NFT changed my life!

La blockchain sta reinventando il futuro?

Un paio di estratti da Surfing con Satoshi. Arte, blockchain e NFT (Postmedia Books, Milano 2021), per gentile concessione dell’editore. 

In un post recente su Facebook, il teorico dei media Florian Cramer ha dichiarato: «Dopo che due persone nel pubblico del simposio di Gogbot [un festival olandese] hanno affermato che tutti i problemi con le false informazioni e le campagne di fake news potrebbero essere risolti con gli NFT, ne sono convinto: blockchain = QAnon per persone con titoli di studio superiori». Nel suo sarcasmo, Cramer coglie un aspetto peculiare della mentalità dei criptoentusiasti: la loro assoluta fiducia che la blockchain possa aiutare a risolvere gran parte dei problemi del mondo contemporaneo, inclusi quelli generati dalla blockchain. A ogni obiezione che viene opposta alle loro soluzioni, rispondono sorridenti e serafici: non essere così miope. Guarda più in là: aggiustiamo a questo codice, aggiorniamo il meccanismo di consenso, et voilà, il problema è risolto. Difficile dire se sia strategia imprenditoriale, ingenuità da neofiti o una combinazione di entrambe. Certo è che questo entusiasmo è quasi sempre benedetto da ingenti flussi di criptovaluta. Dietro ogni artista disposto a dichiarare che «gli NFT mi hanno cambiato la vita», c’è senz’altro il piacere di sentirsi parte di una comunità, di sperimentare nuove soluzioni, di essere considerati a prescindere dalla propria identità anagrafica: ma c’è, soprattutto, un improvviso gonfiarsi del suo criptowallet. 

D’altra parte, dobbiamo riconoscere alla scena che si è costituita lungo gli anni attorno a criptovalute e blockchain, e che è ascesa a improvvisa visibilità con il boom degli NFT (non fungible token) all’inizio del 2021, il fatto inedito di essersi costituita attorno a un’idea di futuro. Dopo anni di depressione economica e psichica, di «there is no alternative», di morte del futuro, di presentismo e millenarismo, di rassegnazione e inviti a convivere con il problema, la blockchain sta, nel bene e nel male, reinventando il futuro. 

Nei due brevi estratti che seguono, tratti dall’ultimo capitolo di Surfing con Satoshi, cerco di ripercorrere alcuni tratti salienti di questa reinvenzione, limitatamente all’economia dell’arte, evidenziandone criticità e potenzialità e soppesandole su una bilancia. 

Senza l’arte, è dura per noi credere in qualcosa. Damien Hirst 

David Gerard è un giornalista australiano che vive a Londra. Nel 2017 ha pubblicato il libro Attack of the 50 Foot Blockchain: Bitcoin, Blockchain, Ethereum & Smart Contracts, e da allora segue con attenzione il dibattito sulla blockchain dal suo blog. Per Gerard quella delle criptovalute non è una vicenda tecnologica, ma una vicenda psicologica, e il suo sforzo costante è dimostrare perché queste tecnologie apparentemente meravigliose non funzionino nella pratica. Dal suo blog, l’11 marzo 2021 Gerard si è sentito in dovere di avvisare gli artisti che gli NFT sono una truffa perpetrata a loro danno, con un duplice scopo: promuovere le criptovalute e portare denaro (quello degli artisti che registrano NFT e quello dei collezionisti che li comprano) sulla blockchain. Secondo Gerard

Lo scopo degli NFT è farti dare denaro ai truffatori delle criptovalute. Quando il truffatore ha il tuo denaro, l’NFT ha fatto il suo lavoro e a quel punto nessuna delle favolose affermazioni sugli NFT deve funzionare o essere vera. Gli NFT sono interamente a vantaggio dei truffatori delle criptovalute. Gli artisti sono solo utili idioti funzionali a esaltare la criptovaluta – e, ovviamente, ad acquistare criptovaluta per pagare il «conio» dell’NFT. A volte l’artista riceve delle briciole per continuare a esaltare la criptovaluta.

