Net spleen

Hosono, Muji, i lost boys e la fine di internet

Nel 1983 Muji, un negozio di beni casalinghi e alimentari nato in Giappone tre anni prima, commissiona a Haruomi Hosono la progettazione del sound design dei suoi negozi. Hosono, già membro della Yellow Magic Orchestra (iconica band elettropop giapponese) produce tre brani, di cui solo uno verrà poi utilizzato per la sonorizzazione dei flagship store Muji. La cassetta contenente i tre brani, ad oggi divenuta molto rara, viene poi pubblicata nel 1984 in quantità molto limitata. Scompare poi per anni, idealmente finché il sito glob.daniel-letson.com non la riscopre dedicandole un articolo e proponendo una copertina alternativa.

Il 23 Gennaio 2017 il canale YouTube dennisnorthey carica un video intitolato semplicemente Watering a flower Haruomi Hosono 1984 cassette (花に水), che ripropone il contenuto della cassetta originaria nella sua interezza (da qui in poi, ci riferirà al video YouTube con la sigla WAF). Apparentemente senza motivo, sotto il video cominciano ad ammassarsi dapprima decine, poi centinaia di commenti (a luglio 2018, il numero totale di commenti è 1084). E sono commenti di rara bellezza.

Allevare falene, far crescere foglie, dare l’acqua a un fiore… Ciò che i commenti comunicano, sconcertanti nella loro apparente sincerità e innocenza, è la problematizzazione di una serie di temi: una riflessione sulla crescita, sul prendersi cura di qualcuno o qualcosa, sul conseguimento dell’età adulta e sulla formazione; sulla tematica della memoria, del ricordo, sulla genitorialità (agita o subita), sulla necessità di coltivare uno spazio emotivo in quel luogo accidentato, inadatto e manchevole che è il web.

Potremmo dire che quello che si scatena attorno a un semplice video YouTube di una cassetta semidimenticata è un esercizio su un interrogativo centrale: quello circa la collocazione di sé nel mondo contemporaneo, la presunta maturità e la salvaguardia di sé nel panorama del capitalismo avanzato.
Una grossa parte dei contributi poetici, al di sotto del video, si apre con la formula «this is like». La funzione «as if» precipita l’immaginazione in un ricordo inventato, ma non per questo meno reale. I mondi evocati dagli utenti compongono una corale oddity quotidiana che l’elaborazione fanciullesca ha dovuto produrre per far funzionare la condizione infantile. L’immaginario e l’immaginazione, le due grandi macchine produttive della verde età, riappaiono qui attraverso i loro artefatti fragili e vulnerabili.

Fra ricordi della madre e del padre, memorie alternative, fughe in immaginari pittoreschi e rimembranze claustrofobiche e parauterine della propria infanzia, le domande che ci si pone all’interno della comunità di mutuo soccorso/classe di scrittura creativa che è la pagina YouTube di WAF, riguardano la produzione di spazi di emotività, la domanda di maturità e il desiderio di Altro e Altrove interno a un gruppo di bimbi sperduti: i Lost Boys dell’internet.

I Lost Boys sono il gruppo di bambini sperduti con cui Peter Pan condivide l’immaginario fantasmato dell’Isola Che Non C’è. Cominciamo dal genius loci di questo territorio: luogo-non luogo per eccellenza, luogo liscio e pedagogico di guardie e ladri, di pirati e bambini, di riscrittura dei rapporti di forza sociale. C’è tuttavia una struttura etica ben definita che informa tutto il mondo fiabesco di Peter Pan sia in Peter Pan nei Giardini di Kensington (1906) che in Peter e Wendy (1911). Essa corrisponde a una struttura spaziale che può ricordare quella di internet nel suo tentativo apparente di sovvertire i rapporti di forza mentre questi vengono invece costantemente riaffermati. Come internet, l’Isola Che Non C’è è una «eterotopia apparente»: un luogo cioè dove i luoghi comuni, i linguaggi e la sintassi della società vengono invertiti, sovvertiti, annodati, ma solo apparentemente.

