Nu Metal Theory

Difendere l’indifendibile: perché Slipknot, Korn e Deftones possono aiutarci a comprendere la nostra era introspettiva e psicotica

Nel 2014, poco prima di pubblicare Garden of Delete, Daniel Lopatin (aka Oneothrix Point Never) discute con un giornalista di Rolling Stone del suo nuovo pezzo, «I Bite Through It». Lo descrive come un tentativo di bilanciare una precisa ricerca di cosa lui reputi interessante nella musica elettronica e il suo bisogno di infuriarsi; il risultato è un brano psicotico, minaccioso, brulicante di elementi in netto contrasto eppure, neanche a dirlo, funziona. La sua intenzione era di trasmettere un sentimento preciso, che descrive con il termine dread.

Tradotto brutalmente significherebbe paura, ma nella sua precisa accezione è un sentimento di minaccia incombente, un terrore declinato in un crescendo insostenibile in attesa del disastro finale; un espediente narrativo sempre potente, declinato in centinaia di storie. Lopatin avvertiva nella musica elettronica un tentativo edulcorato di rappresentare in musica l’orrore, intrappolato in noiosissimi cliché da film horror di serie z e sottocategorie varie; per lui la giusta iconografia da applicare al termine dread è quella di Pennywise/It, il clown mutaforma del romanzo di Stephen King, e il sentimento da veicolare è qualcosa tipo «una cazzo di cosa psicotica, acida, giallognola, e biliosa che ti entra sottopelle e ha una voce stranissima».

Neanche a dirlo, per Lopatin la carica perturbante di True Detective è molto edulcorata, uno «schizzo nebbioso di inchiostro nero». La figura del mostro kinghiano è un assoluto negativo strettamente connesso con l’orrore urbano, con i ricordi guasti del passato; ne parlai tempo fa in questo articolo dove esploravo It come narrazione di un passato cannibale, muovendomi insieme agli ultimi scritti di Mark Fisher (The Weird and The Eerie e Ghosts of My Life, entrambi pubblicati/di prossima pubblicazione per Minimum Fax). «I Bite Through It» è il modo usato da Lopatin per declinare il terrore anticipatorio nel suo modo schizofrenico di comporre, tramutandolo l’archetipo orrifico del «clown psicotico» nella musica.

A quel punto l’intervistatore, credo con ironia, afferma: «Oneothrix Point Never realizza la sua versione di un album degli Slipknot». Invece Lopatin risponde serissimo, dicendo che il pezzo risente delle loro influenze, in quanto per lui possiedono delle tecniche di sound editing straordinarie.

Dopo aver letto questa intervista, poco dopo la pubblicazione di Age Of, ho iniziato a sondare il web per cercare articoli, piccoli saggi, qualsiasi cosa che fosse un brandello di theory sul Nu Metal; ovviamente non ho trovato nulla, a parte articoli su quanto facessero schifo i Limp Bizkit, di come tutto il genere rappresentasse un momento di assoluta oscurità per la musica moderna, insomma, l’orrore assoluto e impronunciabile declinato in un genere musicale. Nonostante lo stigma sociale fortissimo, l’estetica del genere e i suoi stilemi sono stati divorati dalla Trap, nuova grande frontiera dell’odio generazionale verso quella che viene classificata da molti come la nuova musica di merda; eppure due anni fa parlando di Lil Peep è uscito questo articolo di Pitchfork, dove Gustav e il resto della scena trap aveva rinvigorito il mostruoso cadavere di quello che loro definiscono Rap-Rock, come se usare il termine Nu Metal ti relegasse automaticamente nella lista nera di Google degli individui da denunciare alla CIA per crimini terrificanti. Il potenziale orrifico e sotterraneo del genere musicale più odiato continua a crescere proprio attraverso il suo essere indesiderabile, weird purissimo senza alcuna possibilità di redenzione socialmente accettabile; il carattere fatalista e autodistruttivo del Nu Metal ha influenzato tantissimo un collettivo come Bala Club, al punto che Noisey ha parlato di tutte le influenze del genere nella musica elettronica contemporanea.

Lo spettro del movimento continua a esistere, e a tenerlo in vita sono (di nuovo) tutti gli elementi ibridi della società, gli individui che rifuggono dalle classificazioni e creano i loro immaginari.

