Niente di naturale nei nostri corpi

Dalle arti performative alle riflessioni su cyborg e postumano: per una teoria del corpo in azione, oltre la distinzione tra natura, cultura e artificio

Pubblichiamo qui un estratto tratto da Bodymetrics. La misura dei corpi, Tre Quaderni di ecologia ed economia politica transfemminista, curato dal gruppo di ricerca EcoPol nell’edizione digitale di IAPh-Italia. I tre Quaderni (a cura di Ilenia Caleo, Federica Giardini e Isabella Pinto, e liberamente scaricabili qui) restituiscono parte del percorso di ricerca iniziato nel dicembre 2015, che ha coinvolto studios*, artist* e attivist*: «partire dal piano materiale, dalle forme di organizzazione delle nostre vite quotidiane, dalle economie politiche con cui gestiamo e pensiamo l’articolazione tra singolarità e comunità, tra umano e ambiente, significa per noi mettere al centro i corpi – corpi sessuati e desideranti – e le relazioni che costruiamo quotidianamente al di là del paradigma dominante». I Quaderni raccolgono materiali eterogenei alla ricerca di teorie e pratiche capaci di cogliere le linee di crisi e di trasformazione: neomaterialiasmo, epistemologie transfemministe, biotecnologie, postumano, economie e ecologie queer, pratiche, conflitti ambientali, immaginazioni e nuove estetiche. L’estratto che qui pubblichiamo è tratto dal saggio di Ilenia Caleo, originariamente intitolato Dentro le turbolenze espressive della materia. Una cartografia di nodi critici tra materialità, performativo, assemblaggi, artificio e corpi non umani e contenuto nel Quaderno Uno.

Dana Michel | Band of bless | 2011

Il campo di tensione

Iniziare da un movimento, da un desiderio di muoversi. Sottrarsi alla disputa interna al femminismo tra essenzialismo e costruzionismo, traslocando i termini del discorso in altri spazi e aprendo l’immaginazione. L’esigenza è politica, perché vogliamo poterci muovere senza appartenenze tra le diverse genealogie del femminismo: il femminismo non è una scuola filosofica e nemmeno una disciplina. Capita talvolta che alcuni nodi produttivi finiscano col diventare nel tempo un’ortodossia implicita, un richiamo all’ordine, una perimetrazione dei confini entro cui pensare, o un’identità solo accademica. Non ci serve nessun manuale del buon femminismo radicale, è più produttivo spostare l’attenzione su come le differenti strategie teoriche o invenzioni concettuali sono state di volta in volta disegnate, plasmate, e poi testate in risposta ai nodi di conflitto che emergevano dalle pratiche.

Nel rimappare e ricollocare oggi in prospettiva femminista il campo di tensione natura/cultura, siamo sollecitate da una duplice esigenza. Da un lato, è necessario consolidare strumenti teorici che spezzino il frame di ogni determinismo dentro cui natura/biologico diventano un destino. Strumenti capaci di rendere conto della capacità produttiva dell’elemento culturale, discorsivo, linguistico in quanto forza che contribuisce a creare il vivente, senza dislocarlo in un altrove dalla materia stessa, in una posizione subalterna e secondaria, o al di sopra di una presunta struttura materiale tangibile come voleva il marxismo classico. Ne abbiamo bisogno perché viviamo in un’epoca di tardo capitalismo nel quale il lavoro simbolico, linguistico, immateriale, performativo, affettivo-relazionale e di riproduzione svolge un ruolo centrale nella produzione delle forme di vita, delle economie, dei sistemi di organizzazione sociale.

È dunque necessario continuare a rendere conto della produzione simbolica in termini di generazione di forme di vita che si fanno materia, che producono effetti di realtà. Su questo piano il pensiero femminista e queer ha prodotto moltissimo (Butler, de Lauretis, Kosofski Sedgwick, Preciado, Ahmed), spostando in modo irreversibile le categorie di lettura, ed è un’acquisizione che considero irrinunciabile per ogni azione teorica che abbia implicazioni politiche. Denaturalizzare il corpo, il genere, e infine il sesso, è stata una delle strategie storiche del femminismo, una potente azione controegemonica di ribaltamento nei confronti di un discorso filosofico ha a lungo descritto il corpo come muto, pre-linguistico, pre-culturale, in attesa dell’iscrizione di significato per poter entrare nel linguaggio e nella cultura. Un’iscrizione che arriva sempre dopo, in seconda battuta, quando le cose sono già state fatte.

