Memificare il reale

Solo perché sei paranoico non significa che non ti stiano addosso

So bene che gli psicologi hanno inventato un brutto vocabolo greco per indicare la tendenza a vedere analogie dovunque, ma questo non mi spaventa, perché so che dovunque ci sono rassomiglianze, dal momento che dovunque tutto è in tutto.

A. Strindberg, Inferno 

Ho accolto le immagini dell’«invasione» di Capitol Hill con una sorta di paralisi emotiva. Non riuscivo, letteralmente, a credere ai miei occhi. Prima che potesse intervenire una qualche forma di filtro interpretativo, ho ceduto, lo confesso, a un’insensata, idiota forma di euforia. Era come assistere a una performance dadaista. Lo schermo trasudava irrealtà.  

Se è vero che negli ultimi anni la memificazione dell’attualità è diventata la modalità prediletta di elaborazione informazionale (quantomeno di un certo spaccato generazionale) in questo caso sembrava che la componente memetica o visuale precedesse l’attualità stessa. Ogni frame era un delizioso, perverso ready made.  

Sintomaticamente, è proprio un meme a «svolgere» fino in fondo le implicazioni di questa spiccata qualità visiva. Nel meme in questione, postato della pagina Facebook Fake Baudrillard Post-Post Posting, vediamo lo sciamano Jake Angeli e i suoi sodali posare sullo sfondo di un green screen – come se la scena della loro irruzione fosse stata realizzata in uno studio cinematografico. 

In effetti, la sensazione d’irrealtà che permea queste immagini forse non deriva tanto dalla loro vistosa gratuità o insensatezza, quanto dal fatto che, sotto sotto, suggeriscono la realizzazione di uno script minuziosamente premeditato. Se infatti, al di fuori della suggestione memetica, è illogico dubitare che l’«assalto» abbia realmente avuto luogo, è invece piuttosto sensato chiedersi quanto effettivamente sia stato lo sbrocco irriflesso ed esibizionista di n idioti, e non il tassello di un più ampio schema propagandistico. 

Non è un caso sia stata proprio una pagina di meme dedicata a Baudrillard a cogliere questa sfumatura – Baudrillard infatti è stato forse il più noto pensatore del XX secolo a indagare la relazione segnica fra realtà e simulacro. Seguendo le sue intuizioni potremmo ribaltare la domanda e chiederci non tanto se quelle immagini siano reali o meno, ma se ci sia piuttosto un’effettiva realtà che le precede. 

Se definissimo, provvisoriamente, la realtà come esperienza (dunque in ultima istanza informazione) condivisa, ci renderemmo ben presto conto che l’esperienza del reale dei Qanonisti riversatisi nei corridoi del Campidoglio è ben lontana da quella comunemente accettata. 

Nelle prime pagine del breve testo che porta l’ominoso titolo The Evil Demon of Images, Baudrillard scrive

Vorrei innanzitutto evocare la natura perversa della relazione fra l’immagine e il suo referente, l’ipotetico reale; sulla virtuale e irreversibile confusione fra la sfera delle immagini e la sfera della realtà, la cui natura siamo sempre meno in grado di afferrare. […] Più di ogni altra cosa deve essere messo in dubbio il principio di referenza delle immagini – questa strategia grazie alla quale sembrano […] riprodurre qualcosa di logicamente e cronologicamente a loro anteriore. Nulla di tutto questo è vero. In quanto simulacri, le immagini precedono il reale al punto da invertire l’ordine causale e logico del reale e della sua riproduzione. 

In effetti l’invasione di Capitol Hill sembra produrre (attualizzare) una realtà che, prima di essere performata, esisteva e proliferava esclusivamente sotto forma di immagini e simulacri. 

Come si legge in un dettagliato articolo su Valigia Blu, i progetti per un’irruzione al Congresso circolavano online da settimane – noi abbiamo semplicemente assistito alla loro manifestazione nella «vita reale». Leonardo Bianchi, autore dell’articolo, nota che

In effetti, è come se al Congresso statunitense si fossero materializzati […] molti meme della destra americana nati negli anni della presidenza Trump. Tra questi spiccavano le bandiere del Kekistan, le maschere di Pepe The Frog e i simboli di QAnon.