Non è possibile infatti per i bimbi sperduti immaginare una società senza adulti, ma solo una società dove i rapporti di forza sono leggermente diversi e dove lo stigma di essere adulti viene rappresentato dal mondo piratesco. I bambini sperduti sono bambini che sono caduti dalla culla molto presto nella loro vita, ma che non sono stati ritrovati. Vengono così trasportati da Wendy nell’Isola Che Non C’è e gettati in un’esistenza di fiaba, ma spacciata e segnata da un’incontrovertibile fanciullezza.

Ma cosa succede ai bimbi sperduti una volta tornati nel mondo e divenuti adulti? La perdita del mondo infantile, stando ai romanzi originali di J.M. Barrie, appare piuttosto traumatica: tre di loro finiscono a fare lavori d’ufficio, uno di loro diventa giudice e un altro sposa una nobile e diviene marchese; diventano insomma la società, il sistema, i pirati contro i quali combattevano.

Guy Debord sottolineava già come il divenire adulti, il raggiungimento di una maturità autopercepita, sia un problema dell’era capitalistica, e di fatto questo momento è stato rimandato finché il discorso scientifico non ha potuto ufficialmente constatare la fine sociologica della maggiore età.

Laddove ha preso possesso il consumo abbondante, emerge un’opposizione spettacolare principale fra la gioventù e gli adulti; perché non esiste da nessuna parte l’adulto, padrone della propria vita, e la gioventù, la trasformazione di ciò che esiste, non è affatto appannaggio degli uomini che oggi sono giovani, ma del sistema economico, del dinamismo del capitalismo.

(Tesi 62)

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Per accostarsi ai commenti del video di WAF bisogna sicuramente passare dall’infanzia. C’è una forte ridondanza di memorie, ricordi e fughe in universi possibili. È nondimeno strano pensare a come i singoli utenti possano aver deciso di condividere pensieri e reminiscenze tanto personali con dei perfetti sconosciuti. C’è una coraggiosa sincerità nei commenti di WAF; la poetica collettiva che si genera sembra suggerire che gli utenti abbiano trovato uno spazio neutro, al di là del giudizio, dove praticare coralmente il ricordo senza l’ostacolo del rapporto interpersonale.

Secondo Mark Fisher esiste una tensione della musica elettronica contemporanea per la quale essa «viene a confrontarsi con un’impasse culturale: il fallimento del futuro». Questa tensione, a cui ci si riferisce quando si parla di hauntology, è una buona lente attraverso cui leggere il lavoro di Hosono. La musica hauntology esplora temi quali la disgiunzione temporale e la memoria culturale facendo ricorso a strumenti quali i sintetizzatori analogici e le audiocassette a nastro, e attraverso sonorità che rovistano nel linguaggio della stock o library music e della vecchia fantascienza. Le sonorità ascrivibili a questo registro generano una forte sensazione di «nostalgia per un futuro che non è potuto accadere».

Se si deve parlare di hauntology nel caso di WAF è innanzitutto perchè la sostanza sonora implica un forte collegamento segnico con il mondo dell’infanzia. L’assenza di un basso continuo ne spezza la continuità e ne isola le singole sonorità. Più che un flusso questa musica sembra costruita attorno a blocchi distinti, per cui se dovessimo trovare un aggettivo con il quale descriverla, questo potrebbe sicuramente essere «pedagogico». Ci sarebbe una storia da scrivere sulle sonorità che di volta in volta, nel corso del Novecento, sono state descritte come «pedagogizzanti» o «per bambini»; di come parallelamente si sia andata formando una morfologia acustica del suono «vero» e del suono «falso» e di come alcuni suoni abbiano finito per indicare l’«errore» e altri il «successo».

Ho l’impressione che nella contemporaneità esista perlomeno un atteggiamento di scepsi verso queste raffigurazioni sonore, e che anzi esistano sound artists e musicisti che giocano proprio con l’interpretazione automatica dell’icona sonora strutturata dal sistema culturale (pensiamo a Oneohtrix Point Never, a James Ferraro, o anche a The Advisory Circle). WAF, dal canto suo, recupera tutte quelle sonorità introduttive, dimostrative, pedagogiche, del database, del documentario propedeutico e del gioco da tavolo, tanto da sembrare musica scritta con un Sapientino. La musica di WAF è infestata perché è intrisa di ricordi di bambino. Questa musica evoca il fantasma infantile dei suoi ascoltatori che sotto a questo poltergeist si dilungano nei meandri dei loro ricordi e reverie puerili.

