Non siamo la vostra ispirazione

Cos’è l’abilismo? Una risposta collettiva desoggettivante e dis-abi-militante

In copertina Your Girl, Alessandro Sciarroni, ph Alessandro Sala/Centrale Fies

Che succede se parlando di disabilità spostiamo l’accento da una presupposta “mancanza” del corpo all’accessibilità (politica, culturale, economica)? Che succede se assumiamo i caratteri intrinseci all’esperienza disabiliante come pratica di scrittura? Ovvero la sua dinamicità, la sua dimensione relazionale rispetto ad ambienti, contesti e care giver? La sua natura eccentrica, cioè quella capacità di far esplodere i confini, le categorie e problematizzare il concetto di norma? Possono questi tratti divenire strategia politica ed espressiva? Possono generare una scrittura desoggettivante, deviante e volutamente deviata? Questo testo si fonda su questa avventura, disperdendo il soggetto di chi scrive in un caleidoscopio di punti di vista o meglio di punti del corpo che si apprestano a farci sentire la complessità che circonda le disabilità in una cultura profondamente abilista.

NB: Il testo fa uso di un linguaggio gender neutral che si adatta alle necessità dei software screen reader utilizzati da persone cieche, ancora non impostati per la lettura di asterischi, underscore o schwa. Per tale motivo le desinenze di alcuni termini sono volutamente tronchi.

2007. Esterno-Buio

Era il 2007 quando l’artista Alessandro Sciarroni metteva in scena Your Girl, costringendomi a interrogare il mio sguardo e le prospettive in cui era incastrato. Lo spettacolo è una riscrittura di Madame Bovary: un palco bianco accecante e asciutto, tre corde di calzini intrecciati pendono dal soffitto e riempiono l’angolo destro sullo sfondo. Quasi sul proscenio, nell’angolo sinistro c’è il bidone aspiratutto realizzato dal designer Francesco Trabucco per Alfatec nel 1974. Questi gli unici elementi su cui può divagare il mio occhio, solitamente sollecitato da moltiplici input visivi. Accanto all’albero di calzini c’è il performer Matteo Ramponi. Entra in scena nel silenzio un’altra performer su una sedia rotelle, Chiara Bersani. Si ferma e scende posizionandosi davanti al bidone. Inizia un dialogo tra queste due presenze fatto di gesti millimetrici: Matteo Ramponi continua a tessere la sua tela di calzini, Chiara Bersani aziona l’aspiratutto inserendovi uno a uno gli indumenti che indossa mentre dice alternativamente: “He loves me” o “He loves me not”. È il gioco della margherita che facevamo nell’infanzia per scoprire se la persona amata ci corrispondesse. I petali sono qui sostituiti da vestiti, parti del corpo che si staccano e vengono risucchiati da un elettrodomestico nella spasmodica tensione volta ad appagare un desiderio. Le due presenze si spogliano a poco a poco sino a restare nude, l’una accanto all’altra e solo alla fine, prendendosi per mano Matteo Ramponi dice: “I love Him”.

La dimensione rarefatta e igienica viene sopraffatta da una canzone pop: “Non me lo so spiegare di Tiziano Ferro. Un cortocircuito spiazzante che mi risucchia dentro quel bidone insieme ai petali strappati dalla passione di Madame Bovary. Per tutto il tempo sono stata attenta ad ogni gesto  soppesato, distillato nel quasi totale silenzio, eppure sono stata attraversata da una forza desiderante. Cosa pulsa nelle mie corde più viscerali? Tutto l’insieme mi trascina in uno sgambetto concettuale che non riesco a decodificare. Madame Bovary in questo spettacolo non muore perché la stessa angoscia di appagare la propria brama è già il suo dramma. Questa brama è restituita dalla tensione che ciascun elemento in scena innesca a catena con l’altro. Un rimando e rimbalzo di energie che non si sciolgono fino alla fine. Io sono tesa tanto quanto quello che vedo, mi sforzo di trovare un nesso, e in questo sforzo precipita il mio dramma, non troppo distante da quello di Madama Bovary. La mia bramosia di capire non viene appagata e in quella sospensione trovo una scintilla: il conflitto è vitale. La matematica risolve, l’arte no. Ma c’è un’altra cosa che mi spinge a osservare quanto le mie aspettative da spettatrice siano viziate da preconcetti stereotipati. C’è la sorpresa subdola che si insinua nei miei pensieri di aver considerato bello e sensuale il corpo non conforme di Chiara Bersani. Mentre lo penso mi dico al contempo: perché non dovrebbe esserlo? Hai mai giudicato in questi termini altr performer e al contempo i tuoi stessi giudizi? Cosa ti fa scivolare in questo meta-pensiero morboso? Mi è servito un po’ di tempo per capire. La risposta non era in quel corpo, ma nelle griglie entro cui il mio sguardo era stato educato, griglie che Sciarroni mi restituiva in formato liquido. 