I punti su cui Gerard insiste sono due. Il primo, su cui torneremo fra poco, è che l’NFT in sé non autentica nulla, e non rende raro alcunché. Un NFT è solo un puntatore, un link a una risorsa collegata che non cessa di essere riproducibile perché non risiede sulla blockchain. Non esiste proprietà digitale: l’unica cosa di cui chi registra o compra un NFT è proprietario è l’NFT medesimo, il gettone che rappresenta l’opera d’arte sulla blockchain.

Damien Hirst, 1. Totally gonna sell you, dalla serie The Currency, 2021.

Il secondo punto è che l’arte serve a esaltare, a dare credibilità e concretezza, alle criptovalute. Gerard non è l’unico a pensarlo. Nell’intervista da cui proviene la citazione in esergo, Damien Hirst – che, vale la pena ricordarlo, ha prestato il suo nome e la sua opera al lancio di una nuova blockchain ecosostenibile – spiega che le opere d’arte vengono riprodotte sulle valute tradizionali per la stessa ragione: farci credere nel valore del denaro. Sorprendentemente, sulla stessa lunghezza d’onda è sintonizzato l’artista americano Seth Price: «le immagini sono il modo per rendere eccitante questa idea alle persone». L’arte viene usata perché «è un buon strumento per portare a un nuovo livello il progetto più ampio, che sta sviluppando queste nuove forme di vendita, speculazione, circolazione. In questo scenario, l’arte rappresenta l’utile idiota». Il critico d’arte Brian Droitcour aggiunge:

Puoi vedere gli NFT come una forma d’arte espansa che manifesta concetti di valore, proprietà e comunità in rete. O puoi vederli come un’affermazione del valore delle criptovalute, un bene finanziario di valore per la sua unicità – un bene rivestito con una facciata d’arte […] Le quantità di denaro che sciamano intorno agli NFT ostentano il loro status di fintech. È difficile vedere somme come i 580.000 dollari pagati per Nyan Cat o i 777.777 dollari sborsati per la Complete MF Collection di Beeple come qualcosa di diverso dal prezzo pagato per promuovere le criptovalute a un pubblico di massa. Il valore delle criptovalute dipende in parte dal volume delle transazioni sulla blockchain. Ma le loro applicazioni sono ancora relativamente limitate. Non puoi acquistare generi alimentari in Bitcoin […] Gli NFT sono qualcosa che puoi acquistare con le criptovalute. Rendono gli investimenti necessari per far crescere la blockchain visibili e tangibili.

Persino la curatrice americana Lindsay Howard, responsabile della community del marketplace NFT Foundation, parlando dei collezionisti spiega che fino agli NFT la criptovaluta poteva essere usata solo per acquistare altra criptovaluta; lo sbarco dell’arte sulla blockchain fa sentire i «criptoricchi» socialmente utili (danno il loro supporto economico allo sviluppo di una nascente comunità artistica), e al contempo rende reale e tangibile la loro ricchezza. 

