Ora e sempre, meme e resistenza

Da Adrian – La serie a Neon Genesis Evangelion: prove tecniche di trasmissione di una resistenza culturale dura a morire

Una mattina mi son svegliato, e ho sentito una canzone di Adriano Celentano provenire a volume insostenibile dal televisore del soggiorno. Il brano era Prisencolinensinainciusol: un’ode sperimentale all’incomunicabilità e al nonsense, nonché un probabile sfottò al sempre più inarrestabile fascino nei confronti degli Stati Uniti d’America. Memore di un’esperienza similmente fastidiosa, vissuta anni orsono con la messa in onda dello spot di Rock Economy, ho impiegato poco tempo a capire che si trattava della promozione di un nuovo programma televisivo firmato Clan Celentano. Questa volta però niente pantere e riprese in alta definizione, bensì qualcosa di così lo-fi da sembrare perfettamente in linea con gli insegnamenti di Hito Steyerl sul concetto di «poor image», nonché di apparentemente fedele allo spirito amatoriale più vicino a una piattaforma come YouTube piuttosto che al tubo catodico vero e proprio.

Ad accogliere il pubblico di Canale 5, in quelle prime settimane di gennaio, vi era infatti il nostro Molleggiato, in carne ossa, intento a filmarsi (in puro stile bimbominchia) con una videocamera posizionata difronte allo specchio del proprio bagno. L’effetto spiazzante, per non dire ridicolo, della pubblicità non era dato solo dal superamento di circa quattro decibel – rispetto alla media solita consentita – del suo volume, ma soprattutto dalla sua stessa estetica. Vedere Celentano, ovvero una persona fondamentalmente anziana, chiuso al gabinetto intento a cantare in playback una propria canzone del 1972 non poteva lasciare indifferenti. Se poi ci si aggiunge anche il suo alter ego animato in compagnia di tuoni, fiamme 3D, elicotteri e natiche femminili disegnate – dal sommo Milo Manara – il livello di perplessità non poteva che aumentare.

Il 2019 era da poco cominciato, ma già portava con sé un’aria che profumava di rivoluzione. L’attesa nei confronti del programma di punta della nuova stagione Mediaset iniziava a farsi sempre più palpabile e così, tra misteri e polemiche varie, il 21 gennaio Adrian – La serie ha finalmente visto la luce. Le aspettative oramai si erano fatte altissime, così tanto da inchiodare al televisore circa 6 milioni di italiani, tutti in ansia di scoprire le nuove profezie dell’Adriano nazionale narrate attraverso un format dai toni giovani e dalle atmosfere distopiche. Qualcosa però va storto: la parte introduttiva del programma, allestita all’interno del teatro Camploy di Verona, non convince. Gli attori coinvolti (Nino Frassica e Natalino Balasso) non fanno ridere, Celentano compare per poco e, soprattutto, non parla! Il pubblico presente inizia a storcere il naso e dopo una quarantina di minuti si entra finalmente nel vivo della trasmissione, ovvero quando appare il primo episodio della serie animata.

Il resto è storia: tra animazioni naif – affidate al nordcoreano e famigerato Studio Sek – numerosi errori di realizzazione, dialoghi retorici, incongruenze narrative e celebrazioni monumentali alla figura stessa di Celentano, il tutto si conclude in maniera frettolosa dopo circa un’ora lasciando l’intera penisola italica a chiedersi cosa fosse successo. Il giorno dopo è caduto l’Internet. Ciò che è scaturito dai primi due episodi di Adrian ha dell’incredibile e nessuno lo aveva previsto, neppure Pier Silvio Berlusconi che, per il progetto, aveva messo a disposizione circa 28 milioni di euro.