 

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Guardando ai segni sonori che prendono posto nei tre brani di WAF, è possibile notare come il loro trattamento rifletta una tensione verso la problematizzazione dello spazio rappresentativo. L’estetica figurativa giapponese tende a produrre, almeno sugli occidentali, l’effetto straniante di confondere l’uso del paesaggio con l’uso del corpo – o meglio, l’uso dello sfondo con l’uso della figura.

Se rinascimentalmente siamo portati a considerare lo sfondo come il pretesto dello svolgimento del corpo è perché questo ha, nel nostro caso culturale, un’importanza maggiore e una serie di ricadute filosofiche. Mentre sulle litografie giapponesi (per non fare che un esempio), i corpi divengono viceversa il pretesto dell’esercizio del piano astratto, vuoto e circostante. Così accade che la coppia figura-sfondo venga invertita.

Linearmente con questa sensibilità, in WAF è il corpo sonoro che si perde e riemerge episodicamente dal continuum spaziale vuoto, astratto e in primo piano. L’equalizzazione dell’album rifugge le frequenze alte assestando i brani nel casalingo torpore familiare della vita infantile, non in un panismo bucolico. La natura, in questo particolare disco, è espulsa attraverso l’addomesticamento di suoni comunque inattesi. La musica sembra riprodurre la scoperta, nel rassicurante habitat casalingo, del mondo fonetico.

Ciò che intriga la nostra sensibilità occidentale è sì l’incomprensibilità delle successive scelte estetiche, ma anche la mancanza di evoluzione, di processo e di progresso. L’unidirezionalità del brano pop-rock occidentale è negata, gli ingredienti delle singole macchine della produzione pop (intro, strofa, ritornello, bridge) vengono totalmente destrutturati e la fabbrica del pop si arresta proprio nel disinnesco di queste macchine.

Vale quindi la pena farsi questa domanda ingenua ma, secondo me, legittima: quanto la fortuna di questo tipo di musica – e di certi altri dischi di orientamento «asiatico» persi e ritrovati dalla cultura YouTube –  deve al sovvertimento del principio orgasmo-machista del pop occidentale?

Ciò che realizza la vertigine acustica di queste sonorità è l’annodamento dei clichè che costituiscono il fondamento della forma canzone. L’impegno mentale per elaborare il processo acustico è tale che permette di concentrarsi. Il blocco sonoro non si impone e ha bisogno di insensatezza poiché diventa il mantra, il cerchio attorno a cui costruire il vuoto per poi sostituirvi l’oggetto. Proprio questa insensatezza del mantra nelle pratiche meditative in voga in Occidente è la clausola fondamentale perché si possa realizzare un qualche tipo di «ascesi», quando ascesi qui viene intesa come qualsiasi trascendenza della realtà, qualsiasi esperienza inattesa del reale.

Ciò che gli occidentali cercano nella pratica yoga o nella meditazione è l’attraversamento di uno stato standard di coscienza. I mantra utilizzati in alcuni tipi di meditazione non sono che una breve sequenza di suoni assolutamente incomprensibili. Sta proprio nell’accettazione dell’insensatezza linguistica di questa stringa di suoni, la parte fondamentale della pratica.

Il mio paragone è funzionale solo a rilevare che, al di là della forma canzone attesa, quello che l’ambience di orientamento asiatico ci fornisce è un testo sonoro indecifrabile, ma che nemmeno chiede di essere decifrato. Questo scarto necessario concorre all’aperto dell’intuizione e spalanca la porta all’interpretazione malinconica dei materiali sonori.