Con questi presupposti, è difficile non vedere nell’asta di Everydays. The First 5000 Days una straordinaria – e straordinariamente ben pagata – campagna di marketing e di legittimazione delle criptovalute. Il monumentale mosaico digitale di Beeple è stato messo all’asta da Christie’s il 25 febbraio 2021 per 100 dollari. I due collezionisti che, l’11 marzo 2021, hanno portato il prezzo dell’opera all’incredibile somma di 69 milioni di dollari sono Justin Sun, fondatore della blockchain Tron, e Metakovan, che se l’è aggiudicata. Dietro questo pseudonimo si cela l’identità di Vignesh Sundaresan, un criptoimprenditore indiano di base a Singapore che, dopo aver fondato varie start-up legate alla blockchain, ha lanciato con il socio in affari Anand Venkateswaran Metapurse, un fondo di investimento in criptovaluta che intende «democratizzare la proprietà e l’accesso all’opera d’arte». In sostanza, Metapurse ha tokenizzato la sua collezione in progress, in modo tale che chiunque, acquistando i suoi «B.20 token», possa parteciparvi. Venkateswaran è autore, tra l’altro, di un articolo intitolato «Perché la finanza decentralizzata ha bisogno degli NFT», in cui spiega come questi ultimi possono risolvere problemi come la volatilità e la governance. Metapurse aveva già investito sul lavoro di Beeple, che da parte sua ha investito sui B.20 token. Qualche giorno dopo l’acquisto, Sundaresan ha dichiarato di aver acquistato quest’opera – creazione di uno yankee che pullula, come ha dimostrato Ben Davis, di spunti razzisti – per «dimostrare agli indiani e alla gente di colore che anche loro possono essere mecenati delle arti». Bingo. 

Beeple, Politics Is Bullshit, dalla collezione The First Drop, 2020.

Riassumendo: se Christie’s ha usato Beeple per allungare le mani sulle inutilizzabili ricchezze dei nuovi criptoricchi (piccato, qualche giorno dopo Justin Sun si è rifatto con un Picasso), Sundaresan ha usato la vecchia signora delle aste per legittimare il suo business e rendere concreto agli occhi di milioni di persone il valore delle criptovalute. Sappiamo chi ci ha guadagnato, ma la vera domanda è: chi ci ha perso?

Secondo la concept artist e illustratrice canadese Kimberly Parker, non ci sono dubbi: a perderci sono gli artisti, vittime di uno schema di Ponzi in cui loro, ultimi arrivati, pagano i guadagni dei primi investitori della blockchain, che si arricchiscono a dismisura. Parker ha sostanziato la sua tesi con una capillare raccolta di dati sulle vendite nell’arco di una settimana, e con una serie di grafici in cui rende visibili i numeri, anziché le medie (che possono rivelarsi fallaci). I risultati sono rivelatori: il 67,6% degli NFT venduti ha avuto una sola vendita; delle vendite registrate sul mercato primario, il 33,6% ha venduto sotto i 100 dollari, il 20% tra i 100 e i 200 dollari, l’11,1% tra i 200 e i 300. Considerando i costi delle «gas fee», è altamente probabile che un artista che vende sotto i 100 dollari esca dalla vendita senza alcun guadagno, o addirittura in perdita. 

Questi numeri non mostrano la democratizzazione della ricchezza resa possibile da una rivoluzione tecnologica. Mostrano un minuscolo numero di artisti che si arricchiscono con un piccolo numero di transazioni, mentre la stragrande maggioranza si compra un sogno di immensi guadagni che è orrendamente esagerato. Nascondere queste informazioni è manipolatorio, predatorio e dannoso, e i siti NFT hanno la responsabilità di rendere trasparenti queste informazioni. Nessuno di loro l’ha fatto.

I marketplace degli NFT, conclude Parker, sono «fabbriche di vittime», e fra le vittime non annovera solo gli investitori ingenui, ma anche gli artisti, «dal momento che ogni artista che vende un lavoro su queste piattaforme diventa automaticamente un investitore in Ether. Il valore del loro lavoro è legato al valore speculativo dell’Ether» (lo stesso concetto è espresso dall’analista Christine Bourron, intervistata da Scott Reyburn per The Art Newspaper: «Il valore di un’opera NFT […] è legato al prezzo dell’Ether come da un cordone ombelicale […] L’asta di Christie’s non avrebbe avuto successo se non avesse accettato gli Ether»). Un fatto di cui, quantomeno, sembrano essere consapevoli anche alcuni investitori, come rivelano le parole di Jamis Johnson, portavoce di PleasrDAO: «Penso che sarà un campo minato, e che il 95% delle persone potrebbe farsi male».

Kimberly Parker, le vendite su Opensea classificate per prezzo, nell’arco temporale 14-24 marzo 2021.