In sostanza lo spettacolo mi aveva fatto capire quanto il mio sguardo fosse abilista. Questo termine non lo conoscevo allora. Oggi so che per “abilismo” si intende quell’insieme di atteggiamenti, pratiche e prospettive che, a diverse gradazioni di scala, discriminano le persone con disabilità svalutandole, escludendole dalla vita sociale o, per contro, “eroicizzandole” in ragione di condizioni fisiche, sensoriali, psichiche, intellettive e relazionali. Una lettura che schiaccia le identità delle persone unicamente sulla loro disabilità e forgia relazioni sociali, linguistiche, urbanistiche e civili su misura di corpi normativamente abili. Con “normativamente” intendo sottolineare quanto i concetti di abile e disabile siano edificati culturalmente. Come si fa a riconoscere una pratica, un pensiero, una prospettiva abilista? Come riuscire a vedere oltre i costrutti sociali, ad accorgersi di ciò che è perennemente assente se tutto quello che ti circonda è costruito a tua immagine e somiglianza? Se cartoni animati, film, fumetti, spettacoli, cartelloni pubblicitari, strade e edifici si adattano alle mie esigenze, è probabile che io viva in una condizione normativamente privilegiata. E allora a che titolo sto parlando? 

Your Girl, Alessandro Sciarroni, ph Alessandro Sala/Centrale Fies

2022. Interno Notte

Riconosco l’eccezionalità di vedere una persona disabile su un palcoscenico. Riconosco anche il fatto che ogni disabilità favorisca immaginari diversi e susciti differenti reazioni. Tuttavia, in chi poi vuole parlare o scrivere di una persona con disabilità in scena, vengono sovente meno due fasi fondamentali per sviluppare un discorso costruttivo: interrogare i soggetti (e non gli oggetti) dello sguardo. La tendenza più diffusa infatti è soffermarsi sulla propria reazione emotiva, cioè intavolare sopra il soggetto guardato un ragionamento, magari anche poetico ed emozionante, senza tuttavia approfondirne la conoscenza. Il sunto lo trovo in un’espressione che ritorna spesso quando leggo di me: “è affetto da nanismo”, come se parlassimo di una malattia piuttosto che di una caratteristica grazie alla quale si è sviluppato un preciso punto di vista, il mio, unico come lo è, però, quello di ciascuno sulla base delle proprie caratteristiche psicofisiche e culturali. La seconda fase è il mettere in questione la prospettiva dalla quale stiamo osservando. Capire soprattutto quanto la disabilità abbia poco di eccezionale e sia piuttosto un’esperienza prossima a ognuno di noi. I nostri corpi, infatti, quelli di noi tutti, sono fragili. Io sono una persona piccola che si è data come obiettivo il ribaltamento dell’immaginario suscitato dal proprio corpo, piuttosto che affidarlo o affittarlo al miglior offerente consolidando le aspettative altrui.