Come si può leggere sullo statement di un negozio Muji:

«(I prodotti di Muji) sono come dei recipienti vuoti.
La semplicità e gli spazi vuoti danno luogo a una grande universalità,
riuscendo ad abbracciare i sentimenti
e i pensieri di chiunque»

Guardando all’estetica che i prodotti di MUJI presentano, appaiono chiare alcune scelte estetiche di Hosono. MUJI significa letteralmente «prodotti senza marchio» e i suoi prodotti assomigliano al sound design originale dei suoi negozi. Le merci private di brand, di etichetta, di marchio, negano d’un tratto il chiasso impossibile del mercato. Questa scelta dà al consumo un aspetto sentimentale: ci viene chiesto di riempire questa carenza di significato con una mitologia personale e privata dell’abitare. I prodotti MUJI stimolano la produzione emotiva di aspettative esistenziali comunicandoci (vendendoci) l’idea che la merce possa essere anche silenziosa, riservata e addirittura timida.

Ciò che ci può raccontare questo disco del disagio contemporaneo è, ad esempio, la necessità imperante, nella logica di un capitalismo molecolare, di trovare ancora uno spazio clinico di recovery, di guarigione e di comfort, lontano dai meccanismi della matrice.

Recovery significa sia rimettersi in salute che, nel gergo informatico, avere la facoltà di recuperare informazioni da una memoria centrale: il recupero dei feedback innocenti con cui infantilmente il bambino sperimenta il suo debutto percettivo nel mondo. Nella stessa logica si potrebbero leggere i contemporanei sforzi della comunità ASMR di riportare l’attenzione percettiva ed emotiva sul mondo dei fenomeni a partire dai suoni. Vi è nei video ASMR un chiaro intento pedagogico. I performer dei video ASMR rieducano acusticamente gli utenti insegnando un atteggiamento percettivo timido invece che offensivo verso il mondo e i fenomeni. In Shy Radicals: The Anti-Systemic Politics of the Introvert Militant di Hamja Ahsan, si legge che l’inno nazionale dell’Aspergistan – ideale territorio immaginario a cui fanno capo gli shy radicals – è il suono di una conchiglia appoggiata all’orecchio. C’è il reclamo crescente di luoghi di quiete e recupero, di spazi propedeutici formativi ma non affermativi, dove guarire lontani dalle logiche del capitale.

 

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« Quest’ultimo terzo del nostro secolo è anche l’ultimo trentesimo del millennio; sicché ci troviamo a vivere nell’ultimo sessantesimo dell’eone sotto il segno dei Pesci, il segno dell’èra cristiana, il mito temporale all’interno del quale ricaviamo il nostro orientamento storico. […] Davanti a noi c’è una sola generazione, l’ultima, quella che lo chiude, quello di transizione che ci traghetterà nel prossimo millennio e nell’èra dell’Acquario. » 

(James Hillman)

Mentre nel lavoro di Hosono è difficile ravvisare sonorità strettamente new age, ciò che ci interessa è che sia WAF che la musica new age producano un discorso attorno al concetto di cura e guarigione, allevamento e terapia. Sia nel caso di WAF che della musica new age, ciò che importa pare essere la componente «healing» di entrambe le modalità sonore. Mentre però nel caso della new age i temi sociali connessi al genere erano legati al risveglio, all’awakening (anche collettivo) con derivazioni cosmiche ed extraterrestri, colpisce come in WAF non solo ci sia un’assenza totale del tema sociale del risveglio, ma che esso sia addirittura musicalmente funzionale alla produzione di torpore malinconico e soporifero.

Le sonorità di cui parliamo, lungi dall’essere un dispositivo di rinascita soggettiva/collettiva e di produzione di entusiasmo, divengono un protocollo di fuga indispensabile per talune sensibilità. Ciò che comunque si conserva, nello scarto sociologico inevitabile fra cultura new age e questa sensibilità contemporanea che stiamo cercando di circoscrivere, è la necessità di guarire.

La dolorosa differenza è che la generazione che utilizza certe risorse musicali di YouTube, come pure i video ASMR, non può credere più nell’avvento di una «nuova era».