Empowerment e opportunità

Fino a questo punto, abbiamo fatto la parte del diavolo. Nel corso del libro, abbiamo sottolineato i pericoli insiti un una definizione omologante come «Crypto Art», per poi decidere di abbandonarla. Abbiamo tratteggiato un paesaggio dai toni cupi, fatto di tentativi di sfruttamento e di cooptazione, di imprenditori rapaci che investono sul loro business pretendendo di beneficiare gli artisti, di criptoricchi ignoranti che giocano al collezionista, di flipper che manipolano la valutazione delle opere. Abbiamo smontato il meccanismo di un sistema di certificazione della scarsità che viene smerciato come magia, ma che si è rivelato un trucchetto da fenomeno da baraccone. Le poche luci emerse finora – come la possibilità di giocare concettualmente con gli smart contract, o l’opportunità per gli artisti di sostenere o consolidare la propria economia – non bastano a riscattare uno scenario dipinto a tinte fosche.

Il rischio, in questa narrazione, è quello di ricadere nell’errore del determinismo tecnologico. Se nessuna tecnologia è intrinsecamente emancipatrice, è vero anche il contrario: che nessuna tecnologia è intrinsecamente soggiogante. Il destino di una tecnologia dipende dall’uso sociale che se ne fa, dal modo in cui viene plasmata dalla comunità che ne segue lo sviluppo, dai suoi pregiudizi e dalle sue intenzioni. 

Sterling Crispin, Property, 2021.

Torniamo brevemente sul principale limite tecnologico degli NFT, la debolezza e arbitrarietà del legame tra token crittografico e opera d’arte (questione analizzata nel dettaglio nel capitolo 1). A seguito dell’analisi proposta, possiamo sostenere senza tema di smentite che la rivendicazione principale del mondo degli NFT, secondo cui i token crittografici risolverebbero definitivamente il problema della certificazione della scarsità e dell’autenticità dell’opera d’arte digitale, è pretenziosa e infondata. Come abbiamo già detto, un NFT non è altro che un certificato associato all’opera: l’opera stessa resta libera e riproducibile.

Questo, tuttavia, per il mondo dell’arte contemporanea non è mai stato un problema: come abbiamo visto, la determinazione della scarsità e della autenticità di un’opera d’arte riproducibile (digitale o meno) o immateriale (come una performance) è sempre stata frutto di un artificio, una convenzione, un accordo, un contratto stipulato per iscritto o con modalità ancora più effimere. Se gli NFT non superano in validità – come pretendono alcuni – questo paradigma, dobbiamo se non altro ammettere che rimangono all’interno dei suoi confini. In rapporto ai modelli tradizionali, quali sono i suoi punti di forza, e i suoi punti di debolezza?

Un’autentica o un contratto devono la loro forza al rapporto di fiducia che si genera tra i due contraenti (artista e collezionista) grazie all’intermediazione di una terza parte ritenuta affidabile (il gallerista, il mercante, la casa d’aste); devono la loro debolezza alla loro natura materiale. Un foglio di carta, anche se tutte le parti in causa ne conservano copia con cura, resta sempre un foglio di carta: può deteriorarsi, andare perso o distrutto. 

Un NFT deve la sua forza al fatto di essere pubblico, distribuito sulla blockchain e protetto da crittografia. Deve la sua debolezza alla possibilità che dà al venditore di mentire su originalità e proprietà dell’opera, alla mancanza di un intermediario ritenuto affidabile, alla possibile temporaneità e inaffidabilità della piattaforma su cui viene caricata l’opera vera e propria. A ognuno di questi tre livelli, tuttavia, si può intervenire. Il risultato potrebbe essere meglio di una tradizionale certificazione: i diritti dell’artista potrebbero essere codificati nello smart contract e automatizzati dall’infrastruttura. Perché, allora, non sostituire a un fin troppo facile rifiuto una attitudine critica, consapevole ma proattiva? Perché non considerare la blockchain uno spazio in via di sviluppo, che il nostro intervento può condizionare?