Ma questo distanziamento del femminismo dalla categoria di natura ha un lato insidioso, e rischia di lasciare insoddisfatta un’altra richiesta: dove riprendere la materialità? Come rifare «mondo»? Come dare conto non soltanto di ciò che i corpi significano, ma di come i corpi si materializzano? Come raccogliere l’infinità di azioni che accadono tra fenomeni che sono insieme materiali, discorsivi, umani, non umani, tecnologici, corporei, biotici? Diviene cruciale aggiornare gli strumenti concettuali per ripensare la dimensione materiale, altrimenti la realtà che ci circonda finisce per sciogliersi in un circolo intralinguistico, in cui ne va dell’interpretazione soltanto. Guardandola da un’altra prospettiva, potremmo anche dire che la materia, i mondi, i fenomeni dinamici e multidimensionali in cui i corpi sono implicati, costituiscono anche un limite del teorizzare stesso, un limite produttivo affinché il pensiero non diventi totalitario.

Sono già molteplici gli itinerari tracciati, fin dalla fine degli anni Ottanta quando si è aperto un campo di ricerca estremamente produttivo, che ha elaborato strumenti teorici per ripensare il corpo, la corporeità, la materia come campi di intervento politico: il lavoro di Elisabeth Grosz, Donna Haraway, Rosi Braidotti, Harding, Geneviéve Lloyd e del femminismo materialista, e in parallelo il pensiero femminista postcoloniale, per il quale è un punto immediatamente cruciale non ridurre la questione della razza ad un dato puramente simbolico e discorsivo.

In un campo di tensione aperto, una postura statica non è possibile, e questa torsione da cui siamo attraversate richiede soluzioni più radicali e generative che non lo schieramento su uno dei due fronti: è dentro questo twist mobile che dobbiamo pensare, senza né riprodurre una coppia contrapposta di concetti che è stata paradigma dominante della metafisica su base dialettica, ma neanche ridurre interamente un termine nell’altro.

Se il pensiero postmoderno è a disagio nel pensare realtà e materia, noi non possiamo privarci dell’accesso ad alcuno dei saperi, perchè abbiamo delle urgenze: inventare pratiche istituenti per la cura e il governo diretto dei nostri corpi, consolidare soluzioni sul piano dell’economia materiale a partire da forme di vita condivise, riconoscere i dispositivi sempre cangianti dello sfruttamento immateriale e sociale, comporre nuovi assemblaggi relazionali per affermare le forme di affettività senzanome che già stanno generando nuovi habitus, far deflagrare piani di esperienza che abbiano consistenza e densità più-che-individuale affinchè producano un impatto trasformativo sul mondo.

Quelli che seguono sono appunti su testi che abbiamo/ho letto e rielaborato, misti a prime riflessioni o tentativi di connessione con lavori artistici, in una forma che procede a salti, per tracciare un paesaggio di estetiche antirappresentative, dell’assemblaggio, della disidentificazione. Una raccolta di materiali. Un album. Una compilation di pezzi preferiti.

Mette Ingvarsen, The Artificial Nature (2009-2012). Nei lavori che compongono la trilogia, Ingvartsen si occupa della relazione tra natura e artificio, di materia agente, di disindividuazione, di forze che affettano i corpi umani e non umani, di organico e non organico, o di una ridefinizione dell’organico. Sulla scena agiscono performers umani e non umani, costruendo coreografie in cui il movimento umano non è al centro dell’attenzione e creando landscape mobili in continua mutazione. Materiali e materie di tutti i tipi, luce, dispositivi tecnici e suoni costruiscono drammaturgie corporee per occhi nuovi.

