Nel ventre delle altre

Una riflessione su tecnologia, femminismi e politiche riproduttive a partire da Dead Ringers di Alice Birch

Le tecnologie riproduttive incidono sul corpo delle donne in maniera radicale e decisiva. Il pensiero femminista si è fin da subito interessato del loro potenziale emancipatorio senza, però, tralasciarne le criticità, chiedendosi se, effettivamente, la tecnologia favorisca o assoggetti il corpo delle donne e la loro piena autonomia decisionale. Queste nuove tecnologie hanno rappresentato – e tuttora lo fanno, se ne consideriamo la progressiva evoluzione – una sfida senz’altro non indifferente per l’esperienza delle donne. Esse vanno a recidere il legame tra procreazione e sessualità, manipolano i corpi e li assoggettano a un controllo farmacologico da cui spesso è difficile uscire, consegnano alla medicina il controllo dei processi riproduttivi. La domanda intorno a quale ha ruotato il dibattito dalla seconda metà del Novecento in poi, andando a diversificarsi in relazione ai vari contesti d’uso, è la seguente: le tecnologie della riproduzione sono uno strumento dell’autodeterminazione femminile o dell’espansione di un nuovo patriarcato che si afferma attraverso l’interconnessione di scienza, medicina e mercato? 

Se è vero che, specialmente negli ultimi anni, l’audiovisivo ha inteso efficacemente come intercettare l’agenda politica e culturale del presente, le riflessioni relative al corpo delle donne e a come quest’ultimo venga attraversato, re-immaginato e ridefinito dalla tecnica ne fanno ugualmente parte, costituendone, anzi, parte fondamentale. A questo proposito, pochi prodotti audiovisivi hanno saputo dialogare così bene con ciò che più anima determinate correnti della riflessione femminista sulla relazione tra corpo e tecnica come Dead Ringers, che rappresenta un unicum nel panorama cinematografico e seriale, riportando agli spettatori la realtà di situazioni che le donne abitano quotidianamente. La serie tv reboot di Alice Birch – tratta dall’omonimo film di David Cronenberg – elabora concetti complessi quali autodeterminazione femminile e controllo sul proprio corpo, immaginando, seppure in una cornice horror-distopica, un futuro in cui le donne potranno liberarsi dalla tirannia della procreazione. 

In Metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire, la filosofa Rosi Braidotti sostiene che il soggetto è formato da desideri inconsci e che questi si coniugano con un processo diveniente. Il processo di “divenire donna”, in questo caso, ne ri-configura la soggettività in un percorso di lento distacco da un sistema di codici e strutture che avviene nello sviluppo di un corpo. La teoria e critica femminista circa la nozione di corpo, corpo femminile, queer etc. è ingente e non è questa la sede in cui se ne discuterà; ho ritenuto interessante, tuttavia, partire da Braidotti e dal concetto di “processo diveniente” proprio per capire in che modo, questo divenire-del-corpo-femminile si scontra con il momento in cui la tecnologia ne entra a far parte, “proiettando un nuovo sguardo all’interno del corpo”, come ha scritto Laura Tripaldi in Gender tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne

Con queste tecnologie, dunque, a cambiare è il modo con cui siamo solite guardare il nostro corpo e, specialmente, dentro di esso. Definiscono, al pari dei dispositivi di visione che dalla prima metà del Novecento in poi hanno radicalmente modificato il rapporto uomo-immagine nello spazio, come il Kaiserpanorama berlinese o il Diorama di Louis Daguerre, uno dei nuovi regimi scopici del mondo contemporaneo. I regimi scopici rappresentano ciò che entra in fibrillazione, si modifica e varia, quando i comportamenti che riguardano le immagini, nell’accezione più ampia che si può dare a questo universo fatto di figure, media e pratiche sociali cambiano, proprio per le profonde modificazioni antropologiche che le nuove tecnologie comportano. E il corpo è al centro di questo cambiamento. 

