Politica della (bassa) frequenza

Dai Metallica usati come strumento di tortura alla sound system culture giamaicana, il suono è un’arma: di piacere o di guerra?

Pubblichiamo un estratto dal libro di Brian D’Aquino Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora (Meltemi 2022), ringraziando l’editore per la disponibilità.

Secondo Steve Goodman/Kode 9, buona parte della discussione teorica circa le risonanze tra suono, culture musicali e relazioni di potere è viziata da un’assenza importante. La questione è essenzialmente di tipo metodologico. La critica musicale e le sue derivazioni culturali o culturaliste fanno spesso riferimento a un’idea di musica compresa all’interno in un continuum critico che trova i due estremi concettuali nelle idee di “testo” e di “contesto”. Considerare la musica come un testo da leggere vuol dire applicare il consolidato paradigma visual-linguistico-letterario a un’esperienza auditiva, non verbale ed essenzialmente affettiva, con risultati ragionevolmente dissonanti. Alzare il volume del contesto spinge invece a ricercare il senso della musica al di fuori dalla musica stessa, scivolando in un approccio deterministico in cui i suoni finiscono per essere il prodotto accessorio di qualcos’altro – formazioni sociali, culturali o economiche. Entrambe le prospettive sembrano inadeguate a intercettare il ruolo fondamentale svolto della materialità del suono rispetto al modo in cui la musica esercita un’influenza sugli ascoltatori.

Allo scopo di colmare questo “buco nero”, Goodman propone una “politica della frequenza”, capace di “tuffarsi nella materialità della sensazione” per portare alla luce “le dinamiche di potere all’opera nella distribuzione della vibrazione e nella produzione di affetti per mezzo del suono”. Un approccio che consente di muoversi con agilità in uno spazio che è sia concettualmente che materialmente denso, saturato di onde sonore e particelle in movimento, in cui gli individui sono fisicamente immersi e, in quanto potenziali consumatori, costantemente esposti alle dinamiche di abduzione di un “vibro-capitalismo”.

Come Goodman stesso riconosce, un certo grado di paranoia si accompagna a questo scenario. Filtrare la politica della frequenza attraverso l’attività di un reggae sound system consente invece di assorbire almeno temporaneamente lo shock, bilanciando il senso di claustrofobia con quello di eccitazione che a esso si accompagna in occasione di una dancehall session particolarmente affollata. In questo modo è inoltre possibile rendere evidente il modo in cui il potenziale affettivo del suono può essere reso operativo dal basso, nella doppia accezione del termine; e come effettivamente ciò avvenga, notte dopo notte, tune dopo tune, all’interno della mutevole geografia vibrazionale di una cultura sound system planetaria. Una politica della frequenza è ciò che permette di rendere operativo il potenziale politico del suono, rendendo la connessione tra la modulazione degli affetti e quella del suono come propagazione di vibrazioni meccaniche tangibile – o meglio, pensabile. Una politica della frequenza insisterà necessariamente sulle piccole variazioni e sulle minuscole alterazioni di stato; in altre parole, sulla dimensione della micropercezione, nel senso già inteso da Spinoza e ripreso da Brian Massumi. Non una percezione diminuita, ma “qualitativamente differente”, che non riguarda ciò che viene registrato coscientemente, bensì ciò che si percepisce “solo attraverso il suo effetto”.

Per ciò che concerne il suono, la frequenza è effettivamente una grandezza che insiste su una dimensione particolarmente ridotta. L’unità di misura a essa dedicata, l’hertz (Hz), si riferisce al numero di oscillazioni, o movimenti periodici, compiuti dall’onda sonora nello spazio fisso di un secondo. Per l’orecchio umano, lo spettro dell’udibile è solitamente compreso tra 20Hz e 20kHz, e si riduce ulteriormente con l’età. Ma, per quanto piccolo possa essere il suo dominio sugli assi dello spazio e del tempo, inversamente grandi possono essere gli effetti della sua modulazione se inquadrati su una scala più ampia. Un repentino cambio nell’equalizzazione delle basse frequenze, dagli avvolgenti 42Hz ai morbidi 58Hz ai più aggressivi 70Hz, difficilmente viene riconosciuto dai partecipanti a una dancehall session. Ciò nonostante, esso è immediatamente percepito da tutti i presenti, e con una certa intensità. Se ne possono presto verificare gli effetti attraverso la variazione del ritmo collettivo del ballo e delle posture adottate, nel maggiore o minore afflusso verso il bar, e più in generale in una modulazione nella qualità dell’atmosfera della serata.