Dalla pagina Facebook IlCirox

La risonanza mediatica dell’evento, costruita a tavolino a colpi di decibel, si era tramutata in una sorta di operazione suicida nel momento in cui ha raggiunto le antenne di coloro che vengono considerati gli sfigati ed emarginati per antonomasia: i nerd. La proliferazione, in Italia, di meme che ha accompagnato tutto il periodo della messa in onda di Adrian non ha precedenti. Un intero popolo di fanatici del fumetto, di gamer, di fagocitatori di animazione e di cultori di sottogeneri fantascientifici si è unito armonicamente con l’unico scopo di denunciare (e ridicolizzare ancora di più) la scarsissima qualità di ciò che era stato mandato in onda. La mole del fenomeno è aumentata ogni volta che veniva trasmessa una nuova puntata fino a quando, nel bel mezzo di sviluppi narrativi così metafisici da sembrare lynchiani, è stato annunciato l’annullamento della serie.

Il dissenso parodistico, espresso tramite gruppi su Facebook o canali di giovani youtuber, è stato così forte da uccidere Adrian suscitando, in maniera beffarda, la delusione di tutti coloro che nel frattempo avevano contribuito all’azionamento di una macchina memetica oramai difficile da placare. La vicenda di Adrian (che in tutto ciò dovrebbe ricomparire in una nuova veste il prossimo settembre) è stata in realtà utile perché ha acceso i riflettori sul potenziale rivoluzionario presente nel sottobosco di Internet sollevando, di riflesso, delle questioni interessanti sull’identità del nostro Paese. L’atipico rapporto di solidarietà che unisce le communities nate sulle piattaforme social – da 4chan a Twitch, passando ovviamente per Instagram e Youtube – non è assolutamente da sottovalutare perché fondato sulla presenza di una certa sensibilità. Sia nel bene che nel male. Essenziale, per comprendere l’origine del declino di Adrian, è infatti l’elemento del «cringe». Quando si parla di «cringe» si intende solitamente qualcosa di molto vicino al concetto di trash, ma che differisce da quest’ultimo per la presenza dell’imbarazzo. Il «cringe», infatti, corrisponde a una condizione così alta di imbarazzo da far provare a qualcun altro (in questo caso lo spettatore di Adrian) la stessa vergogna che attanaglia chi viene accusato di essere «cringe».

Dalla pagina Facebook IlCirox

Sostanzialmente si sta parlando di empatia. Chi ha visto Adrian con un occhio prettamente critico non ha potuto fare a meno di empatizzare con Celentano stesso avvertendo un coinvolgimento così tale da sentirsi in diritto di dire la propria attraverso i mezzi che meglio conosce: video commenti, live reaction, stories, meme. Come ricorda infatti Geert Lovink nel suo Ossessioni collettive: «L’ascesa delle “reazioni” online va attribuita alla maggiore volontà di articolare pubblicamente il proprio “risentimento”. Con un misto di espressioni gergali, slogan tipo inserzioni pubblicitarie e giudizi incompiuti, gli utenti mettono insieme frasi e battute ascoltate o lette in giro. Chiacchiericcio non è il termine giusto. Quel che prende forma è il disperato tentativo di essere ascoltati, di avere un impatto e di lasciare il segno. Gli utenti non si limitano più a “correggere” l’autore oppure a dare un contributo “all’intelletto generale” – vogliono produrre un qualche effetto».

A monte del decadimento del progetto Adrian vi è fondamentalmente la questione del tempo.
Non solo perché vi sono voluti ben dieci anni di gestazione (per quello che alla fine si è rivelato un aborto), ma soprattutto perché non si è compresa a fondo la fascia generazionale del target al quale ci si voleva realmente rivolgere. All’intera operazione si possono sicuramente attribuire una certa audacia espressa dalla voglia di offrire, all’interno dello stesso contenitore, due anime diverse: una prima, quella dello spettacolo teatrale, indirizzata verso una fascia matura di ammiratori del Molleggiato e una seconda, la graphic novel animata, rivolta a una fetta di spettatori decisamente più fresca. Il problema non è rappresentato soltanto dall’impossibilità di far conciliare i gusti di ambo le parti (alla porzione giovanile non interessava minimamente della parte teatrale e agli aficionados di Celentano non gliene fregava proprio niente del cartone animato), ma soprattutto dal fatto che entrambe le anime puzzavano di vecchio. Uno dei vincoli più grossi di questo Paese è rappresentato dall’assenza totale di fiducia e di considerazione nei confronti dei giovani, di conseguenza, quasi ogni cosa che qui viene prodotta non riesce ad essere al passo coi tempi.