Lo studio del corpo femminile è anche ciò da cui partono le due sorelle ginecologhe protagoniste di Dead Ringers e l’immagine – anche memore della “lezione” dell’omonimo film degli anni Ottanta, dove la corporeità riplasmata, duttile e a tratti mostruosa è il punto d’incontro del percorso esistenziale dei due gemelli – ne restituisce tutta l’urgenza. A partire dalla sequenza iniziale dove la narrazione di un momento in apparenza così idilliaco come la nascita si scontra con un gusto specifico dove a prevalere è la dimensione estetica del disgusto. L’insistenza sul particolare della testa del neonato che esce dalla vulva delle partorienti, insieme alle urla di dolore prolungate delle donne che fanno da colonna sonora a queste programmatiche immagini iniziali, sembrano voler collocare la serie tv in un sottogenere, che è quello del body horror; gli amanti del genere e del suo capostipite rimarranno, tuttavia, delusi, perché la regista Alice Birch ha intenzione di parodizzare l’horror di riferimento, facendone emergere delle figurazioni e immagini, senza farne il perno del suo discorso estetico e narrativo. 

La trama è semplice: due gemelle – antitetiche, come in David Cronenberg – che condividono la vita prenatale in un medesimo utero, una volta adulte, cominciano a investigare sempre di più la ginecologia e tutto ciò che riguarda la riproduzione. L’intenzione è di distaccarsi dal modello di Cronenberg tematizzando diversamente un analogo discorso sul corpo. Nel caso di Birch, il corpo femminile viene guardato a partire dalla lente delle tecnologie della riproduzione, che ne deformano e reinventano l’immagine e l’idea codificate nel tempo. L’idea di fondare una clinica medica adibita alle sole nascite per proteggere le donne dai potenziali rischi cui sono sottoposte negli ospedali, nella prospettiva di una delle due sorelle, Beverly, finisce per scontrarsi con l’ambizione (malsana) smodata dell’altra, Elly, di farne cioè un laboratorio di sperimentazione sul corpo attraverso la tecnica. 

La risposta del pensiero femminista ai nuovi protocolli di visione del corpo è stata varia, partendo dal presupposto fondamentale che se, da un lato hanno permesso alle donne di acquisire sempre maggiore conoscenza sui propri corpi e sulla propria salute riproduttiva, d’altra parte hanno anche contribuito a rafforzare vecchie e nuove forme di oppressione. Il medesimo dualismo interpretativo si può applicare al discorso che riguarda alle cosiddette “tecnologie di genere”, per riprendere l’espressione di Tripaldi, ambigue e oltremodo complesse: agiscono e inter-agiscono con il corpo delle donne in maniera elusiva e nel rispondere a determinate esigenze e rivendicazioni, non nascondono la loro problematicità. Dead Ringers esplora il desiderio di maternità di alcune donne reso impossibile per impedimenti fisico-genetica, oppure l’esigenza di ritardare il proprio orologio biologico, come si evince quando una delle pazienti della clinica chiede a Elly cosa potrebbe succedere se le venisse impiantato il tessuto ovarico di una venticinquenne. La risposta Elly afferma di non averla ancora essendo comunque una delle idee che intende esplorare nel tempo.

Tra le due sorelle si manifesta un cortocircuito non indifferente quando devono affrontare casi di fecondazione assistita o gestazione per altri. Sotto un profilo concettuale, è utile distinguere tra gestazione per altri intesa in senso tradizionale nella quale la donna che partorisce il bambino per un o una committente fornisce anche l’ovocita e quella gestazionale, in cui l’ovocita è fornito dalla donna committente o da una terza donna donatrice, mentre il gamete maschile può essere fornito dall’uomo della coppia committente o da un terzo donatore. Queste distinzioni sono necessarie perché non è più possibile associare, almeno sotto il profilo biologico e genetico, la gravidanza alla maternità, anche se nella legislazione italiana questa distinzione – data per assodata dalla gran parte dell’opinione pubblica – è ancora dibattuta. 

