Caos, automa e transumano

La divergenza tra intelligenza e coscienza è il carattere saliente della nostra epoca. Ecco perché quelle transumaniste non sono solo fantasie, ma l’altra faccia dell’imminente demenza disumana

Due progetti pan-logici aleggiano sulla storia della modernità, quello ricombinante di Leibniz e quello storicista di Hegel: in Leibniz l’armonia è prestabilita secondo un principio generativo computazionale, mentre in Hegel la realizzazione dello Spirito assoluto è resa possibile dalla sintesi dei conflitti storici.

Lo storicismo hegeliano vede il mondo come processo di realizzazione storica di una finalità, mentre il combinazionismo leibniziano vede il mondo  come l’implementazione di un programma originario scritto nella mente del dio computazionale. Nella tarda modernità il progetto storicista e pan-logico di Hegel è fallito, e giace in pezzi nel panorama del secolo postmoderno. Ma all’intersezione di biotecnologia e intelligenza artificiale l’utopia transumana emerge con la potenza logico-prescrittiva del dio ricombinante della computazione che Leibniz aveva immaginato. «Le finalità sono scomparse, ora sono i modelli che ci generano», scriveva Baudrillard in Lo scambio simbolico e la morte.

Il caos e l’automa

Quando parliamo della potenza delle nuove tecnologie che stanno convergendo verso la costruzione dell’automa cognitivo, dobbiamo ricordare che l’applicazione sociale di questa intelligenza si effettua nel contesto di una dilagante psicosi che si manifesta come demenza identitaria.

Intelligenza artificiale e demenza sociale sono i due attori della scena imminente. L’intelligenza dell’inorganico che innerva il sociale attraverso una rete di automatismi tecno-linguistici, è incorporata nella demenza dell’organismo sociale separato dalla coscienza. Il caos è il contesto in cui l’automa prende forma.

Per capire il senso dell’utopia transumanista che emerge dalle ceneri dell’umanesimo dobbiamo considerare le linee generali della catastrofe attuale della ragione critica, che Yuval Noah Harari descrive in Homo Deus. Breve storia del futuro come dissociazione tra intelligenza e coscienza.

L’artificio intelligente e l’umano in questione

In un sorprendente articolo pubblicato dalla rivista The Atlantic Henry Kissinger scrive: «Quale può essere l’impatto dell’autoapprendimento delle macchine, macchine che acquistano conoscenza da processi interni e applicano questa conoscenza a finalità inconoscibili alla comprensione umana? Una crescente quantità dell’attività umana sarà svolta da algoritmi, in un periodo di tempo misurabile. Ma questi algoritmi, essendo interpretazioni matematiche di dati osservabili, non spiegano la realtà che li genera. Paradossalmente, mentre il mondo diviene più trasparente, al tempo stesso diviene sempre più misterioso. Come potremo gestire l’Intelligenza artificiale, come potremo migliorarla o almeno evitare che faccia dei danni, fino alla preoccupazione più spaventosa: che l’IA, padroneggiando competenze più rapidamente e definitivamente che gli esseri umani possa nel tempo ridurre la competenza umana e la stessa condizione umana che viene ridotta a meri dati…».

E in Homo Deus Yuval Harari scrive: «Le nuove tecnologie del XXI secolo potrebbero cancellare la rivoluzione umanista, togliere agli umani la loro autorità, e dare potere invece ad algoritmi non umani. Le scienze biologiche hanno concluso che gli organismi vanno considerati come algoritmi».

Parto da qui per riflettere sulla transizione postumana che stiamo vivendo: la dimensione antropologica che abbiamo identificato come «umana» durante l’epoca moderna si sta dissolvendo per effetto dell’esplosione tecnica, ma anche per effetto dell’esplosione psichica che ha portato l’inconscio sulla scena visibile del sociale mediatizzato.

Se intendiamo l’umanesimo come indeterminatezza (o libertà ontologica) dell’agire umano, allora la separazione dell’intelligenza dalla coscienza coincide con la dissoluzione della dimensione umanistica dell’umano. Questa dissoluzione apre scenari diversi, che possono svilupparsi in simultaneità.

Disumano e transumano

L’ideologia del transumanesimo nasconde la duplicità della prospettiva attuale: una prospettiva appare come caotica e demente, l’altra appare come il regno della pura razionalità fatta algoritmo.

Quando la società, sottoposta a un’accelerazione semiotica deterritorializzante, diviene incapace di comprendere la complessità e di governarla, allora perde la capacità di comprensione critica e si identifica come «popolo», per potersi aggrappare a qualcosa di riconoscibile (seppur fittizio, ingannevole, inesistente): la nazione, la razza.

Contemporaneamente in una sfera separata ma interagente, giuntura dopo giuntura e connessione dopo connessione, si costruisce l’automa.