La crisi di Adrian è la metafora della crisi di un Paese intero dove la televisione ha ancora un ruolo importante, ma che, essendo fondamentalmente gestita da mentalità senili, finisce per rivolgersi esclusivamente a un pubblico anziano. Questa situazione sembra aver cristallizzato l’Italia in una bolla temporale così grossa da non poter lasciare spazio alcuno alla rivoluzione culturale che, da circa vent’anni a questa parte, Internet continua a rappresentare. Il Paese non riesce ad accettare l’Internet, così come non vi riesce neppure la televisione. Un esempio concreto di questa condizione lo si è avuto, lo scorso maggio, con la nona puntata dell’ottava edizione del programma (firmato sempre Mediaset) Ciao Darwin che ha visto il mondo della televisione sfidarsi – per poi trionfare – con il popolo del web. Se il media televisivo ignora – o comunque non comprende fino in fondo – la sfera di Internet, quest’ultima attinge spasmodicamente dalla televisione nel tentativo di assorbire quante più situazioni di disagio possibili per poterle poi convertire in qualcos’altro. Questo processo di trasmutazione fisica, che coinvolge molti fenomeni propri del piccolo schermo (termine forse obsoleto se si pensa sia alle dimensioni degli attuali televisori domestici che a quelle dei propri dispositivi mobili), non fa altro che aumentare la tendenza autistica propria del sottosuolo di Internet.

Nel suo La guerra dei meme, Alessandro Lolli parla della categoria degli autistici in questi termini: «L’autistico, la figura in cui si rispecchiano i memers, non è un emarginato qualsiasi, un mero escluso, quello a cui alludeva la parola “freak”, ma anche “punk” e, perché no, “scapigliato”: l’autistico vive in una condizione patologica dovuta all’eccesso di certe abilità cognitive, si fissa sulle cose, ricorda tutto, non si interessa di altro. Questo è proprio ciò in cui i memers, ironicamente o autocommiserandosi, si riconoscono: l’autistico è l’unico in grado di tenere conto dell’evoluzione rapidissima dei meme, di tutti i riferimenti interni ed esterni necessari a capirli e a rispondere con altri meme ancora più evoluti e arguti».

Poco prima dell’approdo di Adrian nelle case degli italiani (più precisamente nel novembre del 2018) la RAI ripropose un format francese attraverso un nuovo programma dal titolo Alla lavagna! Durante ogni puntata un personaggio politico italiano, o comunque dello spettacolo, veniva sottoposto a una sorta di interrogazione/intervista da una classe di bambini la cui età oscillava dai 9 ai 12 anni. A inaugurare il programma fu nientepopodimeno che il Ministro dell’Interno Matteo Salvini e a rendere epico questo primo episodio fu la sua stessa conclusione. Durante il momento rituale del selfie di gruppo, che sancisce la fine di ogni puntata, uno dei ragazzi – che, fatalità, indossava una maglia di colore rosso – fu immortalato in disparte e con un’espressione non troppo contenta. Qualche mese più tardi, per la puntata del 2 febbraio, fu la volta di Daniela Santanchè la quale alla domanda, fatta da una bambina, «Cosa vuol dire per lei il denaro?» rispose «È l’unico vero strumento di libertà».

A parte la perplessità sulla componente educativa di una risposta simile (e dell’intero programma), queste due circostanze destarono l’attenzione di tutta una serie di comunità di memer che, con l’intenzione di dimostrare che i meme possono anche essere di sinistra (e che dunque il «politicamente scorretto» non è prerogativa esclusiva dell’Alt-right), li tolsero alla televisione per renderli immortali attraverso la magia della rete. Tramite gruppi come Automatizzato Comunismo Memetico, Polpo di Stato (sorto dalle ceneri di Automatizzato Caccapostaggio Sinistroverso) e Cronache della bambina triggerata per la rivoluzione, i bambini protagonisti di queste due vicende di matrice televisiva sono assurti a simbolo di una resistenza in atto, nonché di una rivoluzione mai del tutto assopita.

