Nessun segnale

Cavi rotti, flussi globali e la narrativa dell’immateriale

Questo articolo è un primo passo nello studio etnografico delle condizioni materiali impiegate nelle pratiche musicali in contesti urbani. Nato grazie a una riflessione concepita per il primo numero della rivista di antropologia culturale *Alea, «materia», dal titolo «Il cavo non è la musica». Il progresso del pezzo è una trascrizione della presentazione fatta al British Forum of Ethnomusicology / Royal Ethnomusicological Association Conference 2022.

È il 2014. Siamo una ventina di persone sedute in cerchio, in una piccola stanza ricoperta di panni di velluto nero. Qualcuno fuma fuori dal ristretto sottoscala riconvertito a sala concerti. Aspettiamo che inizi la performance. Io e la mia ragazza siamo venuti nel quartiere di Neukölln, a Berlino, per vedere un festival di musica sperimentale. Ci aspettiamo di ascoltare una serie di musicisti suonare in modo poco ortodosso vari strumenti, in maniera più o meno musicale, costruendo sessioni di improvvisazione in cui potrebbe succedere di tutto. Nel vocio generale, il primo performer si materializza dalla porta principale, scivolando dietro al tavolo pieno di effetti a pedale sui quali è appoggiato un microfono a contatto. I cavi ricoprono tutto, spargendosi disordinatamente per la stanza e creando nodi nei punti in cui si sono inavvertitamente intrecciati. Senza troppe cerimonie, lo spettacolo inizia.

Il performer si strofina addosso il microfono mentre freme in maniera convulsa. Le contorsioni si fanno gradualmente più violente, direttamente legate ai rumori emessi dal sistema audio. Le casse vengono spinte progressivamente al limite delle loro possibilità, nell’accumulo di distorsioni, feedback ed effetti aggiunti in maniera arbitraria dall’artista. Al culmine del crescendo, senza preavviso, piomba nella stanza un denso rumore bianco – un fruscio ininterrotto molto diverso dai rumori ascoltati fino a quel momento. Il performer rimane immobile per alcuni secondi a fissare il tavolo di fronte a sé. D’improvviso, come uscito dalla catatonia, si lancia sul tavolo e sfila l’ultimo cavo della catena di pedali. Dapprima lo fissa inerte, poi prende a stimolarlo con le dita, ottenendo brevi interruzioni del rumore precedente. Dopo questa prima sequenza, il performer ricomincia a scuotersi. Ora tiene il cavo con entrambe le mani e, come comprimendolo, continua a produrre quel suono secco e acuto, fino a che tutto non cala bruscamente nel silenzio. Il musicista sorride. Applausi.

Mentre fumo una sigaretta fuori, discutiamo le nostre impressioni riguardo il concerto. Ci chiediamo perché, a un certo punto, il performer abbia deciso di servirsi unicamente di un cavo. Ipotesi: che sia stata una prova di ulteriore radicalismo? Il musicista ha utilizzato sonorità ancora più essenziali e fastidiose, prive di qualsivoglia melodia o nota. Un puro rumore ridotto ai minimi termini. Lo vedo finalmente uscire. Gli organizzatori si congratulano e gli chiedono come ha vissuto l’esperienza. «Com’è andato il concerto?», riesco a origliare. Era andato bene, tranne per un inconveniente che lo aveva spinto a cambiare completamente il suo set a metà performance. Uno dei cavi era rotto. Lo aveva capito quando la sala era stata pervasa da quel singolo rumore bianco. Così, aveva deciso di impiegare questo piccolo difetto all’interno della performance, in modo da poter proseguire nonostante l’imprevisto.

Un cavo jack rotto

In questo aneddoto intravediamo una delle questioni fondamentali riguardanti la relazione tra musica e materia. Assistendo al repentino cambio sonoro durante il concerto, ho ipotizzato che l’evento potesse avere un qualche significato intellettuale e astratto. Come spesso succede, ho sovrainterpretato quello che era un semplice problema materiale e pratico: un cavo era rotto e il performer aveva dovuto reagire di conseguenza. Poco importa che, in questo caso, il rumore prodotto dalla strumentazione danneggiata fosse qualitativamente simile a quelli che il musicista aveva generato fino a quel momento; se fosse successo alla microfonazione di un’orchestra da camera probabilmente non avrei dato la stessa interpretazione. La questione, in poche parole, riguarda il modo in cui gli individui concepiscono la musica: un discorso che nella maggioranza dei casi ignora in maniera quasi sistematica il piano materiale che garantisce e permette di articolare una produzione musicale. Riprendendo l’aneddoto, ci ritroviamo così di fronte a un test di Turing musicale: sapere se un suono è prodotto volontariamente da un artista o accidentalmente da un cavo rotto determina la nostra interpretazione della performance.