Rompere le figure dialettiche: natura/cultura/artificio

Per ridislocare la relazione natura/cultura dentro questo mobile campo di torsione, la prima azione teorica consiste nel convocare un terzo termine in posizione non simmetrica – artificio –, così da rompere la figura dialettica. Disposte su un asse orizzontale, come appoggiate senza gerarchie interne, natura | cultura | artificio formano ora una sequenza. Se il modello più intuitivo da applicare alla scrittura e al pensiero concettuale sembrano essere le tecniche di montaggio delle arti visive (così le avanguardie artistiche), rimanendo però entro il frame culturale del primato del visuale, vorrei mettere in gioco un approccio più sperimentale per pensare il pensiero facendo ricorso al movimento del corpo come lente di diffrazione. Non intendo dunque l’analisi del movimento in quanto oggetto di indagine, ma piuttosto un modo del pensare, dare forme al pensiero su partiture compositive apprese dal corpo in movimento. Coreografare questioni. Spazializzarle. Movimenti del pensiero.

L’arte ha una parentela di famiglia con il concetto di artificio, parentela che condivide con le scienze. Nelle scritture artistiche, l’artificiale non si definisce in contrapposizione dialettica con il naturale, non è un suo contrario. Nel divenire sempre mutevole dei criteri estetici, l’artificiale non ha avuto una connotazione negativa stabile. Basti pensare all’esaltazione barocca dell’artificio e all’uso delle macchinerie e delle convenzioni, o alla rivendicazione politica di Brecht per cui la scena deve stare in un rapporto costitutivo con un’artificialità dichiarata, che abbia un effetto anti-illusionistico e riesca a mostrare come costruito ciò che dalle narrazioni dominanti è presentato come naturale.

Se osservato attraverso le pratiche delle arti performative, il corpo risalta con immediatezza come un artefatto. La verticale. La percezione della verticalità come postura stabile è il risultato di tecniche acquisite che si consolidano nel tempo grazie alla ripetizione. Nello studio del movimento della danza e delle discipline teatrale, la verticale è disarticolata, e l’equilibrio è una negoziazione continua con la caduta. Le scarpette da punta come protesi. L’amplificazione della voce. La stessa emissione vocale è una costruzione, un artefatto seppur effimero e volatile. Lo spazio scenico come un diorama vivente in cui l’umano viene ricostruito. Qui, il confine tra corpo naturale e corpo artificiale si dissolve: il corpo del performer è costitutivamente un corpo-macchina. Macchina-celibe, macchina-desiderante, che non coincide mai perfettamente con il corpo esistente, ma sempre lo elude, lo traspone poeticamente, lo traduce in un’altra lingua, lo fa abitare da forze extraindividuali che disindividuano un io riconoscibile. Un corpo allenato, esercitato, talvolta ortopedizzato o artificiosamente riportato ad uno stato ritenuto selvatico.

Qual è il corpo naturale, il corpo autentico?

Il corpo umano è già corpo costruito, frutto di un’interazione continua con la tecnologia, il risultato di stratificazioni di artifici.

Vorrei proporre di trattare il lavoro di molte/ artiste/i come delle vere e proprie teorie del corpo in azione, che rovesciano la visione del corpo come supporto passivo e mettono letteralmente in scena altre corporalità, un’altra idea di materia, concatenamenti nuovi tra corpi, tra elementi organici e inorganici, tra organi: visioni che non vengono espresse sul piano logico-verbale, ma che si incarnano, agiscono e divengono esperienze per coloro che sono in presenza. Le pratiche artistiche producono esperienze condivise, grammatiche comuni, partiture per il vivente.