Parlare di Nu Metal è parlare di un orrore di parole e musica che ha segnato la fine del millennio, una mostruosità culminata con il disastro dell’11 settembre.

Il momento in cui ho avvertito la necessità di una possibile «Nu Metal theory» è stato quando Arca ha pubblicato su Instagram la copertina di White Pony (da lì ho poi scoperto che chiude spesso i suoi set mettendo Be Quiet And Drive, pezzo che ha anche selezionato per BBC Radio 1; dopo l’intervista di Daniel Lopatin, e dopo anni di revival sotterranei, un’altra figura cardine della musica contemporanea mostra tra le proprie influenze l’appartenenza al genere musicale peggiore). Per questo ho deciso di sondare nel disastro percettivo che la storia della musica ha contribuito a costruire sul Nu Metal, spogliandolo anche dal concetto odioso di guilty pleasure, che riguarda tutte le ipotetiche investiture dignitarie di cosa è giusto ascoltare senza senso di colpa, e cosa no.

Soprattutto, parlare di Nu Metal è parlare di un orrore di parole e musica che ha segnato la fine del millennio, una mostruosità culminata con il disastro dell’11 settembre; il momento in cui schizofrenia e capitalismo erano spettri manifesti che infestavano le classifiche degli album più venduti, scritti sulla base di una sofferenza psicofisica spaventosa.

Nella mia analisi attraverso il gigantesco cadavere sempiterno del Nu Metal basandomi sulla risonanza che alcune band hanno avuto in seguito alla fine del movimento (lo stesso di chi in futuro dovrà far quadrare lo scenario odierno della trap). Ogni gruppo incarna l’evoluzione di una psicosi musicale ben precisa, riflesso di un momento storico in cui il termine «terrore» lasciò il passo a «terrorismo», e in cui il sentimento perenne di minaccia (dread) ha una consonanza inquietante con i dreadlock, altro tassello di un’estetica ibrida, repellente, incanalata in una violenza sotterranea e controculturale che ha segnato l’immaginario anche attraversando esplosioni violente come la strage di Columbine e il festival di Woodstock del 1999.

Dopo 20 anni, musicisti e artisti contemporanei trafficano con l’orrifico pop del Nu Metal, affiancandolo a visioni catastrofiste; vedi il prossimo album di Grimes, chiamato Miss_Anthropocene, che lei stessa definisce «quasi nu metal etereo», confermando i miei sospetti dopo la pubblicazione di «We Appreciate Power» e della sua collaborazione con Poppy in «Play Destroy». Oppure Varg di Northern Electronics, che sfoggia durante i suoi dj set magliette degli Slipknot e condivide su Instagram questa roba.

Nella mia ricerca di una voce con cui dialogare di Nu Metal senza passare per pazzo, ho trovato un fantastico interlocutore in Hunter Hunt-Hendrix: musicista, fondatore dei Liturgy e del manifesto del Trascendental Black Metal, filosofo e ora creatore di un’opera teatrale che mira a fondere insieme musica classica, trap, ideologia del movimento Fluxus e la Fenomenologia dello Spirito di Hegel.

Partiamo dai primi ad aver assemblato i pezzi del movimento mostruoso del Nu Metal, nati nel cuore oscuro e rurale dell’America.

Musica per il nuovo gotico suburbano 

Non vi è piacere eguale alla paura. Se fosse possibile sedere rendendosi invisibili fra due persone su di un treno, in una qualsiasi sala d’attesa o in un ufficio, la conversazione che potremmo udire non farebbe che girare attorno allo stesso argomento. In un primo momento, potrebbe certamente sembrare che la discussione verta su di un tema completamente diverso (…). Ma tolte metafore e allusioni, ecco che annidata nel cuore del discorso vi è la paura. Mentre la natura di Dio e la possibilità di vita eterna rimangono nel dimenticatoio, rimuginiamo tutti contenti le minuzie delle nostre miserie. La sindrome non riconosce confini.
 Clive Barker, Dread

Nursery rhymes are said, verses in my head / Into my childhood they’re spoonfed / Hidden violence revealed, darkness that seems real / Look at the pages that cause all this evil
Korn, Shoots and Ladders