In questo specifico contesto, il cavo jack ha agito dirottando il set e imponendo la sua presenza attraverso una negatività, un mancato funzionamento. Il cavo ha operato quasi come un processo biochimico anomalo: ci accorgiamo del respiro quando comincia a mancarci. La mia riflessione parte quindi da come i cavi jack non siano altro che una metonimia di un processo più esteso in cui – similmente alle narrative riguardanti Internet o la produzione industriale globalizzata – la materialità grezza e anonima viene rimossa più o meno consciamente dal quotidiano. Nella fattispecie questa teoria nasce da una mia personale ossessione costruita a partire dalla presenza ubiqua del cavo nei discorsi degli addetti ai lavori. Professionisti o amatori che siano. Sebbene si dica sempre poco di interessante sui cavi, tanto più sui cavi rotti, questi sono una presenza pressoché costante negli aneddoti di musicisti e tecnici; quasi sempre associati a quella negatività di cui abbiamo parlato poco fa. Il cavo si stacca o smette di funzionare. Viene perso, dimenticato, preso per errore o semplicemente si intreccia rovinosamente ad altri cavi. A sentire tutte queste storie il cavo sembra un semplice ostacolo, quando in realtà è riconosciuto come la condizione base per collegare una chitarra a un amplificatore o un controller a una scheda audio.

Ma partiamo dall’inizio. Pensate alla vostra musica preferita: sapreste descriverla in poche parole? La definireste attraverso un genere o elencando le sue qualità emozionali? Magari vi soffermereste sulla complessità ritmica, melodica o armonica; oppure, sulle immagini e il contesto che evoca o da cui proviene? Se siete particolarmente nerd potreste esservi lanciati in una lista accurata di strumentazione, (sotto)generi e tecniche. In ogni caso, sono ragionevolmente sicuro che nessuno di voi, nelle sue descrizioni mentali, abbia pensato di caratterizzarla mediante i cavi che affollano le sale prove o i macchinari di cui gli studi di registrazione sono pieni. Eppure, come racconta l’aneddoto, ancora oggi abbiamo bisogno di tecnologie di consumo e cavi per produrre la nostra musica: sono loro a determinare quali e quanti suoni possiamo emettere, comporre e arrangiare in strutture – strutture in cui il cavo è condizione necessaria tanto quanto il costosissimo strumento a cui è collegato, senza tralasciare la capacità tecnica e la sensibilità espressiva dell’esecutore. Insomma, tanto le nostre corde vocali quanto il microfono che ne amplifica i suoni sono materia che, a certe condizioni e livelli di organizzazione, produce suono e poi musica. Condizioni che sono immateriali, certo – uno stato emotivo, l’espressione di un concetto astratto, le tecniche e strategie compositive e di produzione – ma che restano legate a una materialità pressoché anonima, ovvia e negletta fatta di rumori e segnali.

«Music», secondo Google immagini

Come Will Straw ha scritto: «La musica, in particolare, per la sua invisibilità, e il modo in cui si sviluppa nel tempo, è stata facile preda dell’affermazione che sia un fenomeno immateriale». Al contrario, analizzare i vari livelli di pratica che il processo musicale comporta permette di vedere come le reti di materialità si siano persino estese negli anni grazie al commercio su scala globale e la nascita delle piattaforme di streaming; dai negozi e i portali di strumenti agli stabilimenti industriali, aziende di produzione e logistica di artefatti culturali legati al mercato musicale (CD, vinili, corde, plettri, bacchette per la batteria, spartiti) fino ai server e i cloud di Spotify e Bandcamp.

Infatti, anche laddove nelle pratiche musicali la materialità è esaltata, quella di poco interesse per l’immaginario viene nascosta dalla vista anche in maniera molto letterale, poiché sinonimo di disordine e disarmonia. Prendete alcune pubblicità e foto di tipi diversi di strumentazione. Quasi sempre li vedrete staccati e sconnessi da cavi e contesti materiali anche quando imbracciati dai modelli, se non proprio denigrati in opposizione allo strumento stesso,come mostra una famosa pubblicità del synth Casio CZ-230S. 

Due pubblicità di synth Casio CZ-230S e Korg 770. Mentre la prima deride la bassa materialità del tecnico, la seconda sublima la materialità dello strumento avvicinandola a narrative molto meno fisiche.

