La prima volta che mi resi conto dell’esistenza di Internet è stato quando mi apparve sotto forma di una pagina dell’ormai scomparso browser – allora navigatore – Netscape proiettata su uno schermo in piazza durante un mercatino di Natale: una dimostrazione di un provider locale in mezzo agli stand dei dolci e dei giocattoli. Lo ricordo come un’apparizione enigmatica in un contesto nazional-popolare. Mi avvicinai e cercai di capire di cosa si trattasse e pensai in seguito che fosse la nascita di un mondo meraviglioso, ma ancora racchiuso in una forma arcaica e noiosa, quella della finestra riempita di testo. Immaginavo che sarebbe cambiato, evoluto, diventato immersivo e affascinante, e che avrebbe assunto delle forme incredibili che allora non potevamo nemmeno visualizzare.
Anni dopo mi sono resa conto che l’utente potenziato che sognavo è realmente esistito in tempi lontani e non solo nella letteratura cyberpunk. Mi è apparso sotto forma di un monaco che attraversa l’Europa
L’altro mondo digitale che frequentavo al tempo era quello dei videogiochi, che per quanto ancora rudimentali erano già ambienti complessi, dotati di una propria estetica intrinseca, forniti di mappe, cartografie, sistemi di controllo ed organizzazione delle informazioni. Immaginavo che questi due mondi si sarebbero incontrati e magari fusi; invece, dopo tutti questi anni, Internet è ancora in gran parte costituito da pagine di testo o immagini che scorrono su uno schermo, anche se ora a volte lo schermo è tattile e spesso è portatile. Nonostante le evoluzioni estreme che ha subito il contenuto, la modalità di accesso alla rete – l’interfaccia tra la nostra mente e quel mondo di conoscenze collettive in espansione – è tuttora ancorata ai modi di lettura su schermo bidimensionale, al collegamento tramite link, e oggi allo scrolling. E l’utente è per lo più un lettore banale e, per la maggior parte del tempo, passivo: non è un navigatore, una razorgirl di Neuromante, un Hiro Protagonist di Snow Crash.
Anni dopo mi sono resa conto che l’utente potenziato che sognavo è realmente esistito in tempi lontani e non solo nella letteratura cyberpunk, una figura capace di accedere alla conoscenza attraverso strutture spaziali ricostruite nella propria mente o di servirsi dello spazio esterno come vero e proprio portale per costruire il proprio pensiero. Mi è apparso sotto forma di un monaco che attraversa l’Europa. La tonaca bianca, la cappa nera, qualche libro in una sacca, in fuga da un convento all’altro accusato di eresie sempre diverse. Passa la vita a costruire un palazzo mentale, a stabilirne le regole di crescita e a determinare le proporzioni di ogni stanza per poi disporre accuratamente al suo interno le proprie conoscenze.
Questo palazzo è un complesso meccanismo geometrico, spaziale e simbolico che si ricombina e si articola all’infinito nutrendosi di conoscenze e producendo pensiero inedito. Il frate domenicano che lo ha costruito, il filosofo Giordano Bruno, si fa conoscere in Europa per la sua memoria prodigiosa che lui coltiva grazie a una conoscenza approfondita delle antiche tecniche conosciute come “ars memoriae”. In particolare Bruno si rifà al metodo dei loci o palazzo della memoria, tecnica secondo la quale si costruisce mentalmente un palazzo o si visualizzano gli spazi interni di un edificio conosciuto e si dispongono all’interno le informazioni che si vogliono memorizzare associate a delle immagini particolarmente evocative. In seguito si ripercorrono con la mente le stanze e si incontrano nella sequenza spaziale le immagini che permettono di far riemergere le memorie “disposte” nello spazio. Questa tecnica interpreta l’associazione cognitiva tra spazio, memoria e informazione e riesce a produrre una sorta di superpotere per gli adepti che la padroneggiano e la esercitano: una capacità di memorizzazione potenzialmente infinita che si appoggia sull’amplificazione delle facoltà mentali grazie all’internalizzazione di informazioni spaziali e visive.