Seth Siegelaub, Robert Projansky, Artist’s Reserved Rights Transfer and Sale Agreement, 1971.

Uno degli elementi di empowerment spesso sottolineato dai sostenitori degli NFT è il fatto che, con essi, l’artista può creare il proprio smart contract e determinare i propri diritti, che vengono codificati e implementati sulla blockchain diventando, così, inviolabili. Scrive ad esempio la docente di cultura visuale Charlotte Kent: 

Uno smart contract è un codice che rende operativa una serie di condizioni necessarie perché uno scambio si compia; se una condizione non viene rispettata, lo scambio non avviene. Così, adottando gli smart contract della blockchain per cedere la proprietà del proprio lavoro, gli artisti possono assicurarsi i diritti di rivendita come condizione per il trasferimento di proprietà, ottenendo automaticamente una percentuale su ogni vendita futura. Di fatto, è facile intuire che con questa tecnologia, un artista possa decidere che parte del guadagno vada a compensare non solo se stesso o la galleria, ma anche lo staff della galleria, assistenti di studio, o una associazione, e che alcuni o tutti costoro possano percepire una percentuale a ogni vendita futura.

Queste idee devono essere ancora codificate, ma i diritti degli artisti sono già una realtà tangibile, sostiene Kent: la realizzazione del sogno di cinque generazioni di artisti e attivisti, a partire dalla fondazione dell’americana Artists Equity Association, nel 1947, e dall’Artist’s Reserved Rights Transfer and Sale Agreement di Siegelaub e Projansky. L’Agreement di Siegelaub è un contratto privato che corregge una normativa inesistente, in assenza di un assetto normativo; la blockchain ne implementa e ne automatizza molti articoli e rivendicazioni. 

Secondo Kent, la blockchain è solo un sistema di archiviazione dati, dove la finanza è approdata per prima; ma la speculazione ci distrae dai suoi reali vantaggi, che risiedono nell’autodeterminazione degli artisti, nella possibilità che gli offre di riconfigurare il proprio rapporto con il mercato e con i collezionisti. Come il contratto di Siegelaub, non accantona il mondo dell’arte e non elimina il bisogno di essere rappresentati da una galleria, che anzi può guidare gli artisti in questo spazio e affiancarli nella determinazione dei propri diritti. 

Su un altro fronte, Lindsay Howard insiste sul ruolo che l’artista conquista attraverso il diritto di voto nelle community delle piattaforme, e nelle conversazioni pubbliche e private che affiancano le votazioni. Secondo Howard, gli artisti possono collaborare alla costruzione di un’economia creativa che trasferisce il potere nelle mani dei creatori. In aggiunta a questo, con gli smart contract «i creatori hanno il potere di progettare i propri mercati in modi che si adattano ai loro bisogni, e guadagnare dalle royalty». Infine, gli artisti possono sostenersi a vicenda, acquistando le opere altrui e redistribuendo così i guadagni accumulati con le proprie vendite.

Domenico Quaranta Domenico Quaranta (Brescia, 1978) è critico d’arte, curatore e docente interessato ai modi in cui i cambiamenti tecnologici in corso condizionano le pratiche artistiche contemporanee. I suoi testi sono comparsi in numerose riviste, giornali, libri e cataloghi. È autore, tra l’altro, di Media, New Media, Postmedia (Postmedia Books, Milano 2010; 2018) e curatore di diversi volumi, tra cui GameScenes. Art in the Age of Videogames (Johan & Levi, Milano 2006, Con M. Bittanti). Dal 2005 ha curato diverse mostre, tra cui Cyphoria (Quadriennale 2016, Roma, Palazzo delle Esposizioni) e Hyperemployment (MGLC, Ljubljana 2019-2020). È docente di Sistemi interattivi presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara e co-fondatore del Link Art Center (2011-2019).