Dana Michel, Yellow Towel (2013). Dana Michel è danzatrice, performer, coreografa particolarissima, ma prima è stata atleta agonista e giocatrice di football. La sua pratica artistica esplora l’identità come una molteplicità disordinata, amalgamando coreografia, improvvisazione intuitiva e arte performativa. Un bricolage post-culturale, lo definisce, una procedura alchemica. Nel suo lavoro alterna la ricerca in studio e l’esplorazione nel «fuori», in ambito urbano. Dopo aver indagato una materia attraverso la scrittura, le letture, le ricerche audiovisuali, le discussioni, «rilasso la mia concentrazione e lascio che il corpo prenda il sopravvento. Mi nutro con il suono, il silenzio e la dissonanza, a volte sovraccarico il mio corpo e psiche di stimolazioni per vedere come rispondono, poi dei dettagli minimi balenano in un attimo nella mia visione scopica e cinetica». Punto di interesse di Michel sono i luoghi di emergenza e di vulnerabilità, incorporando e rimettendo in gioco gli stereotipi in cui sono impigliate le identità marginale: le donne nere, i poveri, i senzatetto, * queer emarginat*. Anche i colori in scena sono una riflessione sulla marcatura razziale dei contorni visivi, dal bianco ossessivo e ossessionante di Yellow Towel al nero che tutto domina di Mercurial George. Corpi non mimetici, non rappresentativi, ma assemblaggi di affetti e di intensità.

I corpi ibridi di Haraway

Un altro gesto che non blocca, ma apre lo spazio teorico, si compie quando riconosciamo che la scienza, e la biologia in particolare, non sono un progetto unitario, tutto di stampo deterministico, ma un terreno striato e disomogeneo: l’ideologia biologico-determinista è infatti solo una delle posizioni assunte dalla scienza.

In questa direzione di ricerca abbiamo come orientamento il lavoro di molte scienziate e filosofe della scienza femministe, che mettono in luce prospettive scientifiche alternative, controegemoniche, tra le altre Anne Fausto-Sterling, Sandra Harding, Evelyn Fox Keller. Nel percorso collettivo del gruppo informale di autoformazione e ricerca Ecopol siamo dunque andate in cerca di letture che potessero orientarci.

Il lavoro di Donna Haraway sulla biologia è stato pionieristico, già dal testo del 1978 Animal Sociology and a Natural Economy of the Body Politic: A Political Physiology of Dominance, primo capitolo dell’edizione americana di Manifesto Cyborg, composta di diversi saggi alcuni dei quali appunto mai tradotti in italiano. Haraway, attraverso un’indagine di archeologia dei saperi à la Foucault, analizza il ruolo strategico che le bioscienze giocano nello sviluppo del capitalismo nel passaggio storico della rivoluzione industriale, elaborando una teoria del corpo come organismo governato da leggi biologiche in combinazione con i concetti moderni di popolazione, sessualità, divisione del lavoro, evoluzione sviluppati nelle teorie sociali di Smith, Malthus, Darwin. Un’ideologia naturalizzata su cui si innestano le tecniche di controllo sociale dei corpi.

L’influenza di Haraway va però oltre la decostruzione critica, e se continua ad agire e propagare è piuttosto per l’invenzione creativa, per l’apertura di piani immaginativi che hanno dato strumenti alle pratiche. Mi pare che valga la pena, anche a distanza di anni, tornare sulla figura del cyborg, perché è una chiave per leggere le trasformazioni dell’economia capitalista oltre il primato lavoro/salario, ma anche perché ha prodotto un punto di svolta nell’immaginario collettivo di una e più generazioni di femministe. Sicuramente della mia, biografia singolare e collettiva.

Mette Ingvartsen | to come | 2005

Non ne potevamo più di madri simboliche, d’Antigoni tutte d’un pezzo, di cucito e tessitura come arti femministe, di specchi lacaniani, di remoti miti matriarcali, di sostanze femminili, di pacifismi biologici a basso costo in tempi di guerre globali. Ascoltavamo la techno. Mescolavamo le nostre cellule corporee con particelle di sostanze sintetiche psicoattive: la fluidità dei confini del corpo e tra corpi per noi è stata esperienza sensibile, prima che teoria. Più che parlare ai convegni ci interessava imparare a saldare. Il corpo era materia espressiva, da innestare con quel che capitava, metalli, materiali di scarto, prefigurazioni di microchip, da tatuare incidere forare sovrascrivere. Alla natura incontaminata preferivamo le periferie urbane delle zone industriali, o vecchie cave abbandonate disponibili a diventare stazioni orbitanti. Iniziavamo a giocare con i sex toys e amavamo la fantascienza. Non avevamo famiglie né figli a carico da cui fuggire, eravamo precarie, e lo saremmo rimaste come per condanna ontologica, ma non lo sapevamo e vivevamo questa condizione comune con un’ebbrezza ancora liberatoria. Ci collocavamo nella produzione culturale viva e indipendente, fuori dalle accademie, ed era lo spazio che agivamo politicamente: quello che sarebbe diventato l’enorme bacino di manodopera cognitiva precaria a bassissimo costo. Leggevamo FikaFutura, CyberSix e Tank Girl, imparavamo l’alfabeto con Gilles Deleuze e sperimentavamo nuovi media e nuove forme della politica. Impastavamo cultura alta e cultura bassa, mainstream e controculture, sessualità polimorfe e cyberpunk, frocerie e femminismo radicale, in assemblaggi non identitari.

