Party on the CAPS

Frammenti sparsi del racconto cinematografico

Pubblichiamo un brano tratto da Cinema futuro di Simone Arcagni, in tutte le librerie da domani.

Cinematografia come terapia di gruppo. I pazienti sono stati incoraggiati a formare un’unità di produzione cinematografica, ed è stata data loro piena libertà di scelta quanto al soggetto, al cast e alle tecniche di lavorazione. In tutte le occasioni sono stati prodotti film esplicitamente pornografici. Sono stati esaminati in particolare due lavori: 1) una sequenza montata a brevi spezzoni che utilizzava parti dei visi di: a) Madame Ky; b) Jeanne Moreau; c) Jacqueline Kennedy (al giuramento di Johnson). L’uso di un congegno stroboscopico nascosto ha dato luogo a un’eccitazione ottica nel pubblico, culminata in disturbi psicomotori e vere e proprie aggressioni alle foto di scena dei personaggi appese alle pareti della sala. 2) Un film sugli incidenti automobilistici concepito come una versione filmata del libro Unsafe at Any Speed (Insicurezza e velocità) di Nader. Si è scoperto casualmente che le scene al rallentatore di questa opera avevano un deciso effetto sedativo, abbassando la pressione sanguigna, il polso e la respirazione. I pazienti stessi producevano liberamente immagini ipnagogiche. Il film, come si constatò, aveva anche un forte contenuto erotico.

 J.G. Ballard, La mostra delle atrocità

Emarginati e reietti di tutto il mondo si sono organizzati sull’isola di CAPS. Quello che doveva essere un istituto di pena, un luogo di isolamento, si trasforma nell’utopia di un’altra società possibile. Party on the CAPS è l’opera di Meriem Bennani che ci trasporta in un mondo in cui il teletrasporto ha sostituito gli aerei e CAPS è un campo profughi trasformato in un’isola per immigrati clandestini. A raccontarci la vita nel campo, a trasportarci tra la sua gente e nei suoi luoghi, è un simpatico coccodrillo di nome Fiona, «emissario» che entra in diretto dialogo con noi. Non si tratta di un attore, bensì di una sorta di alter ego della regista

e produttrice, una figura che ha il compito di informarci e di guidarci. Ma dove? Si tratta di un film «sparso» in un ambiente ampio, proiettato, sì, su uno schermo, ma posizionato di modo da rendere possibile vederlo seduti, in piedi, su architetture composite che possiamo scegliere se usare o meno, con una gigantesca lente che permette di zoommare su alcuni punti della proiezione. È un film fatto di scarti, di avanzi televisivi e della rete, ma

anche un film di fantascienza nel quale vengono affrontati temi come lo sfollamento, l’impatto delle biotecnologie, le questioni legate all’immigrazione e alla privacy, la videosorveglianza e le nuove tecnologie di controllo, come i droni in mano all’esercito americano che circondano l’isola.

Ma quello che poi realmente vediamo sono immagini documentarie di una festa della comunità marocchina. Immagini sporche, riprese non professionali che affastellano un immaginario venato di un sottile umorismo e di un realismo che potremmo definire «magico».

Bennani costruisce il suo film in un ambiente complesso, dando allo spettatore la possibilità di muoversi, di avvicinarsi, di immettere la propria presenza fisica all’interno del film. La narrazione, inoltre, prevede una sorta di movimento centripeto: una introduzione molto schematica, quasi più letteraria che cinematografica, con un rimando evidente al genere fantascientifico, e più nello specifico distopico.

In Party on the CAPS Bennani decide di adottare una narrazione non lineare, contravvenendo così alle regole d’oro del cinema classico, e soprattutto si nega come regista e demanda, non tanto la narrazione quanto proprio l’esecuzione del film, a un alter ego. Non si tratta di un esperimento isolato, basti vedere anche l’opera This is the Future di Hito Steyerl. Ancora una volta si tratta di un’installazione, e quindi di un ambiente da abitare, medializzato, ma, quasi a volersi distaccare e poi di nuovo riconnettere con la tradizione cinematografica, con un enorme schermo che vi si staglia al centro. Quello di Steyerl è un giardino attraversato da passerelle e animato da piante e fiori palesemente sintetici. Al centro di questa entità botanica artificiale troviamo un teatro, nel quale un’intelligenza artificiale discetta
di presente e futuro. Ancora una volta un ambiente «vivo» innesca una riflessione sulle discrepanze tra reale e virtuale. This is the Future è un tentativo emblematico di ricongiungersi con il cinema: l’arena creata di fronte al grande schermo rifunzionalizza il cinema, dopo averlo disgregato in molteplici schermi montati in una architettura assai complessa. C’è anche spazio per il racconto, anche qui a metà strada tra il documentario e il reportage. L’intelligenza artificiale racconta, interviene, spiega, si assume le funzioni di oratore e guida, ma i suoi discorsi sono quanto meno effimeri, spesso surreali, decentrati, fallaci. Il computer di Steyerl genera immagini e voci, e gioca a fare il cinema, ovviamente secondo una propria logica personale. Non sappiamo se credere o meno al nostro narratore che ci racconta il presente e il futuro delle città, che fornisce dati e profezie avveniristiche sulle quali sarebbe senz’altro possibile dilungarsi, ma finiremmo per andare fuori tema. La domanda che qui ci interessa maggiormente è: quanto tutto questo rimanda ancora al cinema? Quanto rimane di «cinematografico» in questo continuo basculare tra filmico e non filmico?