La materialità riemerge principalmente quando a presentare lo strumento sono musicisti professionisti e star dell’industria. Caso nel quale è più probabile che il cavo compaia, anche se pur sempre decentrato e dalla presenza minimale. Ma non vi preoccupate, in quel caso è tutta questione di realismo più che di attenzione. In questo senso, seppure si può rintracciare un progressivo interesse per le forme materiali della pratica musicale che dal disinteresse pressoché totale dell’ascoltatore occasionale passa per l’acquisto compulsivo delle cosiddette gearsluts e culmina con le pratiche degli aficionados di alta fedeltà esoterica, è pur vero che l’attenzione è sempre rivolta a una questione di audio e suono, più che di interesse verso il materiale.

Bernie Madsen testimonial per la chitarra synth Roland G-808

Post da «Does being a Gearslut mean you are “materialistic”?», Gearspace.com

Studi di registrazione

La musica contemporanea e la cultura multi-fi, di fatto, si sono evolute principalmente grazie alla diffusione delle tecnologie musicali di massa per l’esecuzione, riproduzione, registrazione e composizione, in una stringa temporale che dagli anni Ottanta, col Sony Walkman e le audiocassette, passa per la produzione a costi sempre più bassi di numerosi apparecchi elettronici di consumo, inclusi gli strumenti musicali, arrivando alla «computer music» e la produzione su Digital Audio Workstation (Ableton, FL Studio, Logic Pro). Un movimento storico che non dovrebbe ignorare quanto delle nostre tecnologie «obsolete» viene scaricato e reimpiegato nel Sud globale.

Vi siete mai chiesti come mai, rispetto alla popolarità dell’hard rock e del metal da stadio degli anni Sessanta e Settanta, uno dei trend contemporanei sia quello della produzione di musica elettronica, dalla Trap al Bubblegum Pop? Oltre a ovvi cambiamenti riguardanti la musica popolare transglobale, una motivazione che ho potuto accertare nel corso delle mie ricerche sulle subculture musicali underground riguarda la facile reperibilità e la convenienza logistica che queste soluzioni (computer, software e plug-in) offrono: costano poco (o più probabilmente niente), si trovano su Internet superando in parte il confinamento geografico, consentono di produrre una palette pressoché illimitata di suoni e sono facili sia da trasportare che da rimpiazzare. La comparsa di diversi stili e generi deve molto più di quanto non si creda al fatto che scaricare illegalmente un programma sul proprio laptop possa essere più conveniente che comprare una batteria. Ma questa non è una storia esattamente nuova.

L’etnomusicologo Henry Spiller ha mostrato come anche in passato, in Indonesia, la nascita degli stili musicali e le loro ideologie siano stati fortemente influenzati dai materiali che ne hanno permesso lo sviluppo piuttosto che dalla sola ispirazione intellettuale o emozionale dei musicisti. Nella Giava Occidentale, i generi basati su un idiofono in legno come l’angklung nascono come musica delle comunità rurali, mentre le orchestre di metallofoni gamelan sono sempre state appannaggio dell’élite e dei generi di palazzo. Questo sulla base di una banale logica di accesso alle risorse materiali delle diverse classi sociali e centri culturali (il villaggio opposto al palazzo). In entrambi i casi, i musicisti hanno sperimentato differenti pratiche articolatorie di creazione sonora (e sociale), sulla base di un determinato ventaglio di possibilità materiali. Questo discorso illustra chiaramente fino a che punto la materia partecipi al nostro modo di concepire e praticare la musica «prendendo letteralmente parte alla creazione». Un passo ulteriore: così intesa, la creazione musicale diviene una sorta di scoperta o, meglio, invenzione continua, in cui l’artista sperimenta con diversi piani compositivi e performativi – siano essi emozionali, estetici o creativi – sulla base di specifiche possibilità materiali.

A sinistra, un angklung. A destra, alcuni strumenti di un’orchestra di gamelan balinese.

Per ritornare alla mia esperienza etnografica delle subculture audio, i miei interlocutori hanno  sempre reso esplicito quanto gli artefatti culturali (CD, audiocassette, vinili, file audio) siano elementi materiali che strutturano e esprimono la pratica musicale, agendo come degli snodi su cui un discorso meta-culturale (la definizione di un particolare genere, ad esempio) può avvenire e progredire continuamente, permettendo agli attori di rinegoziare l’interpretazione e la valutazione delle pratiche artistiche. Nelle discussioni che ho avuto con i musicisti, emergono costantemente riferimenti ad album, formati, strumenti, macchinari e, in maniera singolare, computer che non funzionano bene come dovrebbero. Paradossalmente, sono spesso questi a dare origine poi anche a discorsi più complessi, formali e teorici.