Nel suo articolo «Aspettando L’estinzione», Enrico Monacelli trova una giustissima assonanza tra immaginario hauntologico della Trap e Halloween di John Carpenter; il passato «paralizzante» a cui fa riferimento è per estensione quello archetipico del gotico suburbano, un elemento caratterizzante di molto cinema orrifico di fine anni ’70 e primi ’80. In esso la mostruosità era rappresentata da un elemento solo vagamente umano, che progressivamente assumeva i caratteri di un male che infestava l’intera cittadina. Questa narrativa ha fatto la fortuna di numerosi scrittori, e nella saga di Halloween emerge con forza nel quarto capitolo, uscito nel 1988.

Daniel Lopatin condivise, il 31 ottobre, una recensione del film molto particolare, collegata al sentimento di minaccia / dread, in questo caso incarnato dalla città natale di Michael Myers, Haddonfield, nella quale ritorna 20 anni dopo il primo capitolo: «The not-ness, the spreading void at the heart of Haddonfield means it too is becoming a Shape containing spaces that used to have names, that used to have referents which have lost meaning and therefore gone silent. It is no use to talk of them now. Nowhere is safe, nowhere is home».

La città natale dei Korn, Bakersfield, potrebbe essere tranquillamente descritta in questo modo: uno spazio senza nome, un elemento di vuoto che assume la forma dei suoi abitanti.

Sono stati loro i primi a porre le basi della narrativa introspettiva e psicotica del Nu Metal, e con la pubblicazione del loro primo album nel 1994 avviene il pervertimento dell’assolato Crossover californiano; Korn è un miscuglio di Pantera, Cypress Hill, Primus, Mr. Bungle, Rage Against The Machine e i Sepultura di Chaos A.D., filtrati dalla presenza di Jonathan Davis, che a lungo ha incarnato il genere e l’intero movimento: dreadlock, tute acetate ADIDAS, fisico gracilissimo da malato (veniva soprannominato simpaticamente HIV dai suoi amici, al punto da tatuarsi la sigla sul braccio), volto quasi efebico. Ascoltandolo oggi, è sorprendente quanto il primo album dei Korn risuoni come un luogo infestato, un mondo interiore desolato e delirante cantato da un individuo spezzato; la voce di Davis passa dalla melodia dolcissima al grugnito al pianto, fino a simulare una beatbox sgangherata in «Ball Tongue», brano che enuclea quasi un buon 80% del sound di ciò che sarebbe arrivato in seguito.

Questo cambio tonale ibrido, destabilizzante e a tratti repulsivo (soprattutto per le orecchie di un virilissimo metallaro) è diventato LA voce del movimento. E mi viene così descritto da Hunter Hendrix, quando gli chiedo un parere sui Korn: «Ero ossessionato dal Nu Metal durante la mia preadolescenza, iniziando con Life is Peachy dei Korn, che venne pubblicato quando avevo 11 anni. Venni catturato da una specie di emotività effeminata/queer alternata a un brutale machismo, e dall’alone di malattia mentale che dominava su tutto».

Parlando della genesi del primo album su Rolling Stone, emerge la figura del produttore Ross Robinson, che sarebbe diventato uno dei maggiori fautori del sound del Nu Metal: il rumore di un luogo abbandonato, minaccioso, strambo e al contempo familiare. Il metodo-Robinson per tirare fuori da Davis il suo retroterra fortemente traumatico prende spunto dalla madre, autrice di manuali di auto-aiuto, e traduce in musica storie di bullismo, alienazione, e abusi sessuali. La copertina stessa del primo album dei Korn è un manifesto iconico dei contenuti, dalla quale il sentimento di dread sgorga nerissimo. Nel processo catartico / distruttivo che ha portato alla realizzazione del loro primo album, sostanzialmente realizzato da ubriachi e sotto effetto di dosi quasi letali di meth e speed, a emergere è l’Io esploso di Davis, la sua sessualità estremamente confusa e lacerata che si tramuta quasi in omofobia («Faget») e un crollo lacerante registrato su nastro chiamato «Daddy», forse la canzone più oscura a essere divenuta parte della cultura pop degli anni ’90. La narrazione dell’abuso subito da Davis attraverso immagini allegoriche di cannibalismo, il suo pianto alla fine del brano registrato (sadicamente) da Robinson facendo cenno alla band di continuare a suonare è un tabù freudiano incarnato e pubblicamente esposto; come afferma in Totem & Tabù, la trasgressione del secondo tradisce il desiderio della società di manifestare le proprie pulsioni distruttive, un «orrore sacro» in parte indescrivibile. In questo scenario di orrore suburbano, incarnato dal suono schizoide dei Korn, composto da riff dissonanti, groove metal e basso sferragliante, l’intera città della provincia gotica trova una voce nuova, incredibilmente umana e spaventosa nella sua sincera espressione di una sofferenza non mediata da alcuna «posa».