I palazzi di Bruno diventano un’interfaccia tra il mondo interiore e la realtà da conoscere, nonché strumento di produzione di nuovo pensiero
Giordano Bruno, come altri, si aggira da nomade tra la costellazione dei conventi europei del tardo Rinascimento, portando con sé solo la propria mente diventata ormai lo spazio liminale di accesso al palazzo delle sue conoscenze. Non si limita ad assorbire le antiche pratiche della ars memoriae, ma ne produce un’interpretazione personale che permette di tradurla da tecnica di memorizzazione a sistema di invenzione. Bruno formula un meccanismo spaziale combinatorio che è a tutti gli effetti un progetto architettonico potenziale di un edificio mentale, astratto e in movimento relativo, costituito da atri dalle geometrie variabili e stanze sovrapposte.
I palazzi di Bruno diventano un’interfaccia tra il mondo interiore e la realtà da conoscere, nonché strumento di produzione di nuovo pensiero. La mente viene abitata, percorsa, costruita, modificata, e lo spazio interiore diventa uno strumento per pensare basato sul rapporto tra la forza attiva delle immagini e la capacità organizzativa dell’architettura. Quest’ultima trascende le sue tradizionali risposte alle esigenze materiali: proteggere dalle intemperie, separare dallo spazio esterno, fornire comfort o privacy e diviene una modalità per dare forma al pensiero e accogliere la conoscenza.
Nella definizione delle sue tecniche, Bruno è ispirato dalle pratiche – tra il religioso e l’eretico – di Ramon Llull, filosofo, teologo e mistico medioevale, precursore di tutte le intelligenze artificiali, il primo ad aver immaginato che le facoltà mentali si potessero potenziare e esternalizzare fino a diventare meccanismi quasi autonomi di conoscenza. Nei sistemi lulliani l’organizzazione spaziale diviene sistema di relazioni mentali che permette di introdurre gerarchie e di connettere tra loro diverse dimensioni della realtà; per esempio le scale lulliane danno un ordine ai sistemi di valori e permettono di scendere e salire in alto e in basso nei gradini per passare dal generale al particolare, dal migliore al peggiore e via dicendo, mentre le ruote lulliane mettono in relazione attributi divini e forniscono risposte sempre diverse a interrogativi ancestrali funzionando come percorsi molteplici che vengono tracciati tra significati diversi. In questi esempi l’architettura è internalizzata e diviene modalità di costruzione e organizzazione della mente. Tuttavia questo rapporto tra spazio e pensiero può materializzarsi anche in senso opposto e gli edifici veri e propri possono consentire alle facoltà cognitive di dispiegarsi, potenziarsi e manifestarsi nella pietra.
Per la storica Mary Carruthers i monasteri benedettini medievali sono molto di più che delle semplici architetture che accolgono delle funzioni precise; essi incarnano vere e proprie macchine meditative tridimensionali sulle quali i monaci potevano appoggiarsi per ricordare passi delle proprie preghiere e delle proprie riflessioni, grazie a ripetizioni numeriche costanti che riaffiorano nel numero delle colonne di un chiostro, nella sequenza dei gradini, fino ai pattern delle pavimentazioni. Tutta l’architettura, costituita da “ancore” per il pensiero, è un’interfaccia immersiva che consente di connettersi al proprio spazio interiore e di potenziare le proprie capacità cognitive. La geometria del convento agisce come la mente estesa descritta dai filosofi e scienziati cognitivi Andy Clark e David Chalmers nel 1998, un principio secondo il quale le facoltà mentali si appoggiano e si nutrono nel rapporto con gli strumenti e gli ambienti esterni.
Tra Medioevo e Rinascimento le pratiche religiose legate al potenziamento della memoria si accompagnano e si confondono con quelle eretiche, in particolare quelle ermetiche ed alchemiche che vedono nelle rappresentazioni visive e spaziali la chiave per accedere alle logiche della realtà e al controllo delle proprie capacità interiori, e producono un campionario infinito di ruote, alberi e torri della saggezza, diagrammi cosmologici e palazzi mentali, un insieme di supporti visivi per aiutare lo sviluppo e la costruzione dell’intelletto e facilitare l’immaginazione produttrice. Il macrocosmo delle verità filosofiche e scientifiche è specchiato nel microcosmo delle loro rappresentazioni visive e spaziali.