Ritroviamo così un ambito particolarmente funzionale per l’osservazione della politica della frequenza nel lavoro di fine-tuning svolto dall’operator del sound system, che interviene sulle caratteristiche fisiche del suono attraverso il proprio, unico apparato tecnologico, affinché tutto suoni nel modo “giusto”. Loud, clear, round, crystal: la quantità di aggettivi che sono associati all’idea di “suono giusto” rende bene la difficoltà del linguaggio a esprimere tale concetto. Heavy, sharp, crisp, sweet: la risonanza con i più diversi ambiti della percezione chiama in causa una sensibilità multisensoriale e distribuita nel corpo. Qui non c’è alcun testo da leggere. Esiste invece un aggregato più o meno casuale di segnali elettrici e vibrazioni meccaniche, la cui percezione richiede una serie di abilità che eccedono le dinamiche culturali dell’ascolto, e che formano una particolare forma di conoscenza incarnata, attraverso cui l’attività di fine-tuning viene condotta e valutata.

Tra materialismo e metabolismo

Richmond Park, Kingston JA. Una calda mattina d’inverno del 2017. Protetto da un alto cancello si apre un ampio cortile. All’interno della yard insistono un deposito, un laboratorio per le riparazioni elettroniche, uno spazio per lavori di falegnameria, e l’immancabile bar che serve birre gelate. È il quartier generale di Jam-One, nonché la sede ufficiale della Jamaica Sound System Federation (JSSF). La compresenza delle diverse aree rende evidente la costellazione di figure professionali complementari che ruotano attorno al sound system come industria. A completare il tutto, una postazione per l’autolavaggio, con la quale Tony Myers spiegherà di essersi voluto tutelare “dagli alti e bassi del sound business”.

Tony Myers è il proprietario di Jam-One, sound system attivo a Kingston da oltre venticinque anni. In passato piuttosto competitivo nella scena dancehall locale, negli ultimi dieci anni ha gradualmente preferito dedicarsi all’attività di costruttore e tecnico. Jam-One è oggi una compagnia a tutti gli effetti, specializzata in progettazione, costruzione e riparazione di impianti audio in grado di soddisfare il difficile gusto locale. Tra i servizi offerti vi è anche il noleggio. Il Jam-One sound system viene costantemente modificato e perfezionato, allo scopo di mantenersi competitivo sul mercato. Dal 2012 Tony Myers è inoltre co-fondatore della Jamaica Sound System Federation, un’organizzazione formale che aspira a svolgere attività di coordinamento per la tutela e la valorizzazione dei sound system in Giamaica, in particolare riguardo l’impatto del Noise Abatement Act e delle più recenti politiche di acoustic zoning.

In Giamaica il sound business è un’attività che viene presa assolutamente sul serio. Estremamente competitiva, se condotta in maniera professionale e con la giusta dose di talento può offrire una concreta via di fuga dalle ristrettezze economiche in cui si dibatte buona parte della popolazione. D’altra parte, il mercato è decisamente ampio. Non c’è celebrazione, festività o ricorrenza che non preveda la presenza di una selezione musicale appropriata, e riprodotta in maniera altrettanto appropriata da uno o più muri di altoparlanti noleggiati per l’occasione. Tony Myers è in questo senso una figura molto rappresentativa. Egli riunisce in sé l’affidabilità del professionista, il talento dell’imprenditore, una lunga esperienza sul campo e la capacità di guardare oltre l’immediato, come dimostra il suo coinvolgimento nell’istituzione della JSSF. E ovviamente una grande passione per la musica, unita a un’attenzione maniacale per il modo in cui essa è riprodotta.