Quando all’inizio degli anni Novanta ci arrivarono tra le mani i «nuovi» testi – Haraway, Braidotti, de Lauretis, bell hooks – fu un’epifania: il femminismo teorico tornava a parlarci di nuovo, e parlava la nostra lingua, già nostra nelle pratiche e nelle forme di vita che incarnavamo, prima ancora che messa a fuoco nelle teorie. Il cyborg stava nel tempo – non anticipava, ma nominava qualcosa che era in atto facendogli spazio. Vorrei dire che la postura, che riconosciamo nel pensiero di Haraway, di elaborare non solo analisi e strumenti concettuali, ma anche di dare consistenza, corpo e luminosità a figurazioni che nutrono l’immaginazione politica, è da considerare una vera e propria pratica, una pratica teorica e di scrittura: «l’immaginazione ha una densità materiale che trasforma il mondo e le relazioni dentro cui viviamo». La figura che Haraway disegna è un ibrido di corpo e di macchina, di organico e inorganico, una «fiction che trasforma il mondo», che ha effetti materiali: una proposizione che risuona con i dibattiti più vivi e attuali su nuove istituzioni, pratiche istituenti, fictional institution, altre prospettive da cui guardare la relazione realtà materiale/simbolico a partire dal corporeo.

Xavier Le Roy, Floor Pieces (2010). Le Roy – coreografo e biologo molecolare – concentra la sua pratica corporea e coreografica nel trasformare e riconfigurare alcune coppie percettive: oggetto/soggetto, animale/umano, macchina/umano, natura/cultura, formato/informe. I corpi che mette in scena sfidano la percezione comune e il riconoscimento, in una metamorfosi continua di organi, parti, forme, funzionalità. Attraverso il movimento e nel movimento, il corpo viene smembrato, frammentato, s-figurato e ricomposto in nuovi assemblaggi, che lo spettatore viene chiamato continuamente a riconfigurare. Forme di movimento che rendono il corpo irriconoscibile e lo dissociano dai tropi convenzionali relativi al genere, ridiscutendo le nozioni accettate di ciò che costituisce una figura umana.

Come tenere insieme materialismo e performatività? Un problema teorico-politico, riconfigurato da Karen Barad

Una prospettiva che apre su materia e materialità, e ricolloca entro un modello relazionale l’opposizione tra materia e cultura, è il lavoro di Karen Barad, che si muove nella prospettiva aperta da Haraway utilizzando strumenti teorici che provengono dalle scienze, in particolare dalla fisica quantistica. In Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to Matter (2003), Barad, come già Haraway, questiona criticamente l’egemonia assunta dalle teorie linguistiche: «abbiamo concesso troppo potere al linguaggio», come se potesse descrivere tutto, come se ogni oggetto, ogni condizione – fin la stessa materialità – potessero infine essere traslati in una qualche forma di rappresentazione culturale.