La frattura nel consenso mediatico, emersa con virulenza alcuni anni fa in seno al dibattito su fake news e post-verità, è ora in piena fase di escalation. La narrativa e l’iconografia complottista, fermentate negli oscuri recessi di internet per anni, infine si riversano nel «mondo reale» con l’effetto, in ultima istanza, di infettarlo, parassitarlo, portandoci a mettere in dubbio l’esistenza stessa dell’«allucinazione consensuale condivisa» che è stata per anni la nostra realtà di riferimento. 

Di fronte a una realtà sempre più complessa e inestricabile, «la cui natura siamo sempre meno in grado di afferrare» QAnon è stato in grado di sovrapporvi una griglia narrativa che collega a-dialetticamente, senza fratture o opposizioni, infinite micronarrative anche fra loro contrastanti, creando un metaverso minuziosamente dettagliato, in cui ogni cosa è perfettamente collegata, colmando così quelle lacune cognitive/informazionali che precipitano chiunque le esperisca nell’angoscia dell’Unsicherheit

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L’architettura delle teorie di QAnon, fatte di intricati bivi e diramazioni, non poteva che risultare isomorfa all’ambiente in cui è fiorita, ossia l’ipertesto (iperimmagine?) virtuale di thread, subthread, link e meme di 4chan, 8chan, Reddit e Facebook (per menzionare solo gli aggregatori più noti). Come sottolinea Tommaso Guariento in un lungo e dettagliato articolo, esistono numerose affinità fra le dinamiche del metaverso e quelle dei vari social media, come luoghi di cattura dell’attenzione e di investimento pulsionale secondo dinamiche che stimolano l’articolazione idiosincratica del proprio piccolo tassello della metanarrativa. Q fornisce una griglia interpretativa – e poi, come in un gioco, ogni singolo accolito inizia a connettere i pezzi di una trama che diviene ogni giorno più estesa e delirante. Una volta che si inizia a vedere connessioni ovunque è impossibile fermarsi. Le dinamiche dopaminiche innescate dalla vera e propria quest di indizi e connessioni, e le modalità d’assuefazione-compulsione intrinseche ai media in cui questa si svolge fanno il resto. 

Le interrelazioni fra ecosistema mediatico ed esperienza del «reale» sono anche al centro di una preziosa serie di riflessioni riportata su Substack, la cui tesi di partenza è che siano proprio le lacune che hanno infestato il nostro modo di pensare a questi due domini a generare una diffusa incertezza circa l’attribuzione di realtà. La vita online non deve essere intesa come un «luogo» circoscritto, e dunque nettamente divisibile dalla «realtà», ma come una modalità di esperienza in cui i vari dispositivi e ambienti operano come mediazioni dell’esperienza. 

Parlare della sfera digitale come di un luogo o come uno spazio è parte del problema. Gli strumenti digitali non creano spazi nel senso comune della parola, piuttosto, mediano relazioni… Mi sembra che se si pensa all’«online» come a un luogo, diventi poi più semplice immaginare che questo luogo sia in qualche modo separato dal cosiddetto mondo reale – ora sei qui, ora sei là. Tuttavia, se invece pensiamo a relazioni digitalizzate, questa tendenza sembra perdere verosimiglianza. Il punto è capire la natura di queste relazioni. 

Queste «relazioni digitalizzate» informano in definitiva ogni ambito esperienziale – l’autopercezione del singolo, la sua concezione del mondo, la loro reciprocità e così via. È inevitabile che le specifiche degli ambienti in cui queste relazioni si generano vengano riverberate nella loro stessa elaborazione. È così che si innesca e cristallizza il circuito di retroazione fra le teorie-finzioni complottiste e la loro emersione nel «reale». Il reale di Q deve essere vissuto esattamente come se fosse virtuale, ricalcandone le specificità diegetiche e visuali

Perché infatti se la caratteristica più evidente delle teorie-finzioni di QAnon è appunto narrativa, serpeggia tuttavia nei vari canali infestati da Qanonisti, una dimensione che potremmo definire a pieno titolo iconografica. Le corrispondenze apofeniche di simboli e significati sono racchiuse in un’infinita serie di accostamenti di frame e fotografie in cui le corrispondenze e le somiglianze si moltiplicano in una mise en abîme di eco in cui la «realtà» che si suppone descrivano viene, invece, prodotta.  