La sua visione in materia si rivela piuttosto organica. Nato in una famiglia con un background musicale, impara a suonare la chitarra in giovane età, per interessarsi al sound business solo in seguito. Per questo motivo, egli non trova una grande differenza tra la propria attività e quella del musicista:

I diffusori (boxes) sono come strumenti musicali… Così come puoi accordare uno strumento per suonare un basso differente, allo stesso modo puoi accordare il tuo diffusore. Ma devi farlo prima! Quando è finito, è già troppo tardi. Io ho imparato prima con gli strumenti, ed è la stessa cosa. Ascoltare una band che suona è come ascoltare un sound system. E un sound system non è troppo diverso da una chitarra…

Tony descrive la sua abilità in questo campo come qualcosa che si è andata formando in maniera “naturale […] ascoltando, sperimentando, imparando dagli altri, e provandoci da solo”. Tra i lavori in fase di ultimazione spicca un gigantesco altoparlante per le basse frequenze in attesa di verniciatura. Si tratta di un design inedito, che egli stesso ha elaborato e provveduto ad assemblare, e che costituirà la nuova bassline del Jam-One sound system. Se si dimostrerà efficace, altri sound system si rivolgeranno a lui per la realizzazione di questo specifico progetto. Il design di un diffusore acustico è un processo che richiede complessi calcoli matematici, ed è solitamente realizzato mediante software di simulazione molto complessi. Non sono sicuro che questo sia il procedimento seguito da Tony, che sull’argomento preferisce rimanere vago:

Sì, a volte mi piace sperimentare con i progetti… Ma nella costruzione c’è una sola regola da seguire: ascoltare le frequenze. Bisogna accordare il sistema sulle giuste frequenze. Se le trombe non stanno suonando le giuste frequenze, io so che non stanno suonando nel modo giusto. Se i tweeters non suonano nel modo giusto, l’intero sistema non suona bene. Bisogna sapere se tutto sta suonando nel modo giusto oppure no.

Interrogato più nel dettaglio circa la propria idea di “suono giusto” (right sound) e il modo in cui è solito effettuare le proprie valutazioni in materia, la sua risposta è tanto efficace quanto lapidaria:

Quando qualcosa non suona bene lo puoi percepire attraverso il tuo corpo. Quando le onde della musica sono sbagliate, succede qualcosa con il metabolismo del tuo corpo, si muovono delle cose all’interno del tuo corpo. Ma quando il suono è quello giusto, allora è tutto il tuo il corpo che si muove con la musica… Ecco come faccio a giudicare il suono. Alcune frequenze possono danneggiare il tuo sistema.

A questo punto non è più chiaro di quale sia il “sistema” a cui Tony fa riferimento; se quello costituito dal corpo dell’ascoltatore, o quello che in qualità di soundman si occupa di progettare, costruire e noleggiare. Natura e cultura, organico e artificiale, corporeo e meccanico trovano una inaspettata continuità. La dimensione affettiva, materiale, culturale ed economica del suono si sovrappongono, intercettando distinti campi semantici. All’interno di questo spazio, Tony Myers vive e lavora da oltre venticinque anni. Le sue parole danno una dimensione concreta alla politica del suono e al modo in cui questa viene resa operativa, attraverso una specifica politica della frequenza, nel contesto della cultura sound system giamaicana. Una metodologia concettuale ma decisamente practice-based, la politica della frequenza è anche ciò che permette di intervenire sul sonoro nell’ambito di ciò che Steve Goodman chiama sonic warfare. L’espressione sembra evocare immaginari da fantascienza dello scorso secolo; la guerra sonora è invece parte attiva non solo della pratica bellica, ma anche della vita quotidiana.

Rumori di guerra

Oggetto di lunga sperimentazione a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, lo sviluppo di vere e proprie armi sonore non ha mai conseguito i risultati sperati. Un’eccezione in materia è costituita dal LRAD (Long Range Acoustic Device). Inizialmente concepito per difendere le imbarcazioni dagli assalti dei pirati, si è presto dimostrato più efficace per disperdere la folla durante cortei e manifestazioni. A cavallo tra storia, mitologia e fiction, il suono in battaglia è stato invece più spesso impiegato con lo scopo di piegare il morale delle truppe avversarie suscitando terrore.

Lo storico Tacito racconta che i Germanici, nell’intonare canti di guerra all’indirizzo del nemico, erano soliti avvicinare gli scudi alla bocca allo scopo di ottenere un suono più cupo, mentre Flavio Giuseppe riporta il grido di guerra dei legionari Romani, che costringeva il nemico a tapparsi le orecchie “per non cadere preda di un cieco terrore”. Se la scena dell’attacco in elicottero al villaggio vietnamita accompagnato dalla musica di Richard Wagner assicura ad Apocalypse Now un posto d’onore nell’immaginario collettivo circa il legame tra guerra e suono, meno noti sono i dettagli dell’operazione Wandering Soul a cui la sceneggiatura si ispirava. Amplificando nella notte un mix appositamente registrato di rumori lugubri e voci spettrali, il VI Battaglione della US Army intendeva intimorire i Vietcong richiamando credenze locali sugli spiriti dei morti non sepolti.