A questo punto si dovrebbe giustamente obiettare che il discorso è qui passato da un semplice cavo jack a strumenti, CD e oggetti che per quanto marginali stimolano il nostro vasto immaginario immateriale composto da emozioni, concetti e contenuti audiovisivi. Sarebbe una nota dovuta. Il modo in cui concepiamo e ci approcciamo agli oggetti varia grandemente a seconda del valore affettivo che diamo a questi. Mentre un libro o un’uscita discografica, per quanto di poco conto, potrebbero comunque stimolare la nostra curiosità – avete mai raccolto un libro per strada che non necessariamente vi interessava? Avete mai acquistato un vinile o un CD da una scatola delle offerte solo perché costava un euro? – è difficile riservare lo stesso tipo di attenzione a una cosa come un cavo, che per antonomasia rimane distintamente poco attraente e interessante.

Quando Susan Buck-Morss propone di riesaminare «l’oggettualità» degli artefatti culturali intorno a noi, prevede un impianto teorico che per quanto teso a recuperare la dimensione materiale dei nostri artefatti preferiti, esclude tutto ciò per cui noi semplicemente non nutriamo affetto. Buck-Morss propone di leggere i nostri amati oggetti attraverso queste domande: (1) In che modo i beni culturali esistono nel mondo e occupano lo spazio? (2) In che modo la forma fisica delle merci culturali modella la loro circolazione, o la natura e la portata della loro influenza? (3) Quali forme di investimento libidinale o ideologico vengono esercitate sulla merce culturale come oggetto? (4) Come si relaziona il decadimento fisico delle merci culturali ai cambiamenti del loro valore culturale e monetario? Questa è palesemente una struttura che esclude la materialità ovvia e noiosa del cavo. Una materialità che forse può essere recuperata indagando più a fondo l’unicità di «strumento» che quest’ultimo possiede, e nella fattispecie i casi in cui il cavo emerge come referente centrale di una pratica musicale, per quanto poco ortodossa.

David Novak, nel suo Japanoise ha osservato come i noisers abbiano saputo utilizzare la junk electronics e l’elettronica di consumo in un modo che gli permette di trascenderla creando un plusvalore utilizzabile nella pratica artistica. Da un lato gli oggetti che precedentemente sono visti come puramente strumentali sono trasformati in simboli estetici; l’elettronica malfunzionante, assemblata spesso in maniera incerta, un groviglio di fallimenti elettronici, viene spinta al suo estremo per generare un’esperienza sonora altrettanto estrema (non chiamatela arte). Ciò avviene attraverso un ribaltamento di quello che è spesso percepito come un ruolo attivo/passivo e strumentale/di strumento che per certi versi ricorda le teorie di John Oswald sulla plunderphonics. Dall’altro, questo tipo di tecnologie permettono ai noisicians di tessere e strutturare un commentario musicale non-figurativo e non-narrativo in cui l’ambivalenza morale della modernità globale viene confrontata «immaginando l’inimmaginabile» in esperienze fantastiche di violenza e potere. Il noiser è il dito puntato verso la macchina e la sua potenza nascosta.

Un altro gruppo di casi interessanti è trattato da Jace Clayton – per gli amici DJ Rupture – nel suo Remixing. Viaggi nella musica del XXI secolo. Nel volume, DJ Rupture parla dell’intersezione delle tecnologie di consumo per la produzione e riproduzione musicale come di «assemblaggi casuali e democratici» sfruttati da musicisti in tutto il mondo per produrre musica dall’interno di una condizione pressoché ordinaria. Questi assemblaggi si sviluppano su una linea temporale che potrebbe includere personaggi come Jimi Hendrix, che con la sua famosa affermazione di suonare più che altro l’amplificatore richiama tutto un sapere materiale relativo all’impiego delle circuiterie e della strumentazione – per una persona che notoriamente aveva dovuto per forza adattarsi alle condizioni materiali – e progetti come i congolesi Orchestre folklorique T.P. Konono Nº1 de Mingiedi, conosciuti più comunemente come Konono N°1, il cui suono iconico, un likembé estremamente e involontariamente distorto, è stato ottenuto dalla costruzione autodidatta e improvvisata di piccoli microfoni. Un suono che ha generato poi in Occidente una serie di narrative orientaliste (come quella della «Bazombo trance music») che ricordano molto la mia interpretazione inesatta di radicalismo data nell’aneddoto all’inizio.