Side Quest – La regina e deepfake 

Alcuni giorni prima degli avvenimenti di Capitol Hill, precisamente il giorno di Natale, su Channel 4, è andato in onda il consueto discorso natalizio della regina. 

Elisabetta II, con galanteria regale, ringrazia Channel 4 dell’opportunità datale di dire quello che voleva, senza che nessuno le mettesse le parole in bocca. Fast-forward. Minuto 2:11. Sua Maestà dichiara che durante le vacanze, quando non si dedicava a «Netflix and Phil, as I like to call it», ha passato il tempo a perfezionare le sue mosse per Tik Tok. Mosse che poi esibisce per la delizia del pubblico in una demenziale danza sulla scrivania, impreziosita da un tripudio di coriandoli e Union Jacks

Il video è ovviamente un falso, realizzato con la tecnologia deepfake dalla stessa Channel 4, con l’intenzione di sollevare negli spettatori consapevolezza circa la pericolosità di questa tecnologia. Tuttavia, la notizia non ha avuto grande risonanza e, come i discorsi circa le insidie di deepfake che qualche anno fa infestavano numerose testate online, è ora destinata all’oblio.

Come evidenzia un articolo su Cybernews, il generale senso di anticlimax che serpeggia nel discorso su deepfake rischia tuttavia di esponenziarne la pericolosità. È esemplare, in questo senso, un caso risalente al luglio scorso. Oliver Taylor, ricercatore e autore di numerosi articoli per giornali online, (menzionati fra gli altri, dal Jerusalem Post), accusa esplicitamente una coppia di attivisti palestinesi di essere simpatizzanti del terrorismo. Segue una serie di ricerche sulla veridicità delle accuse che, infine, attraverso digressioni e deviazioni porta a svelare l’inesistenza di Taylor. Taylor è infatti una persona puramente virtuale, fatta di immagini generate dall’IA e credenziali fittizie, metodicamente disseminate in rete. Ad ora non è stato possibile scoprire chi (o cosa) l’abbia creato.  

È vero, ci vorranno anni prima che un deepfake diventi indiscernibile dalla «realtà» (benché già il video della regina sia di una verosimiglianza grafica inquietante), tuttavia, come dimostra l’esempio di Taylor, l’unione di immagini e dati finzionali è già perfettamente in grado di produrre effetti più che reali. 

Oltre a una serie di utilizzi più eclatanti e altamente problematici dei deepfake (esisteva un intero subreddit dedicato alla realizzazione di filmati pornografici con volti di attrici e, cosa ancora più inquietante, di conoscenti o ex fidanzate), l’articolo di Cybernews evidenzia la possibilità di servirsi di queste stesse tecnologie in maniera più sottile, e dunque più pericolosa. E in un’ecologia mediale sempre più improntata all’accesso da remoto, la possibilità di replicare volti e voci con sempre maggiore precisione, può avere una serie di conseguenze potenzialmente infinita. 

Ciò che permette di accostare la mitologia-metodologia di QAnon e deepfake è da un lato la centralità di una componente iconografica (che nel primo caso produce finzioni virtuali poi attualizzate, nel secondo invece risulta da un’alterazione della realtà che poi produce finzioni), dall’altro una fusione iconografico-narrativa che ibrida finzione e realtà, erodendo progressivamente la sottile membrana che le distingue. L’effetto è quello dunque di produrre una nebulosa e indefinibile situazione di intermedietà simulata. Se tutto questo (per ora) non è in grado di «modificare» la nostra complessiva esperienza percettiva, ha senza dubbio un’influenza profonda sulla nostra dimensione cognitiva. 