L’era dell’acquario, suggerita dal progresso tecnologico così come dalla sensazione e consapevolezza della popolazione mondiale come di un unico, non può rinnovarsi. Se è vero che ci troviamo alla fine della storia, è altrettanto vero che c’è una sempre crescente quantità di individui che questa condizione la patisce direttamente e che testimonia la presenza di una lotta in atto con la propria esistenza.

La new age è stato un movimento culturale che ha posto l’accento sullo sviluppo e la guarigione dell’uomo, un movimento che senz’altro si è imposto come un momento di riscoperta delle modalità di cura di se stessi e dello spazio che ci circonda. L’ecologia e una serie di pratiche legate alla cura del corpo e della mente hanno nel movimento new age la chiave di volta del loro sviluppo. Il trattamento indulgente dello spazio sentimentale è la naturale conseguenza di questa tensione. La nuova era della new age è stata un’era di rivoluzione dell’emotività. L’insistenza su tematiche anticapitalistiche come la ruralità, la naturalità, il rifiuto della meccanizzazione e del consumismo è un’altra caratteristica fondamentale della cultura new age.

La mostra e il catalogo The Whole Earth. California and the Disappearance of the Outside riprendono l’avventura editoriale di Stewart Brand, fondatore della rivista Whole Earth Catalog. La mostra registra il passaggio della controcultura americana in prodotto e vulgata new age, e puntualizza come l’iniziale spinta verso un fuori culturale sia stata integrata e riconvertita nella cultura americana tradizionale; in questo senso, si può parlare di «scomparsa del fuori/dell’altrove».

La rivista Whole Earth Catalog nacque nel 1968, e ogni numero conteneva una certa quantità di «consigli per gli acquisti» orientati verso il conseguimento di una esistenza immersa nella natura; trattava le nuove tecnologie informatiche, metteva a disposizione una serie di conoscenze per sopravvivere in autonomia dalla società, e comprendeva anche inserti di narrativa, poesia ecc. La rivista nacque dall’interesse di Brand per una foto (che la NASA avrebbe scattato nel 1972) che ritraesse la totalità del globo terrestre, quindi una fotografia spaziale della Terra tutta.

«Lui era convinto che la visione della Terra come un’enorme palla blu sullo sfondo nero dell’universo avrebbe fatto capire quanto le differenze del colore di pelle, di religione, di nazionalità e tutti i beni materiali erano davvero poco importanti visti da lontano e invece era necessario essere uniti e favorire la voglia di condivisione».

(cit wikipedia)

The Whole Earth. California and the Disappearance of the Outside lascia ben comprendere come il legame fra la vecchia cultura statunitense e l’avvento della controcultura americana sia saldato dalla domanda di Brand, e di come l’istantanea del globo terrestre nota come Blue Marble sia stata la coming of age di tutta la coscienza umana.

Ora che la Terra era circoscritta si poteva passare ad altro: lo spazio e il cosmo sono il piano astratto della poetica new age, che infatti produce, nelle sue manifestazioni musicali, una spazialità sonora di tipo «cosmico». La grandezza degli spazi che la poetica new age costruisce è tutta data dal riverbero e dallo spostamento dei corpi acustici e figurativi che prendono posto nel suo piano rappresentativo: unicorni che corrono su pianeti sconosciuti sotto un cielo color verde ed enormi pad siderali sono solo alcuni esempi di come la new age elaborasse il piano spaziale.

In forte opposizione con le sonorità e il significato generale di WAF, la new age rifiutava fermamente la spazialità chiusa, probabilmente in contrasto col marketing casalingo di cui era oggetto la cultura americana. Il grande boom dell’elettrodomestico viene combattuto con la passione per le nuove tecnologie, col sogno di un’interconnessione totale (tecnologica e spirituale) per il progresso tutto. La new age in questo senso espelle il casalingo liquidandolo come convenzionale e conservatore: al grigio ufficio IBM viene contrapposto il sogno di una vita al di là del lavoro e della società tradizionale. Nel classico spot del Machintosch 2 del 1984, questi valori e controvalori prendono vita: una rossa eroina ginnica dotata di martello liberatore riesce a «risvegliare» i grigi impiegati della tecnocrazia distopica immaginata dallo spot. I valori del conservatorismo aziendale americano si scontrano, perdendo, con i controvalori della controcultura che Apple si adopera a difendere.