Davis, nelle prime esibizioni live, sembra posseduto: si muove a scatti, a ogni concerto pare perdere il controllo. Un corpo svuotato dal proprio essere, colmato da una sofferenza riprodotta serialmente, un delirio ricorsivo di costruzione e distruzione totemica data dopo data. Da sempre fan del movimento new romantic, dichiarato fan di Duran Duran e The Cure, nei primi live esprimeva il suo spirito goth truccandosi, vestendosi da donna, cantando come se fosse in preda a un attacco epilettico. Niente di nuovo, se confrontato con altri musicisti; il fatto straordinario è che questo luogo desolato e infestato messo in musica è divenuto un successo commerciale.

L’album diventa disco d’oro, e quando scrivono il seguente (Life is Peachy) impiegano pochi mesi; il risultato è un lavoro così estremo da rendere assolutamente impossibile farci sopra una campagna promozionale. È un concentrato di umorismo morboso e disgustoso, cultura televisiva americana vissuta come plagio di minore («Mr. Rogers»), testi dove prevale un sadismo omicida («Kill You») indotto da Ross Robinson e i suoi metodi, diciamo, poco ortodossi. Nonostante l’album sia una versione più commerciale di Project Misanthropia degli Stalaggh (contenente urla dei pazienti di un ospedale psichiatrico) e contenga brani assolutamente senza senso (utilizzato da IVVVO poco tempo fa), Life is Peachy vende tantissimo e il logo dei Korn, disegnato da Davis utilizzando la mano sinistra, diventa un marchio oscuro che milioni di adolescenti sfoggiano a scuola rischiando denunce per oscenità ed espulsioni. In Religion of Fear: The Politics of Horror in Conservative Evangelicalism, lo studioso di religione e politica Jason C. Bivins evidenzia una fortissima spinta paranoide tra la sonnolenta provincia americana durante la fine degli anni ‘90, rintuzzata dalle campagne anti-musica demoniaca (post-avvento del fenomeno Marilyn Manson) del reverendo Bob Larson : «In questo clima di panico, osserviamo una drammatizzazione dei rischi, una sofferenza retorica che spesso sfociava nel legale di mantenere delle barriere – della decenza, soprattutto – sul concetto di «violazione». Questo immaginaria di malattia e contagio generarono una risposta quasi criminale, coadiuvata da una legittimazione spirituale». Bivins descrive casi di in cui giovanissimi venivano espulsi per una t-shirt nera, oppure solo riportante il logo «Korn». Il potenziale oscuro del pop orrifico rappresentato dal Nu Metal stava lentamente venendo alla luce. Nella sua intervista a Jonathan Davis, icona del movimento e del gruppo, Neil Strauss di Spin Magazine conclude in questo modo il profilo biografico del cantante, unito a quello della città: «e infine c’è la camera mortuaria, dove Davis ha lavorato come assistente del medico legale, addirittura vivendoci; il flusso di cadaveri era parte del suo quotidiano. Dopo aver visto le vittime di incidenti stradali, suicidi e abusi sessuali – comprese persone che aveva conosciuto o parlato il giorno prima – Davis ha sofferto di disturbi da stress post-traumatico e incubi ricorrenti (…).

Esplorando Bakersfield – incontrando i genitori, la sorella, i fratellastri, vedendo la stazione di servizio del padre di Head [chitarrista della band], osservando le risse alcoliche tra ultraquarantenni al bar locale – i Korn hanno iniziato ad avere un senso».

E conclude così, nella migliore tradizione del gotico suburbano: «il concetto di Korn esisteva quando nessun membro dei Korn era ancora nato».