La vista nella cultura occidentale ha sempre occupato un ruolo di preminenza rispetto agli altri sensi, in particolare grazie alla sua capacità di veicolare e produrre conoscenza. Con l’avvento della fotografia prima e delle tecnologie digitali poi, la circolazione e la consumazione di immagini è diventata elemento fondante della nostra esperienza/esistenza quotidiana. E questo è un aspetto centrale nel fiorente ambito dei visual studies, tanto che Nicholas Mirzoeff, critico culturale e curatore del volume The Visual Culture Reader, sostiene che la cultura visuale «non è solo parte della nostra vita quotidiana, è la nostra vita quotidiana». La cultura visuale, inoltre, non dipende esclusivamente dalle semplici immagini «ma dalla tendenza moderna a raffigurare o visualizzare l’esperienza». Questa dimensione iconografica insomma non è solo oggetto della conoscenza, ma anche una sua modalità intrinseca. In un’infosfera sempre più satura in cui la velocità delle informazioni è proporzionalmente inversa al tempo a nostra disposizione, le immagini diventano insomma il nucleo del processo di elaborazione della realtà. Tuttavia, Mirzoeff rimarca come la dimensione visuale non eclissi altre modalità cognitive, delle quali invece diventa un mezzo – «la visualizzazione non si sostituisce al discorso linguistico, ma lo rende più comprensibile, più veloce ed efficace» (corsivo mio). Se come già si è visto nel caso delle «relazioni digitalizzate» l’economia intrinseca dell’ambiente attraverso cui si sviluppano lascia un segno indelebile su quelle stesse relazioni, c’è da chiedersi se questa dimensione iconografica che è divenuta a tutti gli effetti mediatrice cognitiva non possa a sua volta proiettare le proprie caratteristiche nelle narrative (siano esse giornalistiche, finzionali, individuali, politiche…) che contribuisce a delineare. Queste caratteristiche e la loro innegabile «efficacia» deriverebbero, secondo  W.J.T. Mitchell da una dimensione «totemica» delle immagini – dalla loro tendenza a intensificare, catalizzare e produrre affetti secondo modalità tendenzialmente escluse dalla riflessione sul pensiero razionale umano (e dunque potenzialmente in grado di radicarsi molto più in profondità nella nostra psiche) come la «coscienza sensuale, la mera reattività e forme indistinte di memoria e desiderio». 

Ora, queste dinamiche si innestano precisamente alla fonte della nostra processazione del mondo, articolata incrementalmente attraverso relazioni e narrazioni digitalizzate e visualizzate. Nel contesto dell’attuale pandemia le cui conseguenti restrizioni limitano drasticamente la possibilità di un’esperienza diretta, la questione posta dalla digitalizzazione e dalla possibilità di interpolarne sempre più precisamente il tessuto diventa particolarmente urgente. Le modalità del virtuale già ora si riverberano negli effetti concreti che sono in grado di produrre, a loro volta re-inseriti in una narrazione digitalizzata che informa e «deflette» la nostra cognizione. Resta da chiedersi, dunque, quali saranno le inevitabili conseguenze per la nostra già incrinata definizione di «realtà».  

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Noi siamo morti, voi siete morti 

Il funzionamento di base del macchinario finzionale-cospirativo opera secondo un criterio elementare, non troppo dissimile da quello utilizzato nella profilazione nei social media – estrapolare un dato, indipendentemente dalla realtà empirica che lo produce; investire sul dato, dissezionarlo e connetterlo ad altri dati secondo un criterio di pura analogia; creare una zona di risonanza da cui estrapolare ulteriori dati, e così via, in un moto asintotico di complessificazione. 

Proprio questo funzionamento è al centro di un editoriale sulla Boston Review che, in tempi non sospetti, collega Social Media, finzioni paranoidi e Pizza Gate (snodo finzionale poi assorbito nel Qniverso). 