Il contrasto che emerge dalle riflessioni sul tema è tra il diritto alla riproduzione da un lato – specialmente per quanto riguarda coppie omogenitoriali – e la perpetuazione del privilegio di classe ed economico dall’altro. La scena di Dead Ringers che meglio illustra questa contraddizione è la seguente. Elly e Beverly stanno visitando una madre surrogata insieme alla committente che ne ispeziona il lavoro con il fare austero e algido da imprenditrice. Il bambino è podalico, Beverly deve impegnarsi in una delicata manovra di spostamento manuale della testa del feto, esercitando una leggera pressione sul ventre della donna. Prima chiede il permesso alla paziente, rispondono sia la partoriente che la madre committente, anche se il corpo, come sostiene più volte Beverly, è quello della donna sdraiata sul lettino. Non contenta, la madre committente afferma di voler, a distanza molto ravvicinata dal parto prossimo, il quinto bambino, non provando neanche a immaginare gli impedimenti fisici di una richiesta – che suonava più come un’imposizione –  del genere oltre che i rischi per la salute della partoriente. A lei però non importava, perché voleva un altro figlio e lo voleva “comprare” subito. 

A questo, proposito, la critica mossa al capitalismo di aver reso i corpi delle donne partorienti in macchine riproduttive è fin dalla seconda ondata centrale nella speculazione femminista. Ad esempio, in Outcast Mothers and Surrogates: Racism and Reproductive Politics in the Nineties, Angela Davis parla dello stato attuale della maternità che rispecchia, in vari modi, modelli passati di servitù e schiavitù, collegando la maternità surrogata alla schiavitù nel contesto attuale. Discute delle politiche riproduttive del tempo e fa un parallelismo tra la mercificazione delle capacità riproduttive di una serva/schiava (come balie, tate) e la pratica crescente delle capacità riproduttive delle donne appartenenti a minoranze contemporanee per la maternità surrogata. Davis spiega che non solo ci si aspettava che le donne schiave riprodussero frequentemente bambini neri in modo che i loro padroni bianchi potessero venderli come merce, ma anche che le donne schiave facessero da madri per i bambini bianchi del padrone. La madre schiava avrebbe dovuto fare da madre ad altri bambini, invece dei propri, che erano affidati alla cura di altri o venduti a scopo di lucro: lavoro riproduttivo e di cura. Davis nota, quindi, che solo i ricchi e i privilegiati potevano al tempo permettersi di esternalizzare la gravidanza e che ciò ha portato allo sfruttamento dei corpi delle donne appartenenti a minoranze. 

La gestazione per altri era e resta un tema complesso, che va interrogato a fondo, nel rispetto delle esperienze e delle scelte dei singoli e delle singole, senza aver paura di problematizzare e porre delle questioni radicali. L’idea che in Italia e altri paesi del mondo sia una pratica passibile di reato fa venire i brividi soprattutto perché la politica conservatrice ha capito come strumentalizzare il dibattito e portare a proprio favore determinate argomentazioni. Espressioni come “turismo riproduttivo” o “assuefazione culturale” esposte dai programmi delle destre testimoniano di una miopia fondamentalista e reazionaria per cui la politica evita, sostanzialmente, di radicarsi a fondo nel problema, in nome di un mantenimento dello status quo in relazione, soprattutto, alla visione biologico-determinista della famiglia. 