Dalla pagina Facebook Polpo di Stato

Nonostante i segnali di una fibrillazione politico/culturale in atto fossero evidenti, non è mai stato dato il giusto peso a questo tipo di operazioni, continuando a considerare l’attivismo memetico sotto una luce esclusivamente ludica o, al massimo, satirica. O perlomeno fino allo scorso 21 giugno, giorno in cui Neon Genesis Evangelion è stato messo interamente a disposizione su Netflix. Ma procediamo con ordine. Nell’Olimpo degli anime giapponesi NGE occupa sicuramente un posto d’onore ottenuto non solo per le avveniristiche tecniche di animazione che lo caratterizzano, ma soprattutto per la capacità dello storytelling di unire insieme fantascienza apocalittica, nozioni di mistica ed esoterismo vario, turbe giovanili che affondano le radici nella psicanalisi freudiana e chi più ne ha più ne metta…

Prodotto nel 1995 dallo studio GAINAX – che il nostro Paese aveva già avuto modo di apprezzare grazie a Nadia, il mistero della pietra azzurra –, Neon Genesis Evangelion fu trasmesso nel 2001 dal canale italiano di MTV insinuandosi lentamente nel cuore di tutti gli adolescenti dell’epoca. Il sentimento di amore e di affetto che ha sempre accompagnato gli otaku particolarmente cari a questo tesoro nipponico ha una consistenza così solida da farli sussultare dalla sedia ogni volta che ne venivano annunciati sequel, videogiochi, ristampe del manga e quant’altro. Inoltre, nel corso degli anni, l’attenzione verso Evangelion non è mai scemata dal momento che la sua epopea non è ancora finita. Successivamente alla contestazione massiccia, da parte di numerosi fan, nei confronti dell’enigmatica conclusione dell’anime, Hideaki Anno – regista tanto geniale quanto oscuro – decise di rimettere in moto l’intero progetto realizzando una tetralogia il cui ultimo capitolo verrà distribuito nel 2020. L’ingresso di NGE nell’immaginario collettivo è stato quindi alimentato anche da questa sua costante sospensione capace di generare negli anni uno shitposting pazzesco che ha preso poi il sopravvento nel momento dell’annuncio dello streaming su Netflix.

Saturo di hype fino all’inverosimile il fatidico giorno finalmente arrivò, ma quella che doveva essera «la bella notizia del 2019» si è rapidamente tramutata in una sorta di incubo per tutti gli ammiratori dell’anime culto degli anni Novanta. L’incredulità che aveva colpito gli spettatori di Adrian era oramai diventata una bazzecola rispetto alle dimensioni dello sgomento provato da chi, il 21 giugno, si era loggato su Netflix con la voglia irrefrenabile di rivivere tutta l’esperienza di Evangelion. Lo sbalordimento iniziale divenne dapprima delusione e successivamente rabbia.

Dalla pagina Nerv God’s in his heaven All’s right with the world

Pomo della discordia il nuovo adattamento dei dialoghi messo totalmente a punto da Gualtiero Cannarsi, già tristemente famoso per i suoi «particolari» interventi all’interno dei film d’animazione firmati Studio Ghibli. Attraverso lo stravolgimento della nomenclatura stessa di alcuni personaggi e, soprattutto, per la totale assenza di una logica sintattica all’interno delle frasi dei dialoghi l’adattamento dell’intera opera si è rivelato come uno stupro vero e proprio del capolavoro di Hideaki Anno. Quella crepa che si era iniziata a intravedere con i bambini di Alla lavagna! era diventata definitivamente una voragine. Il sacrosanto diritto di poter usufruire di un’opera così rappresentativa e preziosa per l’umanità stessa, senza dover assistere alla megalomania di chi l’aveva toccata, andava difeso a tutti i costi. La spietata macchina memetica della nuova resistenza contemporanea si era attivata un’altra volta, ma adesso si faceva sul serio.