Nelle loro manifestazioni, queste pratiche di esternalizzazione del pensiero incontrano alcune teorie cognitive contemporanee, come la già citata mente estesa di Clark e Chalmers, o la distributed cognition definita dall’antropologo Edwin Hutchin negli anni ‘90, teorie che dimostrano come le facoltà mentali si nutrano e si appoggino agli strumenti tecnologici e agli ambienti esterni. Il ruolo del “cervello” come sede del pensiero e delle attività intellettive è messo profondamente in discussione dall’idea di una mente che è prima di tutto “embodied”, incarnata, e quindi dipendente dalla presenza del corpo, e che in secondo luogo, si costituisce nello scambio continuo con gli strumenti, gli ambienti e gli individui attorno a noi e anche in relazione con lo spazio esterno, appoggiandosi perciò ai percorsi quotidiani e agli ambienti domestici, legandosi agli edifici, alle scuole, ai teatri, ai conventi che ospitano le nostre azioni e le nostre memorie, e le mettono in relazione attraverso le loro caratteristiche fisiche e spaziali.
Un caso particolare di mente estesa è quello della web extended mind, per cui la rete agisce come strumento che amplifica l’intelletto e diviene una vera e propria protesi delle facoltà mentali, consentendoci di potenziare la memoria, tradurre in tutte le lingue, e oggi con le AI accedere alle risposte a qualsiasi quesito. Da sogno fantascientifico di un’umanità dall’intelletto potenziato tramite le capacità fornite da Internet, questa prospettiva minaccia tuttavia di tramutarsi in un incubo, con le AI sempre più orientate ideologicamente, mentre l’immaginario di un futuro tecnologico visivamente complesso, immersivo e accattivante si è tradotto nella noia delle interfacce del presente, ben lontane dai complessi dispositivi medievali e sempre più simili a infiniti elenchi, finestre di testo, video verticali. La mente estesa digitale è ancora rinchiusa nello scrolling perenne, passiva e incanalata in percorsi sempre più rigidi e autoreferenziali condizionati dall’advertising personalizzato e dalla manipolazione algoritmica dei contenuti.
Allo stesso tempo, quel web rimasto così profondamente bidimensionale ha impiegato, fin dalla propria nascita, metafore spaziali e architettoniche proprio come quelle adottate dai dispositivi mnemonici: la finestra, la backdoor, il portale, il percorso, le chatrooms, cercando di descriversi come un vero e proprio ambiente per sfuggire ai propri limiti dimensionali e suggerendo quindi la potenzialità di adottare degli elementi spaziali e architettonici per dare una forma ai sistemi di relazioni tra i contenuti che lo compongono. Nonostante l’impiego ricorrente di queste metafore, la Rete non è mai veramente riuscita ad incarnarsi in spazi da percorrere come i palazzi della memoria per consentire un vero scambio tra corpi, mente e le loro estensioni digitali; e, come ricorda Valentina Tanni, anche se da sempre percepiamo Internet come un luogo, in realtà ne facciamo un’esperienza completamente incorporea. Quel paesaggio mentale, tridimensionale e selvaggio immaginato anche dagli scrittori cyberpunk potrebbe ritrovare una propria configurazione reinterpretando i sistemi mnemonici medioevali e rinascimentali di stampo ermetico, figure capaci di suggerire complessi ed enigmatici meccanismi spaziali di interazione tra mente umana e ambiente digitali. Parliamo di ricerche spaziali lontane dai tentativi esistenti di costruire il metaverso che si sono tradotti in versioni semplificate della realtà, e che subito ne hanno replicato la tendenza alla mercificazione o l’orientamento alla produttività.
Diagrammi ermetici, ruote occulte, palazzi della memoria, gli stessi monasteri benedettini, intesi come dispositivi meditativi tridimensionali, potrebbero oggi ispirare nuovi modelli epistemologici ed estetici per alimentare i rituali contemporanei di accesso e creazione del sapere immateriale; potrebbero consentire differenti modalità di organizzazione del pensiero grazie a nuovi tipi di relazione tra i contenuti digitali e i sistemi di fruizione, e aprire la strada ad una nuova sintesi tra mente umana e repertorio digitale delle conoscenze. Le potenzialità infinite della simulazione spaziale digitale potrebbero infine rendere quei mondi mentali esplorati dall’ermetismo accessibili, esplorabili e ricombinabili costituendo una vera e propria estensione delle facoltà intellettive.