A essere in gioco ci sono questioni che riguardano i diritti riproduttivi e l’autodeterminazione femminile, così come la possibilità di scegliere sul proprio corpo ed esserne padrone. In Oltre la periferia della pelle Silvia Federici mette in luce le premesse classiste e razziste su cui si fonda la gestazione per altri, affermando che, il più delle volte, sono famiglie bianche ossessionate dal corredo genetico, mentre quelle nere e tendono a non avere né i mezzi né la tendenza a rivolgersi a medici e ospedali per paura degli abusi subiti in quei luoghi. L’autrice porta avanti quella che a mio avviso è una delle soluzioni con cui si può provare a sciogliere il dubbio interpretativo che attanaglia i femminismi oggi circa la GPA e le sue conseguenze, affermando che, banalmente, non è trascorso ancora abbastanza tempo per uno studio adeguato sulla surrogacy – proprio per le diverse implicazioni di razza, genere e classe in cui è implicata al giorno d’oggi. Federici, così come si legge da quest’intervista al teorico queer Lorenzo Bernini, vuole dire che la GPA non è una sola pratica, ma tante pratiche che dipendono dalle condizioni e dal sistema sottostante. La filosofa non assume mai posizioni moraliste rispetto al tema, né vuole metterla al bando o auspicarne l’illegalità – o peggio, farne “reato universale” – come gran parte della propaganda di destra, facendo emergere, anzi, le profonde diseguaglianze sociali ed economiche che spesso (non sempre, attenzione!) vanno a “regolamentarne” l’impiego, auspicando un tempo in cui i diritti riproduttivi tanto delle donne quanto delle coppie omogenitoriali possano andare di pari passo con l’eliminazione del privilegio di classe. 

Nell’intersezione tra scienza, tecnologia e maternità, Dead Ringers di Alice Birch raccoglie e conserva molte delle suggestioni messe in campo dal pensiero femminista sulle tecnologie riproduttive, non temendo di restituire allo spettatore posizioni radicali e complesse. Le due gemelle vorrebbero smantellare un sistema sociale, culturale – e medico – che concorre ad alienare le donne dai loro corpi, ma, accettando il patto faustiano della loro benefattrice, rischiano di perpetuare lo status quo, accogliendo la contraddizione del sistema descritta pocanzi. 

La politica identitaria applicata al cinema e alle serie tv – la identity politics, come dicono gli anglofonidiventa controproducente e pericolosa (non c’è più dialettica e a contare è solo il “gruppo” a cui appartieni, il genere, nel nostro caso) eludendo ogni forma di problematizzazione.

Se da un lato ci saremmo aspettati una più radicata presa di coscienza in merito all’eterogeneità dei vissuti cui si decide di dare voce, dall’altro, se applicato soltanto nella forma, il gender swap – cambiamento di genere dei personaggi in reboot, come nel caso di Dead Ringers – perde di significato e rilevanza culturale. In questo senso, in nome di una rappresentatività a priori, la politica identitaria applicata al cinema e alle serie tv – la identity politics, come dicono gli anglofonidiventa controproducente e pericolosa (non c’è più dialettica e a contare è solo il “gruppo” a cui appartieni, il genere, nel nostro caso) eludendo ogni forma di problematizzazione. Se si vuole leggere e interrogare la realtà o un testo – letterario o cinematografico che sia – con quel modo “poliziesco” che lo considera alla stregua di una deposizione, andando a setacciarlo minuziosamente, si rischia di perderne di vista il disegno, la complessità. 

Al contrario, Dead Ringers riadatta non solo la storia da una prospettiva di genere, riscrivendola a partire da tutta una serie di fenomeni che riguardano la contemporaneità, legati, in questo caso, al rapporto tra tecnica e autodeterminazione femminile. Evoca molte questioni che concernono anche razza e classe, attraversando le storie delle pazienti delle gemelle. Una madre surrogata sottomessa alle richieste della madre committente, una famiglia nera catastroficamente ignorata, aborti inspiegabili e parti brutali con il forcipe, bambini nati morti, solo alcuni degli elementi che costituiscono l’interrogativo fondamentale della serie sull’etica delle nascite. La surrogacy imposta da parte dei ricchi senza considerare la salute mentale e fisica della madre committente, il rifiuto del dolore di una donna gravida che ha paura di andare in ospedale tenendosi le contrazioni pre-parto per giorni interi: con queste premesse Alice Birch ci porta ai limiti, facendone uno sfondo denso e stimolante per i drammi personali delle due protagoniste. 

