Piccole note sull’inclusionismo linguistico

Un’erudita e necessaria disamina della questione controversa del linguaggio inclusivo

Mi è stato concesso l’uso di questo spazio di editoria per così dire evanescente al fine di presentare avanti alle vostre menti, se non proprio alle vostre intelligenze (che mai vorrei far coincidere dacché non ne ho certezza che ciò succeda), affilate, spanate o di altre forme che siano (tenendo conto che può non comparire l’arguzia) l’enigma, come si evince dal titolo, dell’inclusionismo linguistico, del porre nel flusso dell’umano almeno un bilanciamento.

Ho in serbo quindi una del tutto legittima proposta, così come ugualmente legittimo è un eventuale diniego da parte vostra, spero improbabile, e lo spero dal profondo del mio essere. Ché mai vorrei, in questo anfratto di libertà risicata ma vivace, sincera, approfittare della pazienza e del tempo sempre vostro, ma poi cosa sarà mai il tempo se non è condiviso? Dato che tra le molteplici virtù avrete sicuramente tempo e pazienza ma più segnatamente tempo, sicuramente prezioso (ben più il vostro del mio e lo presuppongo con una certa serenità d’animo e senza alcuna traccia di acrimonia). 

Desidero portare quindi il discorso oltre la mia persona, non così cardinale nella comprensione del mondo o almeno per la parte di esso. In quei quei pochi attimi almeno, nei quali ci si incastona tra il mio pensiero e presumibilmente il vostro. Sempre che questa raccordo ci possa mai essere, dacché non ho modo di fare la vostra conoscenza e né di verificare che oltre alle virtù dovreste avere (ennesima mia presunzione) anche delle falle, tra le quali potrebbero sì comprendersi un certo imbarazzato intralcio nella comprensione (l’imbarazzo è più mio che vostro).

Un tema facilmente scognito, dicevo. Blandamente compreso, se non proprio dileggiato, canzonato, preso sotto gamba, blandito e irriso. Una immissione, fors’anche un’iniezione, o in termini più edibili un’infornata, nel linguaggio e nella lingua italiana di qualche cosa percepita come una alterità, un abominio. La qual cosa ha provocato tutto un ciangottio, una baruffa, un parapiglia come se non se ne vedevano da decenni, in nome poi del tra più effimero dei frutti dell’ingegno umano. Uno scuotimento che si è scatenato non in ogni qualsiasi circolo, sia chiaro, ma solo in alcuni tra questi e in alcuni esemplari di essere umano. Ertisi in difesa e in nome di un ben più vasto popolo che nella migliore delle ipotesi nulla sa di questi ragionamenti oltre che in nome di una presunta nonché incontrovertibile illibatezza della lingua madre. 

Non solo la lingua ma tutto è per intero, o perlomeno in buona parte, commisurato alle maschie esigenze, immagini e rappresentazioni. 

Contrapposta a questi individui bercianti tutta un’altra parte della popolazione che con caparbietà considera questa immissione, questa difformità come un’urgenza. 

Un emblema di quella parte che richiede alla prima come di aver riconosciuto almeno una parvenza di dignità nell’esistere. Attraverso non soltanto la lingua, ma nelle professioni, nei salari e nell’esistenza tutta, che se mi dovesse capitare di descrivere tale condizione a popoli trai più lontani sembrerebbe quasi una bizzarra forma di sudditanza e dominio. E non solo la lingua ma tutto è per intero, o perlomeno in buona parte, commisurato alle maschie esigenze, immagini e rappresentazioni. 

Una torma di individui considerati indeducibili, indecifrabili, scialbi e insulsi, alla stregua di figuranti nella commedia della vita e soprattutto della morte (qui intesa sia come decesso augurato nonché provocato ma anche come sterilità e relativissima incapacità di proporre al mondo degli individui). Altro non sono che la cosiddetta altra metà dell’amore, che sia femminea, invertita, mezzinvertita, mezzafemmina, mezzuomo. Sembrerebbe quasi che si tratti di individui carenti del tutto dell’integrità necessaria a vivere. Quanto più di carente e bisognoso si possa immaginare (senza però, consiglierei, di sconfinare nell’esagerazione fantastica, nella fantasmagoria copulatoria). 

Dove si trova quindi lo spazio per questi mezzi individui se al contempo nella lingua così come nel mondo sensibile non vi potrà essere che unicamente un posto di ripiego? Si può ipotizzare un troncamento in due metà esatta di ogni parola che si riferisce a loro come a replicare la mancanza di interezza?

La qual disputa in fin dei conti potrebbe sembrare agli occhi dei più una imponente perdita di tempo, una barbaronaggine, una quisquilia in confronto ai mali del mondo. 

Ho quindi pensato di usare il mio ingegno, il mio raziocinio, le mie conoscenze (con in più una punta di gaiezza e di umiltà) nella ricerca di una stabile soluzione al dilemma. Avevo dalla mia parte tra le virtù migliori a risolvere questo inghippo. Notti insonni, decine e decine di pagine scritte, vocabolari su vocabolari. Avrei voluto sì com’era mia intenzione nell’ideazione di questo scritto, quando proprio l’idea si era fatta largo tra le nebbie frugali dei pensieri, presentare una proposta, avendo millantata di celarla nella manica. 

Senonché proprio qui, al culmine di questo scritto, percepisco una qual stanchezza nel pensiero, nel dover quasi forzosamente trovare una qualche forma di risoluzione che provenga dalla mia persona, ripeto, per niente cardinale. E ne ho la più amara certezza a questo punto dacché ho contezza del fatto che, più che trovare una risoluzione, ho indugiato nel comporre una dissertazione che non avesse l’ombra di un contraddittorio, proprio del testo vergato e non del dialogo. 

Senza che io possa vedere occhi roteanti verso il cielo in segno di disapprovazione o sguardi smarriti tra ben più audaci pensieri. Non che non possiate a questo punto farlo ugualmente. Sulla pagina scritta si avverte quantomeno la distanza, pressoché necessaria, la qual mi pone perlomeno al riparo da reazioni di gran lunga tra le più legittime. Le quali però potrebbero altresì ferire la mia persona, in modi che la mia mente e il mio animo non sono in grado nemmeno di immaginare.

Vi propongo quindi di non prendere in considerazione quanto scritto, dacché ne prevedo derivare prostrazione unita al non troppo fugace pensiero di aver fatto perdere voi del tempo. Per quanto ho il dubbio che avreste usato in modo più produttivo e fecondo.

Monge Alegabe Nasce a Vigolo Vattaro nel secolo scorso, autodidatta nonostante le rimostranze della famiglia d'origine, che voleva Monge avviasse una colonia di capre, riesce con fatica ad affermarsi nella scena culturale d'oltralpe con una serie di raccolte poetiche come "Tu che per me sei il barbaglio" (Modeste Edizioni) e "Rimanere all'asciutto in tempo di ascessi" (Ambrogio Pescella Editore) oltre a saggi sulla cultura europea come "Abbracciavamo i confini dell'eterno in apparente contraddizione" (Edizioni San Giustino) e "Ripensare la distopia. Verso un'Europa nettamente più tragica" (Edizioni del Pino).