che fino ad allora è sempre stato desiderato ma taciuto. 

Il porno di un’attrice/produttrice/regista come Vespoli sfugge alle definizioni, ma è certamente femminista anch’esso – sebbene in maniera diversa da quello patinato e affetto da pruderie firmato dalla già citata Erika Lust. I dettagli delle contratture del viso e i genitali in primo piano affermano che non è necessario abbellire la visione pornografica maschile ed eterosessuale per rovesciarla. Una regista di porno donna non è costretta a scegliere inquadrature languide e set ben ammobiliati. Una regista femminista di porno non è obbligata a essere refrattaria a una rappresentazione realistica e a volte brutale della sessualità: l’oggettificazione, se demistificata e spiegata, può non essere eccitante per i soli uomini etero. Una regista di porno donna, anche se bisessuale e thailandese per metà, non è per forza una pedina del dominio maschile.

Non è un caso che sia la casa di produzione scelta da Vespoli sia la Evil Angel, associata a nomi come Belladonna o Valentina Nappi, evocativa di donne che traggono profitto dal pubblico che riescono ad ammaliare in rete grazie alla loro inventiva e al loro desiderio più che di milionari maschilisti alla Hugh Hefner. Nell’universo-mondo del porno, è una casa di produzione che a suo modo sfida gli standard dei colossi mediali introducendo un concetto come «owning your own movies»: fondata nel 1989 da John Stagliano, gestisce la produzione, la distribuzione, la promozione e le vendite dei film, ma consente ai suoi registi di possederli e di incarnare una propria identità stilistica. A sua volta, nei lavori prodotti con Evil Angel, Dana Vespoli si oppone apertamente a una classificazione piatta e binaria della sessualità, aprendo la strada alla scoperta del piacere e della riappropriazione del corpo delle donne da parte delle donne. E se è vero che chi dichiara di operare con una «prospettiva femminile» dimentica in genere che non tutte le prospettive femminili sono uguali – e che fare supposizioni su cosa sia universale per le donne è sempre fazioso e limitante –, il porno di Vespoli funziona proprio per la sua mancata pretesa di universalità. Nel momento in cui la sua prospettiva è apertamente personale, parziale, soggettiva, l’effetto empatia è immediato: è lo stesso «effetto prima persona» di molti romanzi di formazione. 

Il porno femminista, e in particolare quello sui generis di Dana Vespoli, si propone di promuovere pratiche estetiche ed etiche che intervengano nella rappresentazione sessuale dominante e che mobilitino una visione collettiva del cambiamento, in una sorta di «attivismo erotico». Questo attivismo erotico, che non è esattamente omogeneo o coerente nelle sue forme, funziona dentro e contro il mercato per immaginare nuovi modi per immaginare il genere e la sessualità nella nostra cultura. D’altra parte la pornografia, nell’immaginario comune, presuppone sempre un certo coefficiente di oscenità. L’osceno è definito in base a quello che avvertiamo come una sorta di limite – o più precisamente in base a quello che ci hanno insegnato ad avvertire come una sorta di limite. Ecco: per non fare che un esempio, storicamente le mestruazioni fanno parte di questo limite; una donna col ciclo risulta sgradevole, malaticcia, indesiderabile. Lo stesso porno gonzo nella sua versione tradizionale non mostra mai le mestruazioni, e se lo fa non è certo in modo realistico: il gonfiore è limitato al seno, il dolore è un invito ammiccante, il disagio non è contemplato. Dana Vespoli invece ha davvero il ciclo che filma: sospira di dolore, il tampax è un dettaglio preciso, il filo bianco che invita lo spettatore ad accettare l’eccitazione di fronte all’innominabile. A essere messa in atto è una normalizzazione di qualcosa che le pubblicità tramutano in un inoffensivo liquido blu e trasparente che non ha niente a che vedere col vero sangue mestruale – quella faccenda scomoda, sporca, dolorosa, spiacevole. 

La normalizzazione del ciclo di Vespoli, in fondo, è una sineddoche di tutta la sua pornografia, una pratica orientata al cambiamento, al nuovo, all’indicibile quotidiano femminile. Mostrare il ciclo significa mostrare un corpo che prova dolore, ma che impara a conviverci senza nasconderlo, che soffre senza particolari eroismi e desideri, ma che non soffoca nei suoi limiti. Oppure, nelle parole della stessa Vespoli: «Scenes that involve rough sex or women contorted in pain confuse a lot of people. They ask me how I can possibly want to show women hurting and call myself a feminist. My answer to that is that I refuse to police women’s sexual pleasure, in whatever way it manifests.»