2022. Interno Rabbia

Perché da persona con disabilità quando leggo che qualcuno mi definisce “testimone di uno stato di grazia” e lo mette in evidenza come qualità intrinsecamente artistica delle persone con disabilità mi sento terribilmente infastidito? Forse dovrei esserne lusingato perché qualcuno mi attribuisce una qualità che culturalmente è percepita come positiva quando invece solitamente vengo percepito come mancante? Sale in me la rabbia perché intravedo, dietro l’alone di bellezza che l’espressione suscita, un mondo di significati che continua a negare la mia esistenza. Questa espressione sembra che mi dica tra le righe: “Stai fermo lì! Non ti muovere, non lottare per entrare nel mondo perché deterioreresti la tua preziosità che deriva dalla marginalizzazione a cui la comunità abile ti confina; io che parlo di te sono uno dei pochi che vede la tua reale bellezza, per lo più incompresa e che ha bisogno della mia intermediazione per essere accessibile alla comunità”. È un rapporto religioso a tre tra sacerdote/artista, il dio/disabile e la comunità. È un invito a mettermi a disposizione di una visione altrui. Diventare un mezzo per incorporare scenicamente discorsi non miei. Forse dovrei essere entusiasta perché almeno tu mi vedi come un mezzo quando per secoli le persone con disabilità sono state considerate motivo di imbarazzo e vergogna. Forse dovrei esserti grato perché mi dai visibilità sul palco quando per secoli sono stato posto ai margini della visione se non proprio fuori dal campo visivo. Eppure continuo a vedere la prigione perché il linguaggio santificante ribadisce una distanza tra me, te che mi hai nominato e la comunità cui insieme apparteniamo. È il linguaggio dell’icona e dell’eccezionalità che ci inchioda in soggetti genuini e spontanei perché impossibilitati a partecipare alla vita mondana e complessa. Come se fossimo esenti dalle fatiche a sostentarci, dalle relazioni.

Lo stato di grazia di cui parli non è altro che il risultato di un’interazione tra soggetti con disabilità e l’ambiente culturale e fisico pensato per un soggetto normativizzato. Il risultato di una discriminazione. Un teatro che attribuisce alle persone con disabilità o marginalizzate valori di bellezza, di verità, di spontaneità, di gentilezza, spiritualità, supposti valori alternativi a quelli della società contemporanea, non questiona l’edificio concettuale che sta alla base di questa discriminazione, piuttosto rinforza un costrutto culturale abilista estetizzato. La persona marginalizzata subisce un ribaltamento radicale di segno. Senza realmente creare un conflitto o un cortocircuito di senso necessario per stimolare domande. 

Noi non vogliamo essere deificati, santificati. Vogliamo diritti e vogliamo che questi diritti diventino possibilità concrete di vita al di là delle nostre disabilità e dei significati simbolici che gli abili proiettano su di esse. Vogliamo istituti formativi accessibili. Vogliamo partecipare attivamente alla vita culturale del paese. Vogliamo ricostruire le nostre voci e non prenderne in prestito di posticce. Qui non si è ancora arrivati a concepire la persona con disabilità come professionista dello spettacolo, soggetto esercitante capacità critiche e portatore di un punto di vista proprio. Soggetto desiderante. 

L’idea che qualcuno possa essere in grado di superare una disabilità non è una prerogativa della comunità disabile. Semmai è un desiderio generato dall’esterno, poiché chi vive la disabilità è consapevole di quanto sia fisicamente impossibile superarla.

2022. Esterno Tramonto

Prima dello spettacolo di Sciarroni avevo visto in scena altri corpi non conformi, ma la prospettiva in cui le mie emozioni e i miei occhi erano stati imprigionati erano quelle della compassione o dell’ispiration porn (pornografia motivazionale) come l’ha definita l’attivista e artista Stella Young:  «Uso deliberatamente il termine pornografia perché [queste narrazioni] riducono a oggetto una categoria a beneficio di un’altra […] Lo scopo di queste immagini è quello di fornire ispirazione, motivazione affinché possiate pensare: “Beh, per quanto difficile sia la mia vita potrebbe essere peggio. Potrei essere io quella persona”». Stella Young fa riferimento a quella prospettiva che inserisce le persone con disabilità come fonte d’ispirazione per altre non disabili, e io cresciuta a pane e televisione, quella berlusconiana in particolare, non ho fatto altra esperienza che di quella prospettiva. Sin da piccola, quelle poche volte che in un film, in TV, in uno spettacolo, avevo visto una persona con disabilità, la narrazione era sempre la stessa: guarda quella persona, nonostante la  disabilità è arrivata lì, quindi figurati cosa puoi fare tu e via di lacrime e sentimenti pietistici cristiani.