La copertina di Congotronics di Konono N°1 e i likembé elettrificati

Dopo aver esaminato questi casi concreti, in cui rispettivamente la materialità viene sfruttata per essere trascesa creando un plusvalore o il cui impiego genera nelle audience un qualcosa di più di una semplice reazione davanti alle possibilità dei cavi e i circuiti, possiamo provare ad allargare la prospettiva ridotta degli artefatti culturali per includere tutta quella materialità strumentale che è stata dimenticata, negletta e non amata. Una materialità che parla di cavi come metafore di tutto ciò che, pur essendo fondamentale, rimane estremamente rimpiazzabile e parte di un’economia di consumo in cui riparare è sempre sconsigliato. Ritornando alla struttura base proposta da Buck-Morss proporrei di modificare il quadro come segue: (1) In che modo questi oggetti esistono nel mondo per noi e occupano lo spazio? Come e perché sono nascosti, dimenticati o inosservati? (2) In che modo la forma specifica di questi oggetti (ad esempio dei cavi intrecciati o plettri che vengono costantemente persi) modella la loro circolazione, o la natura e la portata della loro influenza? (3) Quali forme di disinvestimento libidinale o ideologico vengono esercitate su questi oggetti? (4) Come il decadimento fisico di questi oggetti si relaziona ai cambiamenti del loro valore culturale e monetario, specialmente in termini di plusvalore?

Questa posizione di partenza può certamente aiutare a riportare il cavo e i suoi pari nel mondo degli oggetti, che a questo punto comincia a trasudare ideologie ben più che semplicemente materiali. Purtroppo, una prospettiva del genere continua a identificare questo piano fisico come possessore di distintive qualità che vanno al di là di ciò che l’oggetto banalmente è; come se fosse ben più che un semplice cavo jack. Quindi perché non focalizzarsi proprio su ciò che questo oggetto banalmente è? Un’ovvietà della pratica musicale elettrificata. Una tautologia tecnologica. Ogni tanto ritorna all’orecchio la scontatezza che «non è musica sperimentale se non ci sono cavi sparsi dappertutto». Da questo punto di vista, il fatto che c’è bisogno di un cavo per suonare è come dire che la neve è bianca. Un’affermazione di nessun interesse o profondità.

Può essere quindi utile ritornare a chiedersi come sia possibile inquadrare lo studio delle tautologie del linguaggio non solo per comprendere come applicare il ragionamento alle tautologie della tecnologia musicale ma anche per sondare quali forme di conoscenza potremmo star perdendo nell’ignorare una tale dimensione comunque sempre prepotentemente presente. A questo proposito, Wittgenstein aveva giustamente notato come «gli aspetti delle cose che sono più importanti per noi sono nascosti per via della loro semplicità e familiarità. (Non si può notare qualcosa perché è sempre davanti ai propri occhi.) I veri fondamenti di una tale indagine non colpiscono affatto l’uomo».” Il ragionamento è stato portato più avanti dall’antropologo e studioso dei media Mark Hobart, il quale nel suo studio della discussione e argomentazione afferma che «gli accademici falliscono nel trovare/studiare l’argomentazione, perché fiorisce nel discorso quotidiano, negli atti ordinari e nelle espressioni che passano in gran parte inosservate». Nelle nostre tautologie, nelle nostre banalità, è in realtà raccolto un modo sia fisico che immateriale, visibile e invisibile. Così come dire «la neve è bianca» rivela tutta la sua complessità e verità circostanziale quando questa non lo è più.

Proviamo quindi a intendere il cavo proprio come parte quotidiana delle pratiche musicali. Un elemento che passa in gran parte inosservato. Qui di seguito ho provato a espandere il framework generale di Buck-Morss sull’oggettualità degli artefatti culturali già modificato da me includendo quattro segmenti di studio con cui possiamo teorizzare la strumentalità del cavo. Ognuno di questi quattro segmenti prende in esame proprio un tipo di boutade e ovvietà che ho osservato e raccolto negli anni, prendendo parte ai circuiti di pratica musicale underground e non, DIY e non, grazie ai contributi di musicisti professionisti, fan e tecnici del settore.

Per favore, portate dei jack – IL CAVO COME CONDIZIONE MATERIALE

Può essere davvero frustrante [suonare sotto tali condizioni materiali]. Ti alleni e provi per giorni, a volte settimane, e alla fine devi rifare tutto all’ultimo minuto per un cazzo di cavo mancante o rotto.