Quando Adorno affermò che non si può più scrivere poesia dopo Auschwitz, voleva dire che dopo Auschwitz l’umanità è finita. La mia generazione non se ne volle dare per intesa, e pensò, volle, sperò che l’umano si potesse riaffermare: fu questo il Sessantotto, un movimento per emancipare la storia dal nazismo. Ma fu un’illusione, perché il nazismo non è stato solo lo scatenarsi della follia, ma anche la razionalissima risposta del capitalismo contro l’egualitarismo.

Gli storici hanno cercato di spiegarsi perché negli anni Trenta del Novecento la borghesia industriale e finanziaria avesse accettato di venire a patti con Hitler, aprendogli la strada. Oggi dovremmo meravigliarci perché la classe capitalista globale invita a Davos Jair Bolsonaro, il torturatore?

La continuità tra darwinismo economico del capitalismo neoliberale e darwinismo razzista dei nazional-socialisti è ormai evidente. Disumano e transumano sono le due facce del mostro che prende forma dopo la fine dell’umanità (cui stiamo assistendo).

Divergenza di intelligenza e coscienza

Sebbene non sia possibile una definizione esaustiva del concetto di «umano», parto ancora una volta da una suggestione di Yuval Harari (nella terza parte di Homo Deus): nella storia dell’umanità intelligenza e coscienza sono sempre andate insieme. La convergenza di intelligenza e coscienza è un elemento essenziale (forse l’elemento essenziale) della storia «umana» nell’orizzonte dell’umanesimo moderno. Ma quella convergenza è finita: la divergenza tra intelligenza e coscienza è il carattere saliente della nostra epoca.

Scrive Harari: «Nel passato c’erano molte cose che solo gli umani potevano fare. Oggi invece robot e computer stanno per superare gli umani in molti compiti…. e gli umani si trovano nel pericolo di perdere il loro valore economico perché l’intelligenza si sta separando dalla coscienza. Fino ad oggi l’alta intelligenza andava insieme a una coscienza sviluppata. Solo esseri coscienti potevano svolgere compiti che richiedevano molta intelligenza come giocare a scacchi, guidare un’auto, diagnosticare malattie e identificare terroristi».

La separazione dell’intelligenza dalla coscienza emerge qui come carattere essenziale del progetto transumano, che però coincide, almeno in questo, con la realtà (in costante espansione) del disumano. Il disumano è l’esercizio dell’intelligenza contro la coscienza: «Ci possono essere molte strade che conducono alla super-intelligenza, ma solo alcune di queste passano attraverso il canale della coscienza. Per milioni di anni l’evoluzione organica ha lentamente veleggiato insieme alla via della coscienza, ma ora l’evoluzione dei computer inorganici può progredire senza passare quegli stretti canali, seguendo una rotta molta più veloce verso la super-intelligenza».

Qui Harari tocca un punto essenziale (nel quale sta racchiuso insieme il nucleo concettuale del nazismo e del transumanismo): l’efficienza dell’azione intelligente è esaltata e accelerata dall’evacuazione della coscienza. Il progetto transumanista si fonda sulla premessa che la tecnologia renderà possibile una perfetta simulazione della vita intelligente, ma questo è vero solo la vita intelligente è svincolata dalla coscienza, residuo ed eccesso, lentezza e inesattezza.

Nell’economia come nella guerra l’intelligenza è obbligatoria, mentre la coscienza non è solo superflua, ma controproducente. Quanto meno limitata dalla coscienza, tanto più l’intelligenza può perseguire uno scopo automatico, in quanto si sottrae alla critica cosciente e al carattere ambiguo della sensibilità.

Esperienza e computazione

In che senso stiamo usando la parola «intelligenza» e la parola «coscienza»?

Chiamo intelligenza la capacità di fare scelte e di prendere decisioni tra alternative decidibili. Chiamo coscienza invece la capacità di compiere scelte e di decidere tra alternative indecidibili. L’intelligenza richiede capacità di computazione, combinazione e ricombinazione di elementi discreti, mentre la coscienza agisce nella dimensione del continuum esperienziale esercitando il giudizio, ovvero la decisione infondata (priva di verifica finita) che è propria della sfera della sensibilità (etica ed estetica).

Mi rendo conto del fatto che la mia risposta è piuttosto sbrigativa, e occorre approfondire l’argomento. Per farlo risaliremo alle implicazioni del discorso leibniziano sulla computazione, alla distinzione tra discreto e continuum nella trasmissione di informazione, e nell’evoluzione della vita intesa come trasmissione di informazione nel tempo. Chiameremo «discreto» ciò che si può tradurre in un’informazione finita, chiameremo «continuum» il flusso dell’esperienza che non si può ridurre a informazione perché è essenzialmente sensibilità, registrazione delle infinite gradazioni del divenire, cioè autopercezione dell’organismo.

Cogito e sensibilità

Intelligenza e coscienza sono due modalità diverse di espressione del sé. Ma dove si rintraccia la «seità», la percezione di sé?