Il colore grigio caratteristico dei vecchi computer torna anche nei commenti YouTube a WAF: evoca un’era tecnologica perduta in cui le modalità di accesso alla rete e alle tecnologie informatiche disegnavano un rituale morbido e innocuo di navigazione e ne facevano una commodity riservata alle soggettività timide, discrete. Nell’appello al grigiore neutro delle vecchie macchine si registra la sensazione della perdita di un piano inoffensivo di costruzione immaginativa. La neutralità del grigio si fa anche metafora della neutralità obiettata da un popolo silenzioso e bullizzato contro ciò che la rete è divenuta: non più un luogo irreale e liscio dell’immaginazione dei geek e dei freaks, ma il prolungamento artificiale e striato della pericolante passerella della società dello spettacolo. In Wargames, un grande film del 1983, un giovane hacker entra nel supercomputer della CIA e lancia per sbaglio la simulazione di un attacco russo sul suolo americano che i servizi segreti, immancabilmente, interpretano come reale. La costruzione ci permette di vedere come nell’immaginario degli anni Ottanta il computer potesse essere lo strumento attraverso il quale migliaia di giovani marginalizzati potevano pensare la malleabilità, l’accessibilità, insomma il superamento non solo dei sistemi di sicurezza contemporanei ma anche del machismo disciplinare delle società di controllo. Alla stessa stregua si possono considerare due pellicole come Explorers e Weird Science, in cui le potenzialità dei computer, benché proiettate nell’inverosimile, diventano l’opzione eversiva del «weirdo» eroe. Tutta una costellazione di film degli anni Ottanta – quasi un sottogenere distorto del brat pack – si focalizza proprio attorno al racconto delle sorprendenti (e talvolta magiche) possibilità degli scatoloni grigi.

Le scatole vuote che appaiono qua e là nei commenti al video YouTube di WAF comunicano certamente la rassicurante malinconia per un’epoca svanita in cui la dorata incomprensione tecnologica dei processi informatici era la regola; ma sono anche il sintomo dell’insofferenza per le strutture di potere che si sono installate e cristallizzate in quel luogo vuoto e possibile che era la rete. Le scatole vuote rappresentano il sogno, la nostalgia per un tipo di macchina informatica e per un internet lacunoso in cui tutto era ancora da scrivere e che era ancora uno strumento riservato ai più deboli: lo strumento di chi era messo quotidianamente all’angolo dalla realtà.

Non è nuovo o sconvolgente capire come la normalizzazione della controcultura e della new age abbia massicciamente informato la Californian Ideology.

Se oggi possiamo trovare ogni serie di sincretismo inquietante – fra yoga e cultura borsistica, fra training autogeno e self-branding, fra zen e business ecc. – è perché il milieu new age ha potuto compiere un trapasso dalla controcultura californiana al normale comparto capitalista attraverso la mediazione dei ragazzi della Silicon Valley. Alla stessa Californian Ideology dobbiamo peraltro la standardizzazione dei protocolli informatici che ad oggi plasmano il nostro contemporaneo e la forma che ha acquisito il nostro rapporto quotidiano con l’infosfera. Insomma, se oggi Internet è fatto in un certo modo, si dirà allora, il merito – o la responsabilità – è proprio degli stessi bad boys di Cupertino.

Guardando alla «tesi della Frontiera» appare chiaro il motivo per cui la controcultura e la new age siano nate in California. Così come è espressa da Frederick Jackson Turner, la tesi della Frontiera pone come fondamentale, per lo sviluppo della democrazia americana, l’esistenza di una moltitudine di frontiere ad Ovest. Turner considerò come l’esistenza dei primi coloni americani, che vissero specialmente sulla costa est degli Stati Uniti, fosse inizialmente caratterizzata da uno stile di vita europeo, che venne poi modificato nel tempo dal nuovo ambiente e dalle sfide che man mano venivano loro presentate.