Nell’articolo leggiamo:

I telefoni e vari dispositivi domestici producono una scia di dati […] che segnalano i nostri desideri e i nostri comportamenti ad aziende come Facebook, Amazon e Google. Tuttavia, l’informazione prodotta in questo modo è imperfetta e viene elaborata da algoritmi di machine-learning che possono a loro volta commettere errori. […] Sta diventando via via più difficile persino per queste aziende distinguere le tendenze che vogliono analizzare dalle loro stesse manipolazioni. […] Le utopie e le distopie per come le conosciamo sono entrambe perfette a modo loro. Noi viviamo in un posto più inquietante, un mondo in cui la tecnologia si sta sviluppando in modi che rendono sempre più difficile distinguere gli esseri umani dai prodotti artificiali […] 

Insomma, predizione e analisi collassano l’una sull’altra generando modelli ibridi e problematici in cui la virtualità diventa indiscernibile dall’attualità. La finzione si sovrappone al reale, creando un’ecologia informazionale nebulosa che alimenta l’incertezza e concima il limaccioso fondo esperienziale in cui la certezza viene sostituita dalla compulsiva ricerca di analogie. 

La tesi dell’articolo è senza dubbio affascinante, tuttavia le problematiche prese in esame vengono inserite in una discussione dalle tinte pericolosamente ontologiche. Il confronto, centrale nel testo, fra la nostra esistenza ibrida e la «realtà» di Philip Dick, per quanto efficace, non sembra cogliere il punto. Se nei romanzi di Dick diversi piani di realtà si mescolano, in definitiva questo mélange porta a dubitare della stessa «realtà» di partenza, per elidere, infine, ogni possibilità di un Grund ontologico stabile. Il disvelamento è seguito inevitabilmente da un ulteriore disvelamento e così via, all’infinito.  

La questione dunque, più che su un piano ontologico-metafisico andrebbe posta su un piano procedurale-metodologico. Infatti, come evidenzia il lungo e dettagliato articolo di Reed Berkowitz, «A Game Designer’s Analysis of QAnon» (già menzionato nel testo di Guariento), Q, anziché proporre una narrativa definitiva, che può dunque essere accettata o rifiutata, opera più subdolamente – insinua il germe del dubbio e indica le tracce da seguire per venirne a capo, lasciando che siano i singoli utenti a sviluppare la propria storia, sfruttando a pieno le dinamiche di digitalizzazione e visualizzazione già menzionate. In questo modo le idee paiono autogene, e dunque si radicano ancora più a fondo nella nostra psiche. È un’operazione letteralmente virale – le idee di Q, come un virus, penetrano un organismo e ne riprogrammano le cellule per produrre altro virus. 

L’articolo elabora inoltre un efficace parallelo fra la diegesi videoludica e la metodologia finzionale di Q, che operano, in definitiva, secondo gli stessi criteri: si fornisce una cornice narrativa coesa che implica un inizio e una fine, intervallate da un processo di scoperta, reso possibile dalle connessioni che intercorrono fra gli elementi disseminati nel corso del gioco. Il processo, tuttavia, non è privo di problematiche. Un intero paragrafo del testo è infatti dedicato ai suoi esiti indesiderati. Capita infatti in molti casi che l’assunzione preliminare di una significanza intrinseca agli elementi del mondo vissuto porti alla sovracodificazione di elementi casuali o insignificanti. Il meccanismo insomma cova l’intrinseca possibilità dello sviluppo dell’apofenia – la tendenza a rintracciare parallelismi e congiunzioni anche laddove non ve ne sono. Un affascinante articolo comparso sulla rivista scientifica Configurations nel 2008, che porta l’evocativo titolo di «On  Sourcery», evidenzia la stessa problematica. Nella programmazione videoludica è fondamentale evitare la presenza di coincidenze, perché la presupposizione di significanza che si proietta nel mondo virtuale (proprio per la sua cornice narrativa) rischia di produrre un effetto collaterale di sovracodificazione. 

…tutti i manuali di [game] design sconsigliano l’utilizzo di coincidenze e di mappature casuali dal momento che possono indurre gli utenti alla paranoia. In sostanza, dato che un’interfaccia è programmata, la maggior parte degli utenti considera le coincidenze come significanti. Per l’utente, come per i paranoici schizofrenici, c’è sempre significato…

Questa stessa modalità-problematica, viene trasposta da Q nella sua narrativa che si sovrappone al «reale», con l’unica differenza che la ricerca di coincidenze e l’attribuzione di significato vengono incentivate. È così che una semplice serie di immagini che ritraggono celebrità o personalità politiche nell’atto di congiungere pollice e indice di una mano può diventare prova della loro collusione in una trama di congiure occulte e demoniache (? = 666).