Wildcat (Aunt Janet) è una parte del corto Wildcat di Kahlil Joseph. È la documentazione visiva di un rodeo a Grayson in Oklahoma in cui i cowboy sono tutti afroamericani, ma che non
è che il pretesto per dare luogo a visioni quasi estatiche, magiche. L’installazione è composta da tre grandi schermi che formano un triangolo, e già questo fa diventare il film qualcosa di diverso, in cui il tempo del cinema si dilata, si interseca con le altre proiezioni, si sfoca, si disperde. In questa dimensione, l’autore si pone nel mezzo di una transizione possibile, innesta un percorso in cui il cinema e il suo doppio si confrontano, si guardano, si specchiano e, allo stesso tempo, mettono in evidenza le proprie differenze. Non si tratta nemmeno più di mostrare la radice cinematografica del proprio intervento artistico e tecnologico, come nelle opere di Software Cinema di Matt Roberts e Barbara Lattanzi, che riprendono sequenze di film del passato e le rielaborano per mezzo di software, così da mettere in evidenza la differenza materica: da una parte la chimica e la macchina ottica, dall’altra le immagini di sintesi e i pixel. O come negli interventi di Douglas Gordon che rilegge il cinema, i suoi immaginari, le sue immagini e i suoi suoni alla luce di una sua personale interpretazione artistica. Nel suo famoso 24 Hours Psycho, il capolavoro di Alfred Hitchcock si trasforma in una installazione: il film originale viene proiettato rallentato e senza sonoro, violentato nella sua natura.

Il tempo della regia di Hitchcock viene oltraggiato, così come il suo montaggio originale. Lo stesso luogo di elezione del film, la sala cinematografica, viene abbandonata in favore della galleria d’arte, e di conseguenza il ruolo dello spettatore viene radicamente modificato. In piedi, in una sala illuminata e di passaggio, viene anche messo nella condizione di non poter vedere l’opera nella sua interezza. Di esperienze simili se ne possono annoverare centinaia. Ma con Wildcat (Aunt Janet) assistiamo a qualcosa di diverso: il cinema che viene riletto è quello del regista stesso. La matrice è la stessa, ma soprattutto la materia è la stessa. Si rielabora in totale autonomia all’interno di una fase cinematografica che guarda, senza troppo scomporsi, alle nuove tecnologie come una possibilità espressiva, e anche qualcosa in più: come dei geni (o dei virus) nuovi da immettere su un corpo conosciuto.

Wildcat (Aunt Janet) è come la Lezione di anatomia del dottor Tulp. Proprio come nel famoso quadro di Rembrandt, possiamo assistere a un’autopsia in cui è riconoscibile il corpo umano, di cui però viene messo in luce un aspetto diverso, insolito: il suo interno. Il corpo del cinema viene metaforicamente smembrato, ma solo per poterlo conoscere meglio, per metterne in risalto gli aspetti ancora meno osservati.

Simone Arcagni è professore all’Università di Palermo e insegna allo IULM di Milano e alla Scuola Holden di Torino. Studioso, consulente, curatore e divulgatore di nuovi media e nuove tecnologie. Collabora con «Nòva-Il Sole24Ore», «Repubblica», «FilmTV», «Domani», «Segnocinema», «cheFare», «Impactscool Magazine» e altre riviste e giornali; è inoltre autore di Digital World, trasmissione di Rai Scuola. Tiene un blog sul sito «Nòva100» de «Il Sole24Ore». Ha fondato e dirige la rivista scientifica «ESJournal». In qualità di consulente ha lavorato e lavora per diversi enti e istituti e dal 2021 è consulente per i nuovi media e le nuove tecnologie per il Museo Nazionale del Cinema di Torino. Recentemente in qualità di curatore ha firmato la mostra Futuri passati (Biennale Democrazia/Polo del ’900) e #FacceEmozioni (con Donata Pesenti Campagnoni per il Museo Nazionale del Cinema). È inoltre curatore per il festival Letterature migranti.  Tra le sue pubblicazioni, Oltre il cinema (2010) e Screen City (2012). Per Einaudi ha pubblicato: Visioni digitali (2016) e L’Occhio della macchina (2018). Nel 2020 ha pubblicato Immersi nel futuro. La Realtà virtuale, nuova frontiera del cinema e della TV (Palermo University Press/Rai).