Come non ridurre performance/performativo entro un’agibilità solo linguistica o epistemologica? È questo uno dei nodi più discussi al momento, almeno negli ambiti che mi trovo ad attraversare, dal pensiero queerfemminista agli studi culturali, alle aree interdisciplinari dei Performance Studies e negli spazi critici tra arte e attivismo, dove si sperimentano le capacità autoregolative di commons e nuove istituzioni. L’obiettivo teorico-politico di Barad è fornire una revisione della performatività – che rimane nucleo generativo nelle teorie politiche queer e transfemministe – nel quadro di una rielaborazione della relazione tra materia e cultura: «la performatività, se correttamente interpretata, non rappresenta un invito a trasformare tutto in parole (inclusi i corpi materiali); al contrario, la performatività contesta proprio l’eccessivo potere accordato al linguaggio di determinare ciò che è reale». Barad elabora dunque una versione postumana della performatività – che è simultaneamente una critica e un aggiornamento della teoria di Butler –, che da un lato dà conto di come il soggetto si costituisce, e anche della produzione della materia corporea, dall’altra funziona come teoria valida per corpi umani e per corpi non umani, facendo fuori ogni residuo di antropocentrismo.

Possiamo assumere la performatività come una potente contro-teoria della rappresentazione, il che – nella mia prospettiva – significa che il suo campo d’azione attiva simultaneamente l’estetico e il politico.

La rappresentazione come paradigma postula una corrispondenza tra linguaggio e i suoi referenti, tra cose e parole, delineando l’uso denotativo come funzione principale del linguaggio: il mondo è fuori dal linguaggio, i fenomeni garantiscono della loro veridicità in virtù di un substratum metafisico che preesiste alla parola e al manifestarsi fenomenico della cosa-sostanza. (Eppure, il linguaggio non funziona come funzionano i nomi, come fossero cartellini attaccati agli oggetti, ci ricorda Wittgenstein). Lo specchio è il dispositivo, lo sguardo il suo strumento cognitivo: è l’episteme moderna. È a partire dalla radicale critica di Nietzsche alla rappresentazione come fondamento della metafisica che questo modello entra in crisi: il passaggio dal paradigma della rappresentazione a quello della performatività, scrive Barad, «sposta l’attenzione dal tema della corrispondenza tra descrizione e realtà («rispecchiano la natura o la cultura?») a questioni relative alle pratiche/attività/azioni». In questo spostamento si realizza un cambio di ottica: dalla riflessione e dalle metafore connesse della rifrazione (riprodurre il medesimo altrove, su altra superficie), alla diffrazione che già Haraway utilizza come strumento concettuale capace di rendere conto della differenza.

La preoccupazione di Barad è che la dimensione dell’agire sia garantita anche al livello della materia, e ipotizza una performatività della materia agente. È una prospettiva molto fruttuosa perché ci consente di tenere insieme materialismo e performativo, senza dover tornare alla rappresentazione come modello epistemologico ed estetico, e senza perdere la presa sulla consistenza del reale. Riprendendo Bohr, Barad fa riferimento al quadro epistemologico della fisica quantistica che respinge «sia la trasparenza del linguaggio che la trasparenza della misura», ossia che linguaggio e misura siano una semplice mediazione, un medium trasparente tra stato di cose e forme della rappresentazione di questo stato di cose: «il linguaggio non rappresenta come stanno cose e le misurazioni non rappresentano condizioni di esistenza indipendenti dalla misurazione stessa». Linguaggio e misura sono implicati dentro forme di vita: ne sono definiti e le definiscono, in un circuito continuo del quale solo una teoria relazionale, ovvero antidialettica, può rendere conto.

Al livello dei quanti, il comportamento della materia non è più descrivibile in termini di soggetto/oggetto. Non vi è un oggetto fisico che preesiste alla misurazione: la misurazione produce performativamente il proprio oggetto in quanto corpo misurabile, l’osservazione è sempre un’interferenza che si fa anch’essa fenomeno. Affinché si diano le condizioni per una misurazione, una domanda preliminare deve essere posta: cosa misura cosa? Qualcosa viene delimitato come misurabile, si opera un taglio che separa (il taglio cartesiano che scinde l’esistente in soggetto e oggetto, a cui Deleuze e Guattari contrappongono il «taglio del caos» operato dal piano d’immanenza).