Penso a Orchidee (2013) del regista Pippo Delbono, in cui l’attore di nome Bobò entra in scena, non si muove, né proferisce parola, ma è presentato dal regista che ne racconta la biografia: un uomo sordo e analfabeta “salvato” da un ospedale psichiatrico. C’è da chiedersi: il fatto che Bobò sia una persona sorda ha una qualche relazione con la scena? Potremmo dire no, se non fosse che la voce dello stesso regista ci presenta l’attore come immagine del dolore salvato dall’arte. Dunque, è il testo verbale a sovrascrivere sul corpo del performer un determinato significato, non l’interazione tra azione e scena come avviene in Your Girl di Sciarroni. Cioè è Pippo Delbono che mi dice: “Guarda questo attore, Bobò è sul palco oggi perché io l’ho salvato, commuoviti!” 

Questa disposizione si fonda sull’intreccio tra il superamento di una disabilità e la logica del nonostante. Come scrive la studiosa Simi Linton: “L’idea che qualcuno possa essere in grado di superare una disabilità non è una prerogativa della comunità disabile. Semmai è un desiderio generato dall’esterno, poiché chi vive la disabilità è consapevole di quanto sia fisicamente impossibile superarla”. A volersi soffermare sulla logica del nonostante bisognerebbe misurarsi non tanto con condizioni fisiche a dispetto delle quali un o una performer sia riuscit a calcare la scena, quanto su quelle ambientali e istituzionali. Non nonostante la sua disabilità, ma nonostante una società che ne limiti l’accessibilità all’alta formazione, ai luoghi, fisici e di potere, delle arti performative. Come fa una bambina con disabilità a sognare di diventare un’artista se sui palchi non c’è nessuna che le assomigli? Se le scuole di alta formazione non sono ancora pronte a confrontarsi con corpi non conformi a una supposta “regola”? Se palchi e camerini non sono percorribili da chi fa esperienza di difficoltà motorie o non dispongono di percorsi tattili per chi fa esperienza di cecità? Come fa una persona sorda a comunicare se in questi tempi indossiamo una mascherina che cela il labiale e non conosciamo la Lingua dei Segni? Figuriamoci andare al teatro o fare un corso teatrale. Qui si nega il diritto di sognare.

2022. Interno Buio

L’esperienza del mio corpo ha recato un rifiuto totale per la disabilità e tutto il complesso apparato che ne deriva per circa 28 anni. Questo lungo processo di accettazione deriva da una società che ci inquadra come esseri maggiormente richiedenti, persone cui è concesso di avere senza necessariamente dover dare, di chiedere senza offrire. Questo non appartiene alla mia indole. Solo quando ho incontrato altr artist con disabilità ho potuto sperimentare una consapevolezza condivisa e una volontà di scalfire quell’educazione imposta, per rifondarne un’altra basata sull’incontro e lo scambio di istanze e qualità che derivano proprio dal fare esperienza di una determinata percezione del mondo. Incontro e scambio al cui centro però vi è l’arte e la persona, non la disabilità. Uno scambio generativo di linguaggi artistici e pratiche educative, aperto alla curiosità e portatore di domande, soluzioni mai assodate né valide per tutt, regole e leggi sempre in dialogo con istanze politiche.

Un anno fa infatti, nasce Al.Di.Qua. Artists: acronimo del più lungo ALternative DIsability QUAlity Artists, è la prima associazione italiana di e per artist e lavorat dello spettacolo con disabilità, con l’obiettivo di rivendicarne autonomia e i diritti e ribaltare l’immaginario collettivo legato alle disabilità. Il nome l’abbiamo scelto perché lascia intendere che ci siano un AL DI QUA e un Al Di Là. Un muro simbolico di cui vogliamo cercare le insenature per farlo crollare. Vogliamo contagiare con forza capillare l’Al di là, costruire nuovi spazi di possibilità, rileggere i meccanismi di partecipazione e diventare voce nel cuore del dibattito contemporaneo affinché il nostro corpo non sia la prima e ultima cosa che si dica di noi. Siamo quasi tutte persone con disabilità. Non potremmo esserne più orgogliosi e orgogliose. Ma non è sempre stato così.