Parto con questa prima area perché è forse, tra le ovvietà, la più ovvia. Per suonare generi di musica amplificata elettronicamente servono cavi. Punto. Suonare significa anche essere in grado di confrontarsi con una miriade di oggetti e merci il cui assemblaggio e la cui gestione produce suono. Chi ha suonato sa benissimo cosa significa avere una corda o una bacchetta che si rompe, un computer che non parte, una valvola dell’amplificatore malfunzionante. Esperienze del genere ci portano a chiederci quale sia il grado zero, la materia prima della pratica musicale. Cosa comporta in termini di realizzazione della nostra musica? Quali possibilità ci dà la materialità e quali ci nega? Come la materialità può essere piegata o impiegata per mediare determinati processi artistici e specificamente musicali? Da quali punti di vista la nostra materia è uno strumento per e da quali altri è un ostacolo alla pratica? Quali specificità hanno i vari materiali di cui facciamo uso? In cosa un cavo differisce da una bacchetta?

Come lo colleghiamo questo? – IL CAVO COME LAVORO PERIFERICO

Le persone spesso tendono a dimenticare quanto possa essere difficile imparare [come comporre musica elettronica]. Ci sono ancora molte persone, anche musicisti, che tendono a ignorare la produzione elettronica e la musica per computer come un “girare manopole”, mentre più spesso richiede la lettura di tonnellate di manuali di istruzioni e tutorial su YouTube Giusto per capire come funzionano le cose. Cristo! Alcuni musicisti costruiscono persino i propri sintetizzatori a mano, fino all’ultima vite e all’ultimo cavo.

Saper collegare cose è un sacco di lavoro. Certo, forse non è uno dei peggiori, ma pensate che c’è gente che impara a collegare e far funzionare apparecchiature musicali per mestiere. Alcuni vengono pagati anche tanto per questa capacità e conoscenza. Giusto per fare un esempio del tipo di expertise, degli «informatori» mi riportano che durante un soundcheck problematico per uno spettacolo delle sue musiche a Bologna, Angelo Badalamenti fosse riuscito a riconoscere (da Skype!) il rumore generato da un cavo video inserito per errore in un’entrata del mixer audio e così a salvare l’esibizione. Anche se non fosse andata proprio così, questo racconto rende la dimensione di come la relazione profonda che si sviluppa con le forme di materialità negletta si costruisce nel tempo, in un lavoro costante e specialistico. Una serie di competenze che passano per send/return, installazioni a otto canali, acusmonium, riproduzione delocalizzata. A volte si passano ore a settare uno studio e a programmare i propri suoni prima che ci si possa anche solo sedere per suonare o comporre.

I cavi ci parlano di una mole di lavoro periferico che i musicisti affrontano e per cui sviluppano abilità, conoscenze e trucchi personali. Potrebbe quindi essere importante chiedersi che tipo di lavoro periferico una specifica pratica musicale implica, prima ancora del lavoro musicale. Che tipo di conoscenza condivisa o contesa, quali tipi di «innovazioni» e saperi ampiamente esoterici vengono stabiliti nella pratica della materialità negletta? Inoltre, quale tipo di lavoro fisico e tecnico affrontano periodicamente o eccezionalmente i musicisti e per quali scopi? Come questo influenza o è influenzato dalla pratica creativa?

Joe Bonamassa parla dei suoi cavi preferiti

Ricevi del segnale? – IL CAVO COME VETTORE

È attraverso l’elettricità che la gente inizia a credere.

Jimi Hendrix in Remixing. Viaggi nella musica del XXI secolo.

Le persone prendono la leadership dall’elettricità anche di più che dalla persona dietro l’interruttore di on e off.

GX Jupiter-Larsen (The Haters), Adventure on the High Seas (2010)

I cavi conducono energia e segnale. Collegano microfoni a computer e computer a impianti. Ma collegano anche musicisti ad altri musicisti, o band a fonici o ingegneri del suono e, nell’era dei concerti streaming dal vivo, artisti ai loro spettatori. Creano insomma sovrapposizioni e grovigli di attori e mediatori umani e non. Reti che se ben strutturate possono comporre idealmente l’intero processo di fare musica, includendo roadie, fan e tecnici. Dal piccolo studio di produzione in camera alle grandi arene i cavi tracciano soprattutto una rete tecnologica e sociale che può essere interrogata andando a indagare quali vettori trasportano quali informazioni o creano scambi e flussi di capitali, tecnologie, stili e culture del suono. Quali tipi di flussi sociotecnici sono espressi nei processi di cablaggio? Quali tipi di gerarchie e ideologie comportano questo tipo di vettori e relazioni? Tra performer e tecnici, tra parti del set-up e del repertorio? Quali generi di musica e riproduzione sonora sono influenzati o influenzano queste relazioni? A cosa o chi ci legano questi cavi e come?