1999: Vermi e Cybergoth

Se il capitale è una macchina del suicidio sociale, è perché è costretto ad avvantaggiarsi rispetto ai suoi assassini (…). Solo attraverso un’intensificazione delle affezioni nevrotiche riesce a mascherare le folli eruzioni nelle sue infrastrutture, ma con il passare degli anni queste affezioni diventano sempre più ciniche, disperate, fragili.
Nick Land, Making it with Death

Per evocare un demone, devi imparare il suo nome. Un tempo gli uomini l’hanno sognato, ma adesso è vero in modo diverso. Tu lo sai bene, Case. È il tuo mestiere quello di apprendere i nomi dei programmi, i lunghi nomi formali, i nomi che i proprietari cercano di nascondere. I nomi veri…
– Un codice del Turing non è il tuo nome.
– Neuromante – disse il ragazzo, socchiudendo i lunghi occhi grigi per proteggerli dal sole che stava sorgendo. – Il sentiero che porta alla terra dei morti (…). Io evoco i morti. Ma no, amico mio (…).
Sono io i morti, e la loro terra.
William Gibson, Neuromante

I am the very disease you pretend to be
Slipknot, Surfacing

Nel soffocante clima miasmatico suburbano pulsione di morte e feticci prosperavano. Nel suo libro Teenage Wasteland: Suburbia’s Dead End Kids la sociologa Donna Gaines descrive – con slancio profetico, nel 1991 – un clima di saturazione e frattura nel nucleo famigliare, in quella che definisce «la macchina suburbana», ovvero un meccanismo di omologazione che generava nei giovanissimi uno stress tremendo e destabilizzante. Circa 7 anni dopo, quando i Korn pubblicano Follow The Leader, la terra desolata viene ripopolata da un flusso culturale ibridato al punto da oltrepassare le classificazioni canoniche; ragazzi e ragazze si erano riappropriati della cultura goth, ibridandola con l’esplosione della CGI, la Playstation, i primi rudimentali tentativi di multiplayer, e un concetto embrionale di web community.

Nel «frullatore culturale» chiamato Nu Metal, un genere come l’Industrial era entrato di prepotenza amplificando le attitudini proto-nichiliste della musica pop; se si ascoltano i Korn, è quasi impossibile non avvertire la gigantesca influenza di Justin Broadrick e dei sui Godflesh, soprattutto quelli di Streetcleaner e Pure. Un’influenza mai dichiarata dal gruppo, ma notata da Broadrick, che nel 2007 dichiara a Decibel la sua sorpresa dopo aver ascoltato l’album omonimo dei Korn, «perché dentro c’era tanto dei Godflesh, ma usati in maniera commerciale. Era strano, ma doveva succedere in qualche modo; qualcuno doveva rendere digeribili quelle sonorità». E i Korn, insieme a gruppi come i Fear Factory di Demanufacture, resero in qualche modo appetibili per un pubblico gigante dei suoni apocalittici, applicandoli al microcosmo della provincia (l’ambiente casalingo e la fabbrica, entrambi luoghi infestati).

Le influenze dei Godflesh diventano anche quelle del gruppo di Bakersville, che cita platealmente il capolavoro hip-hop Follow The Leader di Eric B. e Rakim, gruppo la cui potenza ritmica ispirò tanto l’Industrial (per Pure Broadrick campionò la drum machine di Let The Rhythm Hit’em) quanto tutto il Nu Metal.