Si consideri che in quanto membri della medesima società, abili e disabili condividono un modo socialmente appreso di disporsi, così come una medesima dotazione di risorse sociali per mezzo delle quali interpretare l’identità dell’altr . Questo fa sì che la persona stigmatizzata veda in primis  la sua disabilità come mancanza. Da ciò nasce il sentimento di vergogna o, in alcuni casi, di sollievo nel non apparire immediatamente disabile – qualsiasi cosa ciò significhi. Non c’è dunque da sorprendersi che la persona stigmatizzata elabori tutta una serie di tecniche e trucchi volti a celare la sua non conformità: e così via di covering e passing, in impressionanti giroscopici stratagemmi pirotecnici volti a un medesimo fine. Una self-erasure che convince tutti, ma in primo luogo chi la pratica, che i propri attributi non siano meritevoli di attenzione. Da ciò deriva che chi incorpora un’evidente non conformità si troverà a vivere situazioni perennemente caratterizzate dalla gestione della tensione originata da un’interazione sociale mancante di frame conosciuto a cui ricondurla; mentre coloro “fortunati abbastanza” da poter celare la propria disabilità baseranno le loro interazioni quotidiane su una perenne negoziazione delle informazioni: mostrare o non mostrare, dire o non dire, mentire o non mentire, come, quando, dove. E questo vale per tutte le “identità degradate”, come le chiama Goffman.

2022. Esterno Notte

Penso a Clara, l’amica di Heidi che si muove su una sedia rotelle: una bambina ricca e viziata che ha tutto meno l’uso delle gambe e perciò è antipatica e scontrosa, al contrario di Heidi che non ha nulla se non la gioia di vivere tra le montagne e affetti sinceri. È proprio quella ventata di genuinità di Heidi a permettere a Clara di camminare. Non una sua volontà interiore, non la sua tenacia, non la sua autodeterminazione: Clara è snob e cattiva finché non incontra una persona non disabile povera, ma libera nell’animo, che finalmente la riscatta. Oggi direi che quel cartone è una scommessa mancata. Sarebbe potuto servire per mettere a fuoco i miei privilegi, per allentare una visione dicotomica della realtà in cui la persona povera è buona e libera, la persona ricca è capricciosa ed egocentrica. La persona non disabile aiuta la persona con disabilità a salvarsi. Avrei potuto comprendere che le disabilità sono realtà dinamiche senza classe, né genere che riguardano tutt. Sarebbe potuto servire a veicolare una prospettiva intersezionale delle lotte: la povertà di Heidi e la disabilità di Clara sullo stesso piano a combattere una forma di marginalizzazione. Anche la povertà, come le disabilità, viene infatti affidata nell’immaginario a una certa retorica della sincerità e dell’autenticità. Quante volte abbiamo sentito dire al ritorno da un viaggio in un paese povero (spesso non occidentale): “bello perché le persone erano autentiche!”? Quante volte abbiamo sentito dire di una performer con disabilità “è autentica”?

Dire che una cultura o una persona con disabilità è testimonianza di autenticità equivale a relegarla in una posizione oppressiva perché considerata “straordinaria”, termine utilizzato dalla studiosa Rosemarie Garland-Thomson per intendere un fuori dall’ordinario, cioè superiore o inferiore rispetto all’ordinario. Per intenderci, non si tratta di scegliere tra estremi opposti, tra le ambiguità seduttive del male o le confortanti narrazioni del bene. Si tratta piuttosto di sfuggire dalla logica dell’eccezionalismo che colloca la persona con disabilità in una posizione singolare, sia essa appannaggio del bene o del male. Un corpo non conforme non è più sincero di un altro, perché attraverso la propria biologia si fa testimone di un vissuto. Qualsiasi corpo in scena è traccia di un vissuto convocato da uno specifico timbro della voce, un’inflessione che lo riconduce a una determinata zona geografica, una postura che riflette atteggiamenti sedimentati negli anni. Ma nessun corpo è “sincero”, né dentro né fuori la scena. È sempre il risultato di un groviglio di assi culturali, economici, politici, sociali, scientifici, geografici, giurisdizionali. I femminismi l’hanno teorizzato per decenni. 