«Questo rumore… potrebbe essere qualsiasi cosa» – IL CAVO COME MAGIA

C’è stata questa volta… stavo suonando e appena iniziato tutto suonava sbagliato. Non sapevo cosa potesse essere, così ho provato a disconnettere e collegare un paio di cose a caso sulla mia pedaliera. Tutto ha ricominciato a funzionare normalmente. Non si può mai sapere cosa stia veramente accadendo. Avrebbe potuto essere qualsiasi cosa.

Ho visto cose smettere di funzionare per NESSUN MOTIVO nonostante giorni di setup certosino e test due minuti prima. Non c’è salvezza.

Lo studio è una cosa viva. La stessa macchina è viva e intelligente. Inserisco poi la mia mente nella macchina, la trasmetto attraverso i controlli e le manopole, o nel pannello dei cavi. Il pannello è il cervello stesso, lo devi assemblare e far diventare il cervello di un uomo vivo; il cervello riceve ciò che gli stai mandando e vive.

Lee “Scratch” Perry in Roots and Wires

A certe condizioni e senza la possibilità di fare un attento e meticoloso troubleshooting, non si può mai sapere se e che cosa causa un malfunzionamento. Un fallimento materiale nella possibilità di mettere in atto una pratica musicale o quantomeno una mancanza di controllo su quella pratica potrebbe essere determinato da qualsiasi parte del set. Qualunque cavo potrebbe essere rotto. Ciò che mi interessa della magia in questo specifico contesto è la sua connessione con l’occultamento. Come ha scritto Tanya Luhrmann, la magia è segretezza e la segretezza riguarda il controllo. «Si tratta del possesso individuale di conoscenze che gli altri non hanno […] La segretezza eleva il valore della cosa nascosta. Ciò che è nascosto diventa desiderabile e potente.»

I cavi sicuramente non sono un oggetto soprannaturale e di certo non possiedono una conoscenza. Nondimeno sono il prodotto di un sapere specialistico difficilmente diffuso. Il cavo implica nella sua presenza fisica e nei suoi termini di funzionamento un know-how incorporato nelle relazioni che possiamo instaurare con esso. Inoltre, i set dei musicisti underground – spesso in equilibrio precario – implicano un rapporto di fiducia totale, almeno per chi non ha una conoscenza elettrotecnica comunque pressoché inapplicabile in un contesto di performance dal vivo. Come effetto di questa condizione, sia la complessità anche delle più banali tecnologie di consumo che la conoscenza ingegneristica di queste (ritorna a: impianti esoterici) generano discorsi che permettono di rintracciare nel mondano il soprannaturale e il meraviglioso, per quanto sempre avvolti dalla necessaria ironia del quotidiano. Questo ragionamento deve portarci a interrogare quali tipi di narrative, ideologie e mitologie nascono da questa relazione fideistica e dalla complessità tecnologica e conoscenza di questa su vari livelli. Come e a quali condizioni possiamo concepire questa materialità come «magica» o semplicemente, sospettosamente al di là del nostro controllo?

A questo punto conviene forse fare un passo indietro e chiedersi: che farne di tutte le nostre «immaterialissime» idee creative, considerato il peso fisico degli oggetti e dei cavi da cui dipendono? Questi davvero sono un conglomerato dotato di agentività che decide passato, presente e futuro della nostra musica? Ovviamente no. Il cavo non è la musica, anche quando la permette. Una condizione materiale che consente la realizzazione di un’idea o una pratica musicale è un fatto con cui gli artisti si confrontano in continuazione, tramite una serie di scelte strategiche volte a determinare a quali condizioni la propria personale visione della musica può manifestarsi. Pensiamo al nostro amico e al suo cavo rotto. Se si fosse trattato di un violinista classico a cui si fossero spezzate le corde, difficilmente avremmo immaginato lo stesso epilogo. Questo perché un cavo non ci dice abbastanza sul contesto in cui viene utilizzato. Non ci dice nulla delle reti di corrispondenza tra condizioni materiali e immateriali: quanto, in questo caso, un musicista possa – o voglia – tollerare nel caso in cui la propria strumentazione smetta di funzionare, ma anche il tipo di reazione che avrà e l’impatto sul nostro modo di ascoltare l’esibizione.