In un crescendo apocalittico di popolarità, gruppi come Limp Bizkit, Korn e altri declinarono il concetto di famiglia applicandolo a un festival vero e proprio, chiamandolo (appunto) Family Values; il tema sotterraneo del movimento veniva esplicitato al massimo grado, creando un marchio che evidenziasse il pervertimento del nucleo famigliare e la creazione di una comunità fondata da reietti, diversi, diciamo anche «mostri». Per una visione d’insieme del massimo grado di quella definita come estetica mallgoth (gotici da centro commerciale) rimando a questo interessantissimo account instagram. Osservando l’edizione del 1998, emergono anche gruppi che richiamano clamorosamente la new wave e l’industrial mainstream di Trent Reznor, tipo Orgy e Videodrone (entrambi prodotti da Jonathan Davis); l’ibridazione del Nu Metal appariva come un desiderio di massimizzare tutte le spinte controculturali del passato per costruire una visione del futuro totalmente ibridata con il nichilismo cyberpunk/masochistico dei Nine Inch Nails, il Manson androgino e spaventoso di Mechanical Animals, l’estetica supereroistica macabra dello Spawn di Todd McFarlane (la OST del film, fondata su dei meshup assurdi, è un perfetto spaccato dell’epoca). Il saggio di Nick Land CyberGothic, contenuto in Fanged Noumena, contiene questo passaggio sul Cyberpunk applicato a una rilettura di Neuromante: «Il cyberpunk è troppo interconnesso per concentrarsi. Non aderisce alla trascendenza, ma alla circolazione; esplorando l’immanenza della soggettività nei flussi di dati telemetrici: ingegneria della personalità, registrazioni della mente, trance catatoniche del ciberspazio, scambi di trasduttori e sessualità comatosa. Tutte le percezioni dell’io non sono più immateriali dei pacchetti d’onda». Il grande corto circuito interno alla narrazione del Nu Metal era interiorizzato da questa dicotomia: una propensione a disintegrarsi nel web, smaterializzare la propria identità nel caos fecondo di una musica insieme popolare e ripugnante, e contemporaneamente restare ossessivamente intrappolati nella narrazione di orrori interiori. Il Nu Metal cantava il thanatos freudiano di Al di là del principio di piacere, rendeva pop il ritorno allo «stato primordiale inorganico».

Alla fine del secolo il movimento raggiunge il suo picco di massima risonanza; il terrore da apocalisse imminente promuove visioni catastrofiste e cupissime. L’inizio del nuovo millennio viene scosso da alcuni eventi che accadono nell’arco di pochi mesi: 20 aprile, viene compiuto il massacro di Columbine. 7 maggio, Matrix arriva nei cinema di mezzo mondo. 29 giugno, gli Slipknot pubblicano il loro primo album. A fine luglio si svolge Woodstock ’99, l’edizione più violenta e controversa del festival.

In questo scenario, gli Slipknot rappresentano il massimo grado di «avanguardia» del genere; il loro primo album omonimo, pubblicato nel 1999, rappresenta il momento in cui nel movimento l’orrore si palesa assumendo le sembianze della familiarità mostruosa weird dei mostri di King e le mutazioni oscene della carne descritte da Clive Barker nei suoi Libri di Sangue. Il sound degli Slipknot è l’estremizzazione dei canoni del genere, il gruppo che incarnava l’alternativa death e black del genere, al punto che i fan del gruppo avvertivano un senso di non appartenenza anche al movimento stesso e preferivano definirsi maggots (larve) che avrebbero pasteggiato sul futuro cadavere gonfio e marcescente del genere (rappresentato dal cantante dei Limp Bizkit). Il loro primo album è veloce, lurido, psicotico, pieno di sample assurdi, barili suonati con tubi di ferro; anche questo frutto dell’attitudine violenta e sconsiderata di Ross Robinson, un tizio che non si faceva scrupoli a tirare oggetti contro Joey Jordison per farlo suonare più velocemente, oppure ficcare le unghie nella schiena di Jonathan Davis durante la registrazione delle linee vocali di Freak On A Leash. Un pezzo come «Eyeless» è ancora oggi assurdo, come sarebbe assurdo sentirlo alla radio (ricordiamo che il loro primo album ha venduto milioni di copie nel ’99); sembra grindcore tritato da un dj per renderlo sensato, fallendo miseramente.

Slipknot è una fusione oscena di body horror, fluidi vomitati e ferite esposte; un orrore adatto allo spirito del tempo, e alla violenza che l’ha contraddistinto. Seppure molti associno gruppi del genere al massacro della Columbine High School, la realtà come al solito è ben diversa.

Nel 2009, a dieci anni dal giorno in cui Eric Harris e Dylan Klebold uccisero 13 persone e ne ferirono 24, per poi suicidarsi, Dave Cullen pubblica Columbine; ripercorrendo tutta la vicenda e pescando da diari personali e registrazioni, vengono fuori due ritratti totalmente opposti da quelli descritti dai media. Harris e Klebold non erano due outsider, non rappresentavano la loro generazione e le icone a loro associate (Marilyn Manson, ma anche il resto del movimento Nu Metal). Anzi, erano fan dei KMFDM, che per una coincidenza terrificante pubblicarono il loro album Adios nel giorno in cui avvenne il massacro. Erano dei ragazzi brillanti, popolari, e profondamente misantropi.