Non si tratta, ad ogni modo, di patologizzare o delegittimare l’aderenza a questi schemi, piuttosto di dimostrare come questi siano una risposta estremamente efficace all’angoscia di un’esistenza sempre più precaria, e di come, inoltre, sappiano diffondersi viralmente secondo le stesse caratteristiche dell’ambiente in cui prolificano. La mitologia complottistica in ultima istanza risponde a delle precise esigenze cognitivo-affettive. 

Raffaele Alberto Ventura, sulle defunte pagine di Prismo, in occasione dell’insediamento di Macron, che sembrava pullulare di simboli esoterici volti a confermare le paranoie complottiste, scriveva che «il miglior modo di rendere inefficace l’opposizione è quella di consegnarla ai matti». Nella sua lettura, la conferma dell’esistenza di una cospirazione è funzionale a rafforzare la narrazione che il potere ha su di sé, al fine di arginare una sempre più ampia frattura nel consenso. In questo modo, l’appropriazione dell’iconografia complottista darebbe al pubblico ciò che vuole, offrendogli così «una rassicurante simulazione totalitaria in cui giocare alla rivoluzione».

I limiti di questo discorso, dopo i fatti di Capitol Hill, diventano evidenti. Forse è ancora un gioco, il problema è che stanno iniziando a giocare nel «mondo reale».

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In primo luogo, la riduzione della ratio complottista a semplice discorso da e per «matti» rifiuta a priori di considerare i meccanismi di produzione semiologica/iconografica di quel discorso (secondo lo stesso schema applicato nella discussione della virtualità), in nome di criteri oggi più fragili che mai come il buon senso o la razionalità scientifica. La recente emersione delle narrazioni di Q nel «mondo reale» ci dimostra come il funzionamento del metaverso e della metanarrativa di riferimento sia ben più complesso della semplice invenzione consolatoria. Come già evidenziava l’articolo di Berkowitz, questa in realtà opera secondo una precisa e raffinata metodologia che inibisce la ricusazione aprioristica proprio perché è in grado di inglobare al proprio interno anche narrazioni contrastanti. In secondo luogo, proprio perché risponde a esigenze pragmatiche (propagandistiche) e si organizza secondo criteri di efficacia pratica, fa sì che sia proprio l’opposizione a incespicare in discorsi ontologico-metafisici con tutte le insidie che questi comportano. Se queste narrazioni, a discapito della loro origine finzionale, riescono a produrre un’effettiva realtà, che si consolida e intensifica in un circuito a retroazione positiva, a questo punto secondo quali criteri è possibile negare loro la condizione di verità? Una difesa condotta in nome di una vaga razionalità comune, finirà inevitabilmente a perdersi o nella ricerca di un garante trascendente o nel ricorso al metodo scientifico. Tuttavia, sempre Berkowitz nota come in tale ambito sia decisamente difficile e problematico dimostrare come qualcosa non possa essere. La razionalità e il metodo scientifico, proprio per i loro criteri intrinseci, sono troppo complessi e problematici/problematizzabili per essere accettati senza essere inseriti in una narrazione in grado di essere più efficacemente recepita. E qui si torna al punto di partenza. Come già avvenuto nel caso delle fake news, il passaggio all’inversione dell’onere della prova è dietro l’angolo. 

E ancora, il rifiuto in blocco dei codici e della metodologia Qanonista può avere esiti ancora più problematici: se si fonda la propria opposizione solo sugli indefiniti confini della razionalità condivisa, o sull’intricata metodologia scientifica double-blind peer-reviewed, niente vieta che, per coerenza, si finisca a declassare pre-criticamente qualsiasi relazione verosimile ma non dimostrabile. Certo, per ora può ancora funzionare nel caso di idee oggettivamente sconclusionate al di là di ogni grazia di Dio (come la reclusione di bambini sotto terra da parte del Partito Democratico al fine di estrarre adrenocromo dai loro corpi), ma seguendo questa traiettoria una verosimile conseguenza è la stigmatizzazione di qualsiasi idea scientificamente «inaccettabile». 