Oltre ai numerosissimi meme prodotti (soprattutto da gruppi quali Nerv: God’s in his heaven. All’s right with the world., Le Giappominkiate Degli Anime e Gli eurocratici), a interminabili dirette video in compagnia dello stesso Cannarsi e a svariate segnalazioni fatte esplicitamente al colosso dello streaming c’è stato perfino chi ha caricato su Pornhub il primo episodio – della versione italiana del 2001 – di NGE. Che sia per la voglia di preservare una pietra miliare dell’animazione giapponese o che riguardi esclusivamente il senso di profondo affetto nei confronti di un cartone animato, fatto sta che, su Change.org, è stata immediatamente lanciata una petizione atta a ripristinare questa spiacevole situazione. Il 27 giugno, con l’adesione di 2423 sostenitori, la causa è stata vinta e la stessa Netflix Italia ha promesso di risistemare il tutto cominciando dalla rimozione dell’ultimo adattamento pubblicato. A differenza di altri cortocircuiti tra la vita quotidiana e la sfera di Internet, che spesso attingono dal discordianesimo per sfociare poi in una mera operazione di trolling (storica la vicenda della comparsa della bandiera del Kekistan durante un comizio di Salvini a Milano o, emblematica, la più recente minaccia dell’attacco di massa all’Area 51 prevista per il prossimo 20 settembre), questi ultimi episodi hanno un impatto concreto sul mondo reale accendendo delle luci su una questione urgente. La figura dell’utente comincia quasi a sostituirsi a quella del produttore decidendo non solo il destino di quel determinato prodotto, ma riuscendo a intervenire perfino su quella specifica fetta di mercato. Quello che avvenimenti simili sottolineano è la paradossale natura di questo mastodontico e contemporaneo Giano bifronte che oggi chiamiamo Internet: se da un lato esso è la manifestazione del totale fallimento di un’utopia messa in atto trenta anni fa da Tim Berners-Lee, dall’altro rappresenta un terreno estremamente fertile per compiere azioni, dal risvolto tangibile, a difesa di prodotti propri della cultura contemporanea.      

Dalla pagina di Le Giappominkiate Degli Anime

Ovviamente la storica enunciazione di Lovink espressa nell’incipit di Ossessioni collettive («Una volta internet cambiava il mondo, oggi è il mondo a cambiare internet. La sua integrazione nel mainstream è davvero finita, e la saga dell’effimero Web 2.0 è giunta al capolinea») continua ancora a essere valida. Se si pensa a Face App, l’ultimo fenomeno virale che proprio in questi giorni sta prendendo piede, non si può fare a meno di constatare il consolidamento della prospettiva di un web 3.0 dominato essenzialmente da algoritmi e intelligenze artificiali.

Ciononostante il potenziale rivoluzionario dei meme può essere ancora considerabile come linfa vitale per la sopravvivenza di saperi, o di beni, facilmente calpestabili: una sorta di arma da impugnare a difesa di prodotti artistici e creazioni intellettuali. Sicuramente un’arma che in certi casi può risultare a doppio taglio poiché agilmente soggetta a eventuali manipolazioni politiche o a dinamiche capitaliste (vedasi il trionfo di Donald Trump alle elezioni parlamentari del 2016 o tutto il merchandising relativo al già citato assalto all’Area 51). Ma gli obiettivi di una cerchia «pura» di nerd sono altri poiché, le loro metodologie, spronano implicitamente a concepire le cose in un modo nuovo. È proprio in loro, quindi, che bisogna riporre fiducia per poter uscire, almeno in parte, dall’oblio culturale nel quale sia il nostro Paese, che il globo intero, continua a sprofondare. Come sottolinea anche James Bridle in Nuova era oscura: «Se riusciamo davvero a pensare in modi nuovi, allora siamo anche capaci di ripensare il mondo – e quindi di comprenderlo e vivere in maniera diversa al suo interno».