Lo stesso, orribile, festival di Woodstock del ’99 viene falsamente imputato come «specchio dei tempi», quando in realtà prosegue la scia di totale disinteresse e cinismo frutto del capitalizzare da parte di brand ed etichette sulle icone di massa fregandosene totalmente del concetto di «sicurezza», rendendolo un’aberrazione catastrofica di malattie, abusi e ferite mortali; una prassi che ha segnato l’edizione del ’94, ed è divenuta di massa grazie alla diffusione mediatica in quella del 1999. Tutto questo per parlare di una verità storica, che riguarda il Nu Metal come movimento e genere solo tangenzialmente; i Limp Bizkit, in questo ambito, sono diventati l’esatto opposto di quello che in origine il movimento doveva rappresentare, preferendo il machismo corporativo (Fred Durst all’epoca era vicepresidente della Interscope) e la provocazione becera all’orrore creativo, repellente e catartico. Erano praticamente il capo sessista e sgradevole che non puoi mandare affanculo perché devi «lavorarci insieme». Fortunatamente, la storia li ha seppelliti.

Ultimi riti: White Pony e Kant come rimedio per l’apocalisse

I see a red light in June
And I hear crying
You turn newborn baby blue
Now we’re all the virus
Deftones, RX Queen

Sono d’accordo con quello che hai detto sulla lotta interiore nel nu metal che si collega alla pulsione di morte e una sorta di “apocalisse ibrida”, ma come musicista con inclinazione filosofica non sono sicuro di quale grado posso sostenere questa tendenza in questa era – In realtà tendo sempre più verso un certo razionalismo, o anche verso una teologia razionale.
Hunter Hunt-Hendrix

Nonostante la percezione comune, nel 2000 il movimento inizia il suo lungo processo che lo porterà alla rimozione assoluta, gettandolo in un abisso comune di vergogna e repulsione; la bara di tutti gli intenti di ibridazione cyber/controculturale sarà il successo mondiale di Chocolate Starfish dei Limp Bizkit, che genererà una tendenza comune a chiamarsi usando la lettera L per essere inseriti nello stesso scompartimento al negozio di dischi. I Korn, dopo Issues (sottovalutato, scarnissimo e claustrofobico manifesto goth della band) non torneranno per altri tre anni, e gli Slipknot sceglieranno la via della brutalità assoluta con Iowa nel 2001.

L’incarnazione definitiva della spinta mutante del Nu Metal, sebbene loro ne abbiano sempre preso le distanze, sarà White Pony dei Deftones; il gruppo di Sacramento si è sempre mosso in terreni da completi outsider, sebbene il loro frontman Chino Moreno fosse un appassionato di New Wave tanto quanto Davis, e il loro precedente album Around The Fur è tra i più rappresentativi dell’epoca.

Tutto questo viene distrutto da White Pony, un lavoro complesso, invendibile, più vicino al post-hardcore ai Cure e ai Portishead che a robe tipo Rollin’. Ascoltando un pezzo etereo e dissonante come Digital Bath si rintracciano parti di orrore suburbano, elementi (appunto) della frammentazione digitale, un registro sensuale/mellifluo e insieme aggressivo. Tutto l’album è infestato da questi elementi, dal passato musicale degli anni ‘80 a quello dell’alternative degli anni ‘90. Come se fosse un esperimento sulla memoria di The Caretaker, White Pony evoca la prospettiva di un futuro incompiuto, un passato rimosso e rivissuto melanconicamente. Sicuramente uno dei lasciti musicali più preziosi e densi del genere, insieme a Hybrid Theory dei Linkin Park.