2019. Interno Pranzo

Era estate, pausa pranzo di un workshop a Rovereto su danza e Lingua dei Segni condotto da Cesare e altri due colleghi di Fattoria Vittadini: “E quindi facci caso. Chi frequenta i corsi LIS?”, Cesare mi guarda mentre mangia il suo trancio di pizza. Gli dico che mi ha sempre incuriosito come tutti i maschi cisgender che frequentano i corsi LIS siano per la maggior parte gay. Che ci sia qualche correlazione fra la sessualità e la propensione a imparare la Lingua dei Segni? “No – dice lui – è più semplice di così. Sembra che si debba fare già parte di una categoria svantaggiata per aprire i propri orizzonti e contemplare la possibilità di iscriversi ad un corso di lingua dei segni. Perché mai a un uomo etero cis dovrebbe importare?” 

Cesare intendeva dire che solo a chi in qualche misura vive uno stigma può venire in mente la bizzarra idea di allearsi alla marginalità di qualcun altro. Banale. Ordinario e prevedibile per definizione: il regno del dato per scontato. L’essere cisgender, l’essere eterosessuali. L’essere bianchi, occidentali o comunque permeati di cultura eurocentrica. Le mappe del mondo con l’Europa al centro. Il tetto sopra la testa a cui tornare. La relazione monogama e il partner unico ai pranzi di Natale. 

L’homo sapiens sapiens come ultimo approdo dell’evoluzione. I siti degli hotel che non scrivono di quanti cm sono larghe le porte, il 118 da chiamare solo telefonicamente, gli attraversamenti pedonali senza segnale acustico. Il pronome assurto dalla mera apparenza fisica. Gli ospedali e le scuole senza interpreti LIS. Il comfort dei bagni giusti per te. Capiamo ora bene come i portoni di questo reame siano difficilissimi da dischiudere per chi non viva una condizione di minoranza; come fare a parlare, discutere, e quindi essere consapevoli di ciò di cui si è inconsapevoli? “Ma allora le donne cis che formano circa l’80% di coloro che si iscrivono ad un corso LIS, sono mica tutte lesbiche?” “Tesoro, no. A loro basta essere donne per essere oppresse”. 

Let me be, Guarino/ Comuniello, ph Federico Malvaldi

2022. Interno Crepuscolo

Storicamente la persona con disabilità è stata resa invisibile e afona, senza voce propria. Per secoli, infatti, non è stata neppure immaginata la possibilità che salisse su un palco, basti pensare a quanti teatri storici non siano accessibili per chi si muova su sedia a rotelle. A un certo punto, registi nostalgici e delusi dai moti rivoluzionari studenteschi del ‘68 vedono nelle aree della marginalizzazione una linfa vitale per le proprie poetiche. I margini vengono messi al centro del palcoscenico e sotto i riflettori. Viene presa in prestito la voce delle persone con disabilità per glorificare pratiche alternative ai discorsi imperanti. 

Ma i rapporti di potere tra un sistema o l’altro e la persona con disabilità non cambiano. Da una parte c’è un sistema che nega la possibilità di esercitare il potere escludendo, dall’altra parte un sistema che include a patto di fagocitarci. C’è solo un piccolo ampliamento dei campi esistenziali e un upgrade da niente a strumento/cosa/oggetto di ispirazione. Alcuni artisti trovano nelle persone con disabilità un mezzo per creare sacche indipendenti di potere e narcisismo. Si viene a creare una tensione di polarità estreme, oppositive, dove una minaccia l’esistenza dell’altra. Il discorso etico qui si intreccia fortemente con i meccanismi della produzione estetica. In questo tipo di processi chi dirige non è mai al servizio di chi viene guidato, che è unicamente posto al servizio di chi dirige.

