Il nostro sguardo sugli animali

Disneyficazione, marginalizzazione di specie e maiali che affettano maiali: cosa succede quando l’antropomorfismo diventa l’unica narrazione che applichiamo al mondo animale

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Il quartiere attorno al mercato centrale di Vásárcsarnok, a Budapest, è una zona elegante – di grandi palazzi barocchi – e molto turistica – animata da bar e ristoranti. Di tanti fast food, uno in particolare ha attirato la mia attenzione. Vende specialità magiare a base di pollo, spiedini, ali fritte, filetti, interiora alla paprika. L’insegna è in stile nostalgico, American Graffiti, anni Cinquanta. Una scritta al neon con il nome del ristorante gira attorno alla statua in polistirolo della mascotte del locale: un pollo antropomorfo, sorridente, con il cappello da chef, che gonfia il petto d’orgoglio e invita i passanti a entrare. Un pollo-umano che cucina polli-polli.

Qualche giorno dopo il mio viaggio in Ungheria, il mio amico Vincenzo pubblica su instagram una foto scattata nel traffico di Milano: è il primo piano dello sportello posteriore di un camion frigorifero decorato con il logo di un salumificio. Con lo stesso sorriso vacuo del pollo-cuoco di Budapest, un maiale antropomorfo con camice da macellaio affetta una coscia di prosciutto cotto. Un maiale-umano che affetta un maiale-maiale. Sembra un fumetto di Joan Cornellà, come ha detto per l’appunto il mio amico Vincenzo, e in effetti l’effetto di inquietudine che ne scaturisce è esattamente quello.

Maiali che affettano maiali a Milano

Cerchiamo altri esempi.

Scoprire che l’universo Disney ha delle gravi inconsistenze logiche è forse una delle prime epifanie infantili, condivise ormai da intere generazioni. In una delle scene più famose di uno dei film di formazione per antonomasia, Stand By Me, i bambini protagonisti, radunati attorno a un fuoco, tra gli alberi, di sera, iniziano a porsi interrogativi enormi sull’universo, domande tipo quale cibo sceglieresti se ti costringessero a mangiarne solo uno per tutta la vita oppure: «Secondo voi… se Paperino è un papero, Topolino è un topo, Pluto è un cane,  cos’è Pippo?». Pure Pippo è un cane, e – al contrario di Pluto – ha pieno diritto di cittadinanza e di voto a Topolinia (città dove, tra l’altro, a dispetto del nome, i cani antropomorfi sono una silenziosa maggioranza rispetto ai topi).

In Perché guardiamo gli animali (pubblicato in Italia da Il Saggiatore) John Berger riporta una conversazione tipica dei fumetti Disney:

PAPERINO: Come al solito sono in bolletta e manca un’eternità al giorno di paga.
NIPOTE: Potresti fare una passeggiata zio Paperino… andare a osservare gli uccelli.

Un papero-umano che per alleviare il logorio e lo stress della vita moderna, le bollette, il lavoro, le scadenze, va a farsi un giro per la natura, a guardare paperi-paperi ancora selvaggi che volano via. Avete capito dove andiamo a parare. L’uomo ha creato a propria immagine gli dèi e gli animali. Quello di antropomorfizzare il diverso-ma-uguale-da-sé è stato uno dei primi istinti culturali dell’essere umano.

Il primo soggetto della pittura fu animale, probabilmente il primo materiale da pittura fu il sangue animale.

Gli animali sono stati messaggeri e promesse, nel racconto umano hanno assunto funzioni magiche e sacrificali, per colmare la nostra solitudine di specie li abbiamo trasformati in storie, leggende, metafore. Gli animali sono stati i primi intermediari tra l’uomo e le proprie origini.

Ciò che distingueva l’uomo dagli animali era la capacità di pensare per simboli (…) Eppure i primi simboli furono degli animali. Ciò che distingueva l’uomo dagli animali nasceva dalla relazione con loro.

Oggi nelle città abbiamo eliminato le presenze animali, tollerate solo in forme domestiche, addestrate o decorative. Viviamo una nuova e più profonda solitudine di specie. Questa mancata prossimità, secondo Berger, conduce a una marginalizzazione culturale. Gli unici veri spazi che gli animali continuano ad avere nel nostro immaginario sono quelli che abbiamo concesso loro cooptandoli nello spettacolo.

Viviamo una nuova e più profonda solitudine di specie. Questa mancata prossimità, secondo Berger, conduce a una marginalizzazione culturale.

L’antropomorfismo, dicevamo, è antico quanto il pensiero umano. Ma cosa succede se rimane l’unico sguardo che rivolgiamo al mondo simile-dissimile degli animali?

Qualche tempo fa un articolo di Slate denunciava il cambiamento di linguaggio dei documentari di natura degli ultimi anni. La via più facile e più percorsa per garantire il coinvolgimento emotivo dello spettatore è diventata quella di costruire una narrazione umana sopra la vita animale, tessere trame esili di vicende familiari e avventure personali addosso a animali inconsapevoli. È la tecnica Disney, rodata su secoli di fiabe, ma che applicata al documentario lo priva di qualsiasi utilità documentaristica.

Lo spartiacque è stato probabilmente La marcia dei pinguini (La Marche de l’empereur), di Luc Jacquet, Oscar nel 2006, «documentario» talmente zeppo di omissioni, ammiccamenti e artifici narrativi da essere diventato film di culto per creazionisti e destra religiosa.

Tendiamo ad annullare la differenza animale/umano, ma al tempo stesso ci siamo allontanati da quel mondo ancestrale: questo ci crea un disagio che, per tornare a citare Berger, tentiamo di riassorbire trasformando gli animali in marionette umane. Viviamo un cortocircuito. Creazionisti e pinguini. Polli che cucinano polli. Maiali che affettano maiali.