Qui sta la chiave del ragionamento. Enfatizzare il ruolo dei cavi nella produzione musicale non significa arrivare necessariamente a una provocatoria inversione dei termini, secondo una versione materialista e funzionalista dell’arte. Il punto è un altro e riguarda il modo in cui noi interpretiamo la relazione tra i musicisti – e più in generale gli individui che si cimentano in pratiche creative – e il mondo. La musica, specialmente in contesti informali e urbani come quelli in cui la maggior parte di noi si trova a vivere non è il «banale» risultato di un processo mentale o addirittura «spirituale». Non è il risultato di processi dialettici e teorici tra diverse idee compositive, emozioni e scuole di pensiero; o almeno non solo. La pratica musicale si basa soprattutto sulla mediazione tra le potenzialità espressive e i modi con cui, per diversi soggetti e contesti, certe condizioni materiali possono essere sfruttate. In tal senso, fare musica implica sempre un minimo grado di incertezza e di sperimentazione. Non ultima, l’incertezza che un cavo possa essere rotto.

In tal senso, spero che questo abbozzo di teoria possa svilupparsi in futuro per essere complicato da altre forme di materialità negletta e differenziarsi in base alle sue specifiche caratteristiche. Caratteristiche per le quali al posto del cavo potrebbe tranquillamente esserci una corda, un plettro o una membrana composta di un sacchetto di plastica nei risonatori delle orchestre di xilofoni del Camerun. Ognuno di questi oggetti e pezzi aggiunge profondità a quelle che sono altrimenti delle note circostanziali: plettri e bacchette della batteria vengono lanciate dal palco pronte per essere prese combattendo, imbevute di un qualche straordinario, ovvio valore emozionale. Funzionerebbe lo stesso con un jack?

E che dire dei signature cable di Steve Vai? Potrebbero anche loro essere annoverati nella materialità negletta? Quando questa materialità è solo una parte del tutto, come nei microfoni dei Konono o nei sacchetti di plastica usati nei risonatori, come cambiano le relazioni di occultamento e disinvestimento? E quando la materialità banale non ha nemmeno a che fare con la musica, anche se è probabilmente altrettanto importante per la performance, come ad esempio nel reperimento, sempre alla bell’e meglio, di tavoli e stand per le performance di musica underground? Come questo discorso potrebbe poi estendersi per includere di nuovo gli esseri umani? Quali somiglianze e quali differenze ci sono tra il modo in cui noi nascondiamo e dimentichiamo i cavi e quello con cui percepiamo un roadie che cerca di sistemare la tracolla di un chitarrista, senza farsi troppo notare, mentre questo sta eseguendo uno shred?

Signature cable di Steve Vai dal modico costo di $89.99

Credo che una prospettiva del genere sarebbe importante per riequilibrare il modo in cui gestiamo le nostre esperienze e narrative riguardo la musica che ascoltiamo o produciamo. Questo farebbe ad esempio emergere quanto le differenze e le diseguaglianze in termini di capacità di tempo, lavoro e accesso materiale ad alcune risorse generano un determinato ecosistema musicale fatto di connessioni e disconnessioni, e di come al contempo la nostra musica si situi sempre in questi specifici ecosistemi fatti di synth più o meno costosi, programmi più o meno crackabili e cavi più o meno malfunzionanti. Quando parliamo di musica, il piano artistico e concettuale rappresentano degli stati ideali che non si confrontano mai con le possibilità reali (leggi: materiali) di metterli in pratica. Ma non solo: di definirli, comporli, registrarli, diffonderli e produrli in diversi formati, nonché di eseguirli dal vivo davanti a un pubblico, il quale a sua volta si dovrà confrontare con le sue possibilità di ascoltare la musica prodotta tramite determinati dispositivi. Come tali, queste possibilità situate in specifici contesti materiali devono essere tenute presenti e analizzate per ciò che esse implicano: il «punto zero» da cui parte ogni discorso e pratica musicale. Se i suoni sono figure tracciate in aria grazie a particolari pressurizzazioni, non dobbiamo mai dimenticare che, da qualche parte, c’è sempre una corda che vibra o, talvolta, un cavo rotto.

Luigi Monteanni è un musicista e ricercatore. Attualmente sta conseguendo un dottorato a SOAS tramite una borsa AHRC CHASE studiando l’indigenizzazione del metal a Bandung, Indonesia. Parallelamente, ha co-fondato l’etichetta Artetetra e il duo BABAU, dediti all’esplorazione audio dei concetti di esotismo transglobale e folklore digitale nella tarda globalizzazione.