2022 Esterno-Sera

Dopo Your Girl  ho avuto la fortuna di vedere altri lavori che hanno violentato con forza alcuni stereotipi sulle disabilità insieme alle strutture di pensiero entro cui è incastrato il modo di fruire e creare uno spettacolo. Tra questi ad esempio Let Me Be (2021) di Giuseppe Comuniello e Camilla Guarino che nasce dall’urgenza di far conoscere come può svilupparsi la descrizione di uno spettacolo di danza per una persona cieca in maniera poetica e non seguendo dei protocolli pre-esistenti. Giuseppe Comuniello, autore e performer cieco, mette in questione l’idea che l’audiodescrizione possa essere un ausilio utile per lo spettatore cieco, poiché, descrivendo pedissequamente o meno quanto avviene in scena, essa si interpone all’immaginazione creativa. Da questo presupposto nasce la ricerca del duo, che dismette le regole esistenti relative all’audiodescrizione per convertire l’accessibilità degli spettacoli in partitura poetica per gesti, parole e movimento. Una di queste è disegnare con le dita le diverse variabili di movimento sul palmo della mano o sulla schiena.

In questo spettacolo, le qualità iscritte sui corpi in scena divengono, in termini foucaultiani, potenza generatrice di forme di sapere, motore di senso dell’azione, materia sulla base della quale si organizza l’ordine di pratiche istituenti e discorsive. Nel corso al Collège de France del 1974-1975 (Les anormaux) Foucault adotta l’anormale non tanto come oggetto del discorso ma come figura indicante un modo di procedere del pensiero. Secondo Foucault, per essere compresi i fenomeni devono essere collocati all’interno di un insieme complesso di pratiche e relazioni politiche. Infatti, è all’interno di un ambiente istituzionale concreto che i discorsi vengono prodotti e funzionano. Per il filosofo quindi nominare, prendere a oggetto l’anormale, ha carattere performativo; non è solo un dire, ma è un fare che esclude e organizza allo stesso tempo. L’anormale, afferma Foucault, “non sconvolge l’ordine delle cose, ma vi contribuisce”. Let Me Be, infatti, ci trascina con forza fuori dalla scena, perché interroga non solo il regime dell’estetica, ma anche quello dell’etica, del diritto, della politica e dell’economia, introducendo nuove pratiche produttive volte all’allargamento delle soglie di accessibilità fruitive per una pluralità di soggetti. Ci spinge a chiederci entro quali relazioni e condizioni materiali sono concepiti gli spettacoli, a chi si rivolgono, chi ne viene escluso e come si possano generare nuove pratiche  che tengano conto di prerogative plurali. Indagando da una prospettiva estetica il concetto di accessibilità, Let Me Be è uno spettacolo che rende conto della valenza politica dei corpi e della loro capacità di generare nuove scritture sensoriali e percettive, e al contempo si fa carico di relazionarsi in maniera complessa con pratiche e istituzioni politiche, nell’intento di slargare le maglie del diritto alla fruizione culturale.

Let me be, Guarino/ Comuniello, Murate Art District

2022. Interno Alba

Per fare la rivolta non servono per forza le pistole caricate a sale; la si può iniziare home-made, fatta in casa. E come si fa? Provando a minare le tanto amate classificazioni che ci danno modo di interpretare il mondo come lo conosciamo, o di conoscere il mondo come lo interpretiamo. È proprio dallo squarciamento degli sfondi stabili che nascono spazi nuovi. Non ti aspetti che sono disabile? Non è chiaro il genere da cui parlo? Tanto meglio! Mi prendo i miei spazi per confondere e far sentire disagio. Per turbarsi e perturbarsi, aprire spiragli, creare crepe, spaccare un po’ i muri… affinché non ci sia più un “qua” e un “là”. 

Aristide Rontini, Camilla Guarino, Chiara Bersani, Claudio Gaetani, Dalila D’Amico, Diana Anselmo, Giuseppe Comuniello.