Questi operatori di trasformazione si accentuavano man mano che la costa est sfumava in favore della colonizzazione di spazi interni del Nord America; perciò il significato in nuce della teoria della Frontiera era che «più si va verso ovest, più si è americani».

La cultura americana giunta selvaggiamente in California ha dovuto produrre la new age per poter superare lo stallo geologico di non avere più terreni a ovest, facendo inevitabilmente penetrare l’esotico e il cosmico nell’immaginario californiano.

Il sottotitolo del Whole Earth Catalog era «Access to Tools»: l’obiettivo era quello di costituire un catalogo di tecnologie e pratiche, una sorta di manuale di sopravvivenza per entrare nella Nuova Era. Mi sembra importante puntualizzare come sia proprio la necessità di entrare in contatto con il mezzo, con lo strumento, che spinge sia l’avventura editoriale di Brand che gli utenti e i commentatori di WAF. Se la new age prospettava il recupero della vita naturale, la costituzione di commons e una sorta di neoprimitivismo, le nuove forme di recovery e adeguamento sono senza speranza poiché non può esistere la speme per un nuovo corso temporale. Gli utenti di WAF piangono sulla loro condizione di eterni young adults dalla distanza siderale di un piano temporale bloccato, ma riprodotto costantemente nel tempo. La cristallizzazione delle passioni gettate nei commenti, la loro apparente inobliterabilità, sono il simulacro malinconico di una nuova era che non è più potuta nascere, cosicché il soggetto non può che piangere la perdita mai avvenuta del suo passato. Il concetto di malinconia non chiede altro per potersi autodefinire.

Quello che appare è dunque un desiderio di esoticità vicino a quello del romanticismo classico europeo, che pure parlava dell’altrove esotico per costituire un luogo di malinconia e perdita per qualcosa che non si era mai avuto.

Nella contemporaneità, sono convinto che questa perdita per una possibilità irrealizzata e ormai irrealizzabile sia data da una specie di senso imperiale, dalla consapevolezza che internet e l’epoca della connettività totale avrebbero potuto fiorire in modalità molto diverse da quelle corporate a cui siamo legati, che la rete, quindi, sarebbe anche potuta essere un’altra cosa.

La possibilità di connessione digitale alle risorse e agli altri individui ha rafforzato, invece che indebolito, il senso dell’esistenza di un ordine costituito benché questo ordine si sia polverizzato e abbia perso la sua fisiologica centralità. La normalizzazione che presto si è imposta nei protocolli del web ha confezionato la vocazione per un esterno, collocato in un altrove indefinito e irraggiungibile. Gli spazi di cui abbiamo parlato diventano allora gli oblò tropicali da cui guardare ciò che Internet avrebbe potuto essere, ma che non è stato.

Il blocco delle possibilità culturali di internet ha scongiurato il messaggio sociale che potevano avere le nuove forme di connettività. Per confronto potremmo dire che, come la Restaurazione fece perdere ai romantici la speranza per un nuovo (esotico) futuro, così la normalizzazione delle condizioni di navigazione e comunicazione operata su internet ha permesso, dopo un primo iniziale entusiasmo, la nascita di quello che chiamo Net Spleen.

La new age poteva contare su un positivismo galoppante poiché le condizioni politiche, sociali ed economiche sembravano preparare un nuovo corso storico. La chiusura progressiva dell’orizzonte del possibile, dello sperabile, l’incapacità di concepire i nuovi strumenti tecnologici come qualcosa che ci riguarda direttamente, sono l’ultimo stadio di una corporativizzazione dei mezzi di comunicazione (o mezzi di produzione di comunicazione), la negazione definitiva dell’accesso agli strumenti («access to tools») che si prospettava in The Whole Earth.