È una prospettiva che trasforma profondamente la concezione classica degli apparati (per usare il linguaggio di Bohr), dei dispositivi di misurazione e in genere dei dispositivi di mediazione, tra cui possiamo includere anche il linguaggio: il fenomeno – l’interazione tra l’oggetto/evento osservato e il dispositivo di osservazione – è l’oggetto/evento stesso, non un segnale sintomatico o un effetto secondario di esso o un dato contingente che increspa la superficie di una cosa-in-sé stabile e immutabile. I dispositivi di misurazione o apparati, scrive Barad, «non costituiscono semplici dispositivi statici nel mondo ma, piuttosto, rappresentano (ri)configurazioni dinamiche del mondo, specifiche pratiche agenziali/intra-azioni/performance», in cui i confini tra soggetto e oggetto sono continuamente ridefiniti. Gli apparati sono «pratiche aperte», sono «essi stessi fenomeni»: questa intra-attività tra sistemi in relazione è già un farsi materia del mondo.

L’oscillazione intermittente tra stati che la fisica newtoniana definiva come contraddittori non è che uno dei modi di espressione della materia nel suo farsi materia: un passaggio dall’epistemologico all’ontologico, anzi potremmo dire che qui epistemologia e ontologia coincidono – Barad parla infatti di «onto-epistemo-logia», ovvero: un piano di immanenza radicale. Nella meccanica quantistica, assieme al paradigma della rappresentazione, saltano una serie di principi che organizzavano la logica classica: il principio di non contraddizione, di identità, di causalità, del tertium non datur. Al livello dei quanti il comportamento della materia è ambivalente: non è possibile determinare se la materia sia corpuscolo o onda, perché la materia ha un duplice comportamento sia corpuscolare che ondulatorio, e tale comportamento è imprevedibile. Il dualismo onda-particella non è un’ontologia. La materia è trans.

Quella che Barad propone è dunque una versione più radicale della categoria di performatività, capace di rendere conto dei processi materiali non solo al livello dei corpi formati, ma fin dentro la materia stessa. Il limite della teoria dei corpi di Butler – per Barad – è che valga solo per corpi umani, ristabilendo così un approccio antropocentrico. Ma il processo attraverso cui i corpi si costituiscono come tali passa per vie che sono insieme discorsive e non discorsive. Come la materia crea materia? Come si comporta? L’apertura è su una prospettiva postumana: la performatività è vera non solo sulla superficie dei corpi formati, ma anche per i corpi presi nella loro piena fisicità, al livello degli atomi, delineando una teoria valida per tutti corpi e non solo per i corpi umani. Barad intende qui la performatività non come citazione ripetuta di norme o modelli, ma come intra-attività, ovvero come capacità della materia di agire autonomamente, dentro un’attività dinamica che è un continuo farsi di materia, farsi mondo.

Non c’è alcuna esteriorità possibile rispetto alla materia, nessuna posizione esterna da cui osservarla o marcarla o significarla. Non siamo neanche semplicemente posizionati in una qualche parte del mondo: se la teoria quantistica mette in crisi l’incompatibilità newtoniana di posizione e momento, la topologia, che si occupa di confini e connettività piuttosto che di superfici e forme, studia le proprietà degli spazi non a partire dalla loro forma esatta ma da come sono connessi. Come nel modello topologico del nastro di Moebius, un «oggetto impossibile», esempio di una figura iscrivibile nella geometria non euclidea, in cui le due facce che sempre costituiscono una superficie vengono a mancare, e la superficie ha dunque una sola faccia e un unico bordo ininterrotto, mandando in crisi tutte le definizioni.

L’interno si fa esterno e l’esterno si fa interno, senza soluzione di continuità, senza cesure. Siamo dentro un’attività dinamica che è un continuo farsi di materia, farsi mondo, e siamo indistinguibili da questo divenire. Che cos’altro è pensare – sostiene Barad – se non una delle attività della natura? Conoscere è questione «di che una parte del mondo si rende intellegibile a un’altra parte» – processi di conoscenza e processi di esistenza non sono separati, sono modi di espressione della materia.

Xavier Le Roy | Sans Titre | 2014

Letture

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Ilenia Caleo è performer, attivista e ricercatrice indipendente. Filosofa di formazione, si occupa di corporeità, epistemologie femministe, estetiche, nuove istituzioni e forme del lavoro culturale. ­Attivista nei movimenti dei commons e queer-femministi, è cresciuta politicamente e artisticamente nella scena delle controculture underground e dei centri sociali.