Ad esempio, il teatro della memoria di Giulio Camillo, filosofo rinascimentale, è un modello di teatro che al posto delle sedute accoglie una sorta di enciclopedia in cui ad ogni voce corrisponde un’immagine e un complesso sistema di rimandi geometrici che lega gli elementi architettonici a quelli visivi; si tratta di un dispositivo che potrebbe suggerire così una nuova modalità di accesso per una Wikipedia tridimensionale e spazializzata. Un’enciclopedia online come questa potrebbe sfruttare le potenzialità dell’architettura e dei percorsi aperti, oltre alla forza evocatrice di elementi visuali per dare una nuova forma a quell’enorme archivio di conoscenze, consentendo contemporaneamente modalità di navigazione inedite e collegamenti inusuali tra le voci. Il “perdere tempo su Internet” teorizzato da Kenneth Goldsmith come pratica creativa e liberatrice potrebbe prendere i contorni di una vera passeggiata da flâneur nei meandri di uno spazio digitale che racchiude informazioni di ogni tipo.
Qualche raro caso che dimostra la potenzialità cognitiva del dotare di una forma spaziale i dispositivi per l’archiviazione e la costruzione della conoscenza esiste. La Uncensored library, ad esempio, è un progetto sviluppato su Minecraft in cui all’interno di un edificio neoclassico si trovano delle stanze corrispondenti ad alcune nazioni dove vige la censura. In quelle stesse stanze sono conservati scritti di giornalisti contemporanei censurati nei rispettivi paesi. Sfruttando l’aterritorialità di Minecraft, le stanze di questa biblioteca digitale consentono l’accesso ai testi vietati. La biblioteca virtuale funziona come un palazzo della memoria digitale: mima un’architettura che potrebbe essere reale e soprattutto disegna una specifica organizzazione del sapere su base geopolitica; come la biblioteca de Il nome della rosa, alle cui sale corrispondono delle lettere che compongono i nomi di collocazioni geografiche e in cui si trovano le opere degli autori provenienti da quelle terre. Un’architettura mentale o digitale può essere dunque capace di organizzare la conoscenza e di rimandare a territori più vasti.
Il videasta francese Chris Marker, autore di opere cinematografiche di culto come La jetée o il documentario Sans soleil, ha tentato di trasformare il modo in cui accediamo alle conoscenze in un territorio digitale, e lo ha fatto attraverso l’opera Immemory del 1997, accessibile su CD-rom. Immemory è configurata come una terra da esplorare, in cui ai luoghi di una cartografia immaginaria corrispondono le proprie memorie di epoche differenti sotto forma di fotografie, testi, riferimenti a oggetti. Il movimento attraverso i vari documenti consente di associare le idee liberamente e di costruire nuovi percorsi di lettura. Il visitatore diventa un esploratore e il percorso si costituisce come vettore di costruzione dell’immaginazione. La cartografia abitata da immagini significative diventa una materializzazione digitale delle carte che servivano come sistemi di ancoraggio della memoria in tempi medievali.
Progettare, disegnare l’esperienza dell’accesso e della fruizione dell’informazione contemporanea, immaginare dei percorsi multipli e dei sistemi combinatori potrebbe potenziare il rapporto tra spazio mentale e digitale e diventare una nuova frontiera di materializzazione dell’ambiente di Internet e dei suoi contenuti. Nuovi paradigmi che rileggono le ricerche visive medievali e rinascimentali per dare forma al pensiero potrebbero suggerire rinnovati rapporti tra informazioni distanti al fine di incoraggiare l’immaginazione creatrice e operare una forma di resistenza rispetto ai meccanismi sempre più coercitivi che operano nella rete contemporanea. Un ipotetico futuro che metta in discussione quella pagina bidimensionale potrebbe riallacciarsi al passato remoto dell’immaginario medievale e a quel frate eretico che vagava per l’Europa dandoci l’illusione di essere, almeno per un po’, davvero navigatori e non solo zattere in balia degli algoritmi.