Una possibilità di accesso libero alla rete è perciò quello che i Lost Boys reclamano dal momento in cui il principio di interscambiabilità e decentralizzazione dei comparti produttivi ha alimentato l’idea che il presente (e dunque il futuro) si stia facendo sempre da un’altra parte. Da quaggiù i Lost Boys di internet reclamano un altrove immaginario, praticandone simbolicamente il requiem, all’interno di uno spazio in cui raccontare ciò che hanno perso e ricordare di quando non erano cresciuti. Non è un caso allora che l’esercizio di poesia collettiva che viene praticata sotto il video di WAF si focalizzi attorno ai ricordi di un’infanzia in cui internet ancora non c’era, in fantasmagorie malinconiche in cui la tecnologia non entra se non in modalità distorte.

 

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Printing Out the Internet è un’opera d’arte del 2013 creata da Kenneth Goldsmith, già fondatore di UbuWeb. L’artista chiese a chiunque avesse voluto partecipare all’opera di stampare pagine, porzioni o interi siti web, e di inviare le stampe alla galleria LABOR di Città del Messico.  Per l’esibizione, che ebbe luogo nell’estate del 2013, Goldsmith riempì uno spazio di 500 metri quadrati con dieci tonnellate di carta stampata. Il progetto di Goldsmith ispirò altri lavori artistici e addirittura una «maratona» di lettura collettiva dell’intero Internet.

In quest’ordine mi pare importante citare anche Library of the Printed Web, un progetto curatoriale aperto fondato da Paul Soulellis, il cui proposito è quello di costituire un «archive of archives» e di sollevare questioni e problemi di copyright, privacy e appropriazione indebita relative al web.

L’impossibile e paradossale tentativo di «stampare tutto l’internet» ha un equivalente nella domanda di Stewart Brand di una fotografia che raffigurasse il globo nella sua interezza. Entrambe le domande reclamano una possibilità di pensare il superamento delle condizioni di possibilità dei due sistemi e aprono alla ricerca di un «fuori» dal mondo e un «fuori» dal web.

C’è il crescente bisogno di ritrovare un fuori dall’internet, un fuori dal mercato. La scomparsa del fuori, dell’ignoto e il desiderio di riacquisire spazi neutri, lisci e lontani dal capitale sono anche manifestati dal crescente interesse per il deep web: il desiderio cioè di un subconscio, un nascondiglio segreto, un altrove magico del web dove l’identità e il capitale non possono entrare.

La fortuna di WAF è la spia di una crescente necessità degli utenti di arrestare la sensazione di essere la merce della «gratuità» e della disponibilità inesauribile del web; il rifiuto di credere che la loro esistenza virtuale valga solo nella misura in cui alimenta il commercio. In un certo senso si potrebbe dire che il recente e crescente interesse per sonorità «esotiche» e «che vengono da lontano» sia da attribuire all’esaurimento definitivo di alcuni linguaggi musicali del neoliberismo.  La tesi della Frontiera, da questo punto di vista, sembra illuminarci anche rispetto al consumo e alle merci. Il consumo del passato, così come il consumo del futuribile, è la trascendenza del consumo stesso verso forme alternative di produzione culturale. È il consumo che ha esaurito il limite geologico del pop e si deterritorializza.

In linea con questa tesi è ancora interessante notare come nel caso di WAF il mercato sia, in un senso stretto , ancora relativamente estromesso, marginalizzato. Altri dischi «gemelli» sono stati meno fortunati: Plantasia di Mort Garson è stato ristampato nel 2017, così come Through The Looking Glass di Midori Takada e Scenery di Ryo Fukui. Alcune di queste gemme hanno subito una riscoperta e una rimessa in commercio, mentre WAF persiste nel suo essere ancora un luogo relativamente non penetrato dal capitale.

L’impressione che la vita sia altrove e che la malinconia possa essere una risorsa sono l’opposto dell’entusiasmante sogno per l’unità umana e globale che la controcultura americana promuoveva. Ciò è dovuto dalla percezione di un agonismo intrinseco del meccanismo sociale che si riproduce anche e soprattutto a livello di una rete che ancora si vuole chiamare «democratica». La delusione per un’immagine del web che invece di azzerare le distanze e redistribuire le risorse e i benefici dell’interconnessione globale ripiega su una modalizzazione, nemmeno così originale, dei principi della società neoliberale è la causa per cui la tristezza ha potuto caratterizzare una parte importante della nostra vita in rete.