Il primo album dei famigerati «Backstreet Boys del Nu Metal» in realtà ne rappresenta la forma pop perfettamente compiuta, smussato dai suoi orrori ma profondamente radicato nella narrazione ibridata del sé spezzato e abusato. Hybrid Theory pesca totalmente dalla produzione degli Helmet e la declina utilizzando le intuizioni di Aphex Twin su Windowlicker e Come To Daddy (Mike Shinoda ha dichiarato di essersi ispirato a lui quando ha scritto In The End ), creando l’ibrido perfetto per formare una controcultura musicale di massa, talmente chirurgici e focalizzati da riuscire ad essere contemporaneamente rivisitati in un mixtape di Endgame oppure usati come base in un pezzo di Ghostemane.

Dopo l’attentato dell’11 settembre, inizia il vero declino del Nu Metal. Il terrore interiorizzato diviene Lo Spirito Del Terrorismo, come lo ha definito Jean Baudrillard: «l’irruzione di una forma di morte che è oltre la realtà: una morte simbolica e sacrificale – vale a dire l’evento assoluto, irrevocabile». Il filosofo che ha segnato l’immaginario comune venendo citato in una delle più famose narrazioni pop sul concetto di simulazione descrive perfettamente il momento in cui una generazione ha iniziato il suo percorso politico verso l’esterno, sfuggendo dagli orrori del privato per affrontare un male assoluto, monolitico, inclassificabile.

L’interiorità traumatica, sofferta, weird e sgradevole del Nu Metal, anche come attitudine totalmente controintuitiva rispetto alle regole del mercato vive ancora.

Hunter Hunt-Hendrix, quando gli ho chiesto in che modo Trap e musica classica potessero funzionare insieme per creare un nuovo medium sfidante per l’ascoltatore, in un’ottica anche di successo commerciale come fu per l’orrifico del Nu Metal, mi ha dato questa lunghissima risposta estremamente interessante per la sua complessità a tratti contradditoria (e velatamente messianica. Potrebbe essere un buon punto di partenza per un nuovo capitolo della Nu Metal Theory, si spera (come dicono i trapper) «presto fuori»:

«La mia teoria si basa su qualcosa che non ho mai incontrato prima, il che mi sorprende, perché a me sembra così importante. Da un lato abbiamo forme di musica contemporanea legate ai circuiti del desiderio e alle reti di distribuzione della moderna società (post) industriale, la più importante delle quali è la musica Trap. Queste forme di musica rappresentano sicuramente una sorta di energia emancipatrice che vale la pena preservare e affermare – di solito una forma di emancipazione che comporta la desacralizzazione dei falsi idoli, trascendere le norme sociali, eliminare le forme conservatrici, tendendo verso il post-umano. Tuttavia, è difficile negare che in ultima istanza questa emancipazione non sia guidata dal mercato – è permesso creare e trovare un pubblico proprio perché serve all’intensificazione del valore capitalista, anche nei casi (sempre più rari) in cui il messaggio di una band o un’artista è esplicitamente anticapitalista. Penso che questa intuizione sia la base del pensiero di Nick Land sul nichilismo che riafferma il capitale. Ma c’è anche un canone storico della musica che è stato progettato per favorire modi di soggettività che non sono affatto capitalisti, che sono ‘conservatori’ nel senso che promuovono delle modalità di affezione o attenzione basate su fiducia, coraggio, gratificazione non immediata, carpire informazioni essenziali da un modello complesso, pazienza, distinzione squisitamente sottile tra emozioni e così via. Questi sono i tipi di virtù che sono stati a lungo associati alla ragione divina, e sono i sine qua non di qualsiasi comunità di successo, sia umana che post-umana. Sono anche emancipatori, ma più in termini di emancipazione dello spirito umano dalla sua base, dai desideri miopi o eteronomi, così che esso sia in grado di amare e fare ciò che conta veramente. Le persone non tengono molto a queste cose perché sono antiquate, noiose, soffocanti – non ricevono attenzione sul mercato. Quindi, mi sembra che uno sforzo veramente completo sull’arte possa utilizzare sia le forme di emancipazione distruttive orientate al mercato sia la forma conservatrice e ascetica dell’emancipazione. Nell’opera a cui sto lavorando [Origins Of Alimonies] mi sono posto questi compiti compositivi, passando dalla Trap a un climax romantico a un arazzo minimalista fino a un breakdown Djent, tentando di attivare gli stati di coscienza propri di ciascuna di queste forme e offrendo anche un veicolo per l’ascoltatore per avere una visione più ampia della storia della musica».