A partire da Descartes il razionalismo ha fondato il sé sul «cogito», sulla intellezione: è stato probabilmente il suo errore fondamentale. La ragione infatti è proiezione di una misura, riduzione del mondo a ciò che è misurabile in termini discreti. Questa riduzione della ragione all’intelletto misurante sta all’origine del disastro tardomoderno della ragione (come avevano intuito Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo).

Descartes trova la prova certa dell’esistenza dell’io nell’incontrovertibile esistenza del ragionamento. Ma forse sarebbe più utile e soprattutto più comprensivo fondare la certezza dell’esistere nella sensibilità. Io sento dunque sono, questo è ciò che ogni essere sensibile e cosciente è in grado di affermare. Ma l’autopercezione non ha carattere logico, né misurabile, né riducibile a unità minime discrete. L’autopercezione infatti si dà entro la sfera dell’infinitamente divisibile, ovvero alla sfera del continuum. L’esistenza non corrisponde affatto alla ragione, e solo la sensibilità ci permette di integrare l’intellezione col giudizio (etico ma in ultima analisi estetico).

Discreto e continuum

In quanto ammette l’infinita divisione in atto del continuo fisico, Leibniz è consapevole della doppia modalità della materia nel tempo: «La materia non è un continuo, ma un discreto diviso in atto all’infinito». (Leibniz, lettera a De Volder).

E ancora: «Io considero sostanze corporee soltanto le macchine della natura che hanno delle anime o qualcosa di analogo, altrimenti non ci sarà affatto vera unità». L’anima di cui parla Leibniz è il continuo esperienziale, che conferisce unità a entità discrete, la soluzione infinita dell’esperire in continuum le unità discrete di tempo e di materia. Quella che Leibniz chiama «anima» è la coscienza, cioè la percezione del continuum, l’esperienza di un flusso che si svolge nel tempo, o che piuttosto svolge il tempo, proiettandolo come oggettivazione della temporalità.

La continuità (e l’unità) di un aggregato di stati discreti è intensiva, in quanto è proiezione della coscienza temporale del divenire. L’estensione ricava la sua coerenza e la sua continuità dal carattere intensivo dell’esperienza nel tempo. Scrive Carlo Rovelli in L’ordine del tempo: «La teoria (quantistica) non descrive come evolvono le cose nel tempo. La teoria descrive come evolvono le cose le une rispetto alle altre».

Tempo e temporalità  

Fin da Zenone con la sua tartaruga, il problema della infinita divisibilità della materia (e del tempo) è decisivo. Per definire il rapporto tra intelligenza e coscienza diciamo che l’intelligenza è capacità di riconoscere un aggregato come combinazione di unità discrete (calcolare un’estensione temporale in termini di unità discrete di oggettivazione del tempo). Coscienza invece è la capacità di esperire il carattere continuo della materia (e della temporalità).

Bergson scrive: «non si può parlare di una realtà che dura senza introdurvi la coscienza… il matematico non se ne occuperà perché giustamente si interessa alla misura delle cose e non alla loro natura…. la durata è essenzialmente una continuazione di ciò che non è più in ciò che è».

L’attività mentale umana è indissociabile dalla percezione del tempo, cioè dal subconscio della decomposizione, dal subconscio della morte come divenire-altro dell’organismo cosciente. Possiamo dunque definire la coscienza come implicazione cognitiva della morte, l’incomputabile. Bergson ci ha insegnato a distinguere tra tempo computazionale, oggettivato negli orologi e nelle merci, e temporalità vissuta, durata irriducibile a computazione. Del tempo computazionale si occupano la matematica e l’economia, ma la società vive nel tempo incomputabile dell’essere per la morte. E di questa si occupano l’etica e l’estetica.

Il transumanesimo è l’ideologia che sovrappone il computabile all’esistenza, per questo è un inganno filosofico e politico. È l’altra faccia della demenza disumana.

Qua deve iniziare una nuova riflessione sull’estinguersi. Per introdurla cito ancora Carlo Rovelli: «La paura della morte mi sembra un errore dell’evoluzione: molti animali hanno un’istintiva reazione di terrore e fuga se si avvicina un predatore. È reazione sana, permette loro di scampare pericoli. Ma la selezione ha generato questi scimmioni spelacchiati con lobi frontali ipertrofici dall’esagerata capacità di prevedere il futuro. Prerogativa che certo aiuta, ma che ha messo noi scimmioni davanti alla visione della morte inevitabile; e questo accende l’istinto di terrore e fuga dai predatori. Insomma penso che la paura della morte sia un’accidentale e sciocca interferenza fra due pressioni evolutive indipendenti, un prodotto di cattive connessioni automatiche nel nostro cervello, non qualcosa che abbia per noi utilità o senso». E infine conclude: «Tutto ha durata limitata. Anche la razza umana».