Dopo aver sgretolato le mura della città fortificata nel racconto biblico, le trombe di Gerico riappaiono in forma di sirene ad aria installate sui bombardieri Stuka durante il secondo conflitto mondiale, il cui suono amplificava il panico del bombardamento imminente. Nel gennaio 1990 la caduta di Manuel Noriega fu accompagnata dalla musica rock e metal suonata ininterrottamente per tre giorni e tre notti dai militari americani all’indirizzo dell’ambasciata vaticana a Panama City, dove il generale si era rifugiato, per mezzo di un’imponente amplificazione appositamente installata sui mezzi militari. Più recentemente, la BBC ha reso pubblico l’impiego della musica “culturalmente offensiva” di Metallica e Skinny Puppy come strumento di tortura nel corso degli interrogatori di prigionieri iracheni durante la guerra del 2003. Nell’estate 2017 l’amministrazione Trump ritirava i propri ambasciatori da Cuba in risposta a presunti “attacchi sonori” di cui sarebbe stato vittima il personale diplomatico di stanza sull’isola. I funzionari manifestavano una serie di sintomi fisici e neuronali che furono descritti come “sindrome dell’Havana”. Lungamente discussi dalla comunità scientifica, la loro natura non è mai stata chiarita. 

Quelli elencati sono solo alcuni esempi del modo in cui il suono può prendere attivamente parte a conflitti politici e militari. Esiste inoltre un piano di conflitto meno evidente, ma di certo non meno importante. Qui il sonoro è costantemente mobilitato allo scopo di suscitare effetti compresi tra la paura e la gioia, dread e pleasure, attraverso le dinamiche di una modulazione collettiva degli affetti che induce sensazioni con lo scopo di attivare comportamenti. Una forma di “guerra a bassa intensità”, parte di un più ampio processo di militarizzazione della vita quotidiana che non passa necessariamente per la violenza strutturale di armi da fuoco e istituzioni repressive, ma si gioca tra il piano degli affetti e la materialità della sensazione, dove un potere distribuito o “liquido” viene esercitato attraverso le dinamiche della modulazione e del soft-control. Se nella tensione tra terrore e piacere il black noise è inscritto in maniera costitutiva, è qui che si manifesterà anche il suo potenziale politico.

Considerate all’interno di questo più ampio contesto, le parole di Tony Myers permettono una comprensione più puntuale del valore politico che è possibile attribuire al rumore nero come variabile ma coerente audioecologia tecnologicamente mediata. Anziché nella produzione di un’opposizione strutturale, i sound system giamaicani e le culture del basso che da essi derivano si esprimono politicamente tramite una combattiva manipolazione dello spettro sonoro; un rumore bellicoso il cui slancio vitalistico intende mobilitare lo spettro affettivo dal lato della gioia, piuttosto che da quello di una paura che sempre più si afferma come una pervasiva ecologia. Situate al di sotto della politica tradizionale, le variegate forme della bass culture globale vanno invece considerate nella loro dimensione estetico-strategica piuttosto che ideologica. La predatoria logica microcapitalista che accompagna il rumore nero nelle sue molteplici manifestazioni si può così concretizzare nella forma di un’economia parallela e informale, senza che ciò vada a intaccarne lo slancio vitale o il potenziale trasformativo. È una “subpolitica del suono”, come la descrive Goodman, sottolineando il legame tra la mancanza di un’agenda politica leggibile che spesso accompagna queste microformazioni e la parte bassa dello spettro sonoro dove esse sviluppano le proprie tattiche di modulazione sonora e affettiva. Attraverso un coinvolgimento che si fa tattile e non più solo emotivo, in questa porzione dello spettro acustico la specifica materialità che definisce queste temporanee ecologie sonore evolve in una forma di peculiare materialismo – dal basso o del basso – che riesce a dare conto di un potenziale politico che eccede la dimensione del testo. Oltre il limite del linguaggio, ciò che resta è l’insorgente dissidenza del rumore.

Brian D’Aquino è dottore di ricerca in Studi internazionali, dj e produttore musicale. Collabora con il Centro Studi Postcoloniali e di Genere e con la Technoculture Research Unit presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” ed è tra i fondatori del gruppo di ricerca Sound System Outernational. Dal 2004 suona il Bababoom Hi Fi Sound System.