La serie tv si apre con una sequenza abbastanza raccapricciante dove Beverly saluta il minuscolo feto – l’ennesimo, poi capiremo – abortito dal suo corpo. “Oh, ciao”, gli sussurra la donna, abbandonandolo poi nello scarico del water. Beverly non riesce ad avere bambini neanche con l’inseminazione artificiale, nonostante i molteplici tentativi fatti nel corso degli anni, suscitando l’apprensione di sua sorella gemella che decide di coltivare l’ovocita della sorella direttamente in laboratorio, riuscendoci “miracolosamente”. In questo senso, se per Beverly la clinica doveva essere esclusivamente un luogo per preservare le donne e aiutarle in un momento complicato come il parto, senza mai lasciarle sole, Elly, pur condividendo l’impostazione della sorella, tende a guardare più avanti, non temendo di scavallare le leggi imposte dalla scienza e tecnica. 

Le scoperte nel campo della riproduzione assistita e della neonatologia porteranno forse un giorno allo sviluppo completo del feto in un utero artificiale fuori dal grembo materno. Riprodurre la vita senza le donne: a questo ambisce l’indefessa scienziata di Dead Ringers, individuando come creare un vero e proprio utero artificiale dove poter intervenire per correggere o migliorare lo sviluppo del bambino. Ma quali limiti – ancora – una simile pratica ci porterebbe a valicare nel regime neoliberista in cui sembra che tutto (anche la vita!) sia acquistabile? Clonabile? 

Sono domande a cui è difficile rispondere. Questioni che richiederebbero anni di analisi e studi e che non possono essere liquidate in un sistema di opposizioni. L’idea di liberarsi dalla schiavitù del determinismo biologico era stata contemplata, ad esempio, già negli anni Settanta da Shulamit Firestone che, in La dialettica dei sessi guardava piacevolmente a tutti quegli strumenti che avrebbero potuto alleggerire le donne dal peso fisico e psicologico che accompagnano la gestazione e il parto, benché fosse consapevole del bisogno di prevenire eventuali abusi nell’utilizzo di tali tecniche. Gli aspetti più “barbari” e dolorosi della condizione femminile, sosteneva Firestone, rimanevano la gravidanza e il parto, tanto che il fine principale delle tecnologie riproduttive in questo progetto di liberazione avrebbe dovuto essere quello di risparmiare alle donne l’una e l’altro, dimenticandosi però di considerare il tema del controllo della tecnica da parte degli uomini. 

Il progresso della scienza e della tecnica andrebbe visto, dunque, alla luce della loro fondamentale influenza sui cambiamenti sociopolitici. La tecnologia non è uno strumento neutro – e di questo Firestone era perfettamente consapevole – ma è iscritto in un sistema di interconnessioni di razza, genere e classe. “Tra tecnologia e rapporti sociali” scrive Helen Hester in Xenofemminismo, “c’è una relazione complessa, mutualistica, dinamica e basata su un dialogo costante. I cambiamenti in un campo influiscono sull’evoluzione dell’altro, che a sua volta retroagisce con ulteriori sviluppi, in un processo di co-costituzione reciproca. La tecnologia è sociale quanto la società è tecnica”. La tecnologia definisce e re-immagina la società e la cultura potendo ridefinire (anche) le riconfigurazioni del materno

Partendo dalle considerazioni sulla possibilità per le donne di liberarsi dall’agonia della gravidanza, possiamo ben capire quanto fosse allettante per Elly la prospettiva scientifica di un distacco radicale dall’utero naturale per far nascere un bambino. Nonostante la sua scelta si collochi in un quadro ben preciso dove, in realtà, a scatenarla erano stati motivi dettati da gelosia nei confronti della sorella, questo dettaglio di trama ci fa comunque interrogare su una questione fondamentale, allargando l’orizzonte strettamente narrativo a uno etico-morale più profondo. 

Secondo Firestone, per concludere, se la gravidanza e il parto erano dolorosi, rischiosi e pieni di ostacoli per i corpi che ne facevano esperienze, soltanto le nuove tecnologie riproduttive (anche quelle che favorivano l’ectogenesi) potevano “porre fine al corpo fecondabile”: ma gli umani, si chiede giustamente Angela Balzano, “accetterebbero la loro riproduzione nel caso in cui la gestante fosse una biobag e non una donna”?