È difficile negare che il Qniverso, le vicende di Capitol Hill, la loro relazione con il suprematismo bianco rispondano a qualche esigenza propagandistico-politica; che ci sia, se non un disegno quantomeno un interesse nella creazione di questa pervasiva indeterminatezza, dalla sua intersezione a un’ecologia mediale labirintica in cui i confini fra realtà e finzione sono progressivamente erosi. Però, come provarlo? Non è che senza accorgermene ho iniziato a delirare?

Solo perché sei paranoico non significa che non ti stiano addosso

E lo ammetto, mentre la materia di questo articolo si assemblava, l’inquietante sensazione di aver varcato una qualche soglia non mi ha mai abbandonato. Scrollando centinaia di thread pseudonimi, relazioni iconografiche occulte e genealogie finzionali l’impressione di essere precipitato nel paranoico mondo descritto dalla CCRU era sempre più forte. Un mondo in cui «i “fatti” sono creazioni e le “persone” sono maschere». Un mondo in cui entità anonime e imperscrutabili si rincorrono nel dedalo della rete esacerbando la propria guerra fino a farla esplodere nell’erosione del «reale». 

In effetti c’è un’eminente assenza. Il concetto di iperstizione (operazione semiotica che collassa la linearità temporale di causa ed effetto mediante un’intensificazione delle coincidenze che rendono reali quantità finzionali, innescando retroattivamente la loro origine) è forse la più precisa definizione di queste dinamiche, eppure ho deliberatamente (?) deciso di ignorarlo, forse proprio nel tentativo di schermarmi da un’apofenia che nella stesura di queste righe mi sembrava incrementalmente contagiosa. Forse, sono inconsciamente ricaduto nell’impasse metodologica della negazione e in effetti il dubbio che queste connessioni restino nebulose se non direttamente deliranti è in definitiva ineliminabile.

Al di là delle suggestioni letterarie, una questione rimane. Una questione identificata con precisione e concisione nell’articolo menzionato in apertura. Le modalità di esistenza online, l’iconografia virtuale, la reciproca influenza fra una ecologia virtuale e una attuale sono tutte particelle che derivano da un’unica molecola: la digitalizzazione della nostra esperienza. In definitiva l’incomunicabilità fra dimensione complottista e dimensione «razionale» affonda le proprie radici proprio nella mancata elaborazione di un più ampio discorso circa l’ecologia digitalizzata e le sue conseguenze, che, da un lato, sono state abbracciate (deliberatamente o meno) per incanalarne la potenza di manifestazione mitologico-figurativa; dall’altro rigettate aprioristicamente come giochino da scemi privo di qualsiasi pertinenza con il reale. Per citare, ancora una volta, l’articolo di Substack:

Se da un lato ritengo sia controproducente sostenere che la digitalizzazione generi fenomeni irreali o intenderla come una serie di attività in qualche modo separate dal cosiddetto «mondo reale», dall’altro è significativo il fatto che ci serviamo di questo linguaggio. Questa scelta suggerisce sia una mancanza di categorie ben definite per descrivere la digitalizzazione, sia, di conseguenza, la nostra incapacità di integrare le conseguenze della digitalizzazione nel modo in cui pensiamo al mondo. 

Lo abbiamo visto, questa impasse cognitivo-categoriale genera mostri, e sarebbe a dir poco naïf pensare che si tratterà di un caso isolato. 

Le tendenze qui prese in esame (di certo non senza mancanze) sono tasselli di un’ecologia labirintica e stratificata di cui solo ora iniziamo a intravedere la portata. Ciò che è certo è che l’influenza dell’ecosistema mediatico sulla costruzione narratologica e iconografica del reale e la crescente precisione, efficacia e accessibilità di tecnologie di manipolazione della materia di cui questa realtà è costituita sono due vettori la cui intersezione sembra ormai inevitabile. Non resta allora che iniziare a riflettere su come affrontarne le conseguenze. 

…la realtà ha ceduto in più punti.

Quel ch’è certo, è che anelava di cedere. 

J.L. Borges, Tlön, Uqbar, Orbis Tertius