Marx, il leone Cecil e la solidarietà ai non-umani

Oltre la compassione, oltre l’empatia

Pubblichiamo un estratto da Humankind, il nuovo libro di Timothy Morton pubblicato all’interno della collana Not di NERO.

Il 1° luglio del 2015 un dentista americano, Walter Palmer, sparò a un leone, Cecil, che viveva in Zimbabwe. Il popolo di Facebook insorse. La Germania e il Gabon presentarono all’ONU una risoluzione per proibire le attività di bracconaggio e il traffico illegale di animali selvatici. L’indirizzo di casa del dentista venne diffuso online. Divenne vittima di stalking, fu umiliato, insultato sullo schermo e nella vita reale. Ora, mettendo per un attimo da parte le riflessioni sul sempre più diffuso moralismo da flash mob, che può scagliarsi in qualsiasi momento su chiunque, come gli uccelli di Hitchcock (del resto, si chiama Twitter non a caso…), consideriamo la grandezza e il raggio d’azione della folla, le sue emozioni. Niente di lontanamente simile era accaduto nei giorni di «Save the Whale», nella seconda metà degli anni Settanta. La folla stava effettivamente provando empatia – non mera pietà condiscendente o un’eccessiva e sterile preoccupazione – genuina o meno, poco importa. L’empatia, in effetti, si accompagnava a una forma di azione – di nuovo, buona o cattiva, necessaria o meno… è irrilevante. Cosa certa è che, negli anni Settanta, Greenpeace si mise all’azione e la sua nave Rainbow Warrior intercettò le baleniere. Ma nel 2015 milioni di persone si sono scagliate contro una specifica persona a difesa di uno specifico leone, un gigantesco flash mob con le fattezze della Rainbow Warrior.

Il ministro del Turismo dello Zambia, Jean Kapata, lamentò che l’Occidente sembrava preoccuparsi più per un leone che per la sorte del popolo africano: «Qui in Africa un essere umano è più importante di un animale. Non so come stanno le cose in Occidente». L’implicazione era chiara: «la reazione è stata spropositata». È doveroso osservare che l’atteggiamento della folla eludeva la complessa e difficile situazione del popolo africano e che rispecchiava il fugace riflesso della società dello spettacolo dimentica dei veri problemi; dimostrava una volta di più che spesso il razzismo si abbatte sugli umani e risparmia i non-umani – Hitler amava il suo cane Blondi e i nazisti promulgarono una legge per i diritti animali. Identificarsi con un leone non implica identificarsi con un essere umano.

Ma è davvero così? Esistono innumerevoli ragioni per tralasciare questa identificazione, non solo perché sembra deliberatamente razzista, ma perché è anche infantile. La ragion cinica va alla ricerca di motivazioni aggressive nascoste tra quelle mosse dall’entusiasmo o, in alternativa, di motivazioni che aggressive non lo sono abbastanza. Probabilmente
siamo di fronte a un buon esempio di identificazione umana con quella che è ironicamente definita la «megafauna carismatica», che compone solo una piccola parte delle forme di vita esistenti sul pianeta. Queste argomentazioni sono spesso addotte per suscitare vergogna o sensi di colpa nell’individuo in rapporto a come lo vedono gli altri esseri umani.

Minimizzare l’incidente di Cecil sarebbe troppo facile: ad animare quella folla c’era molto più che una semplice difesa dei diritti animali o una sadica compassione. I diritti si esercitano sulla proprietà, e proprietà significa che «puoi disporre di qualcosa come vuoi», esattamente ciò che il dentista ha fatto una volta che il leone è stato designato (per fiat di un essere umano, ovviamente) come qualcosa di cui si può disporre a proprio piacimento. La pietà è condiscendente, proprio come spiegava William Blake: «La Pietà non ci sarebbe più / Se non rendessimo povero qualcuno». La compassione è sempre una relazione di potere e lo stesso vale per l’empatia, che ha sempre a che fare con l’identificazione.

Il punto non è comprendere qualcuno o provare a mettersi nei suoi panni. Il punto è che non dev’essere richiesto alcuno sforzo per farlo; ogni volta che si compie uno sforzo, la solidarietà comincia a vacillare.

Ci si può domandare se questa «ingenua» rivolta preteoretica, il suo spettacolare fallimento, con tutta la sua sintomatologia, non sia stata un implicito rifiuto, per citare i Situazionisti, di farsi «una vacanza nell’infelicità degli altri», siano essi umani oppure leoni. È stato raggiunto il punto massimo di «stupidità», e non tanto perché non si sia tenuto conto degli umani (africani), ma perché non è stato colto né il nesso tra battute di caccia e turismo né il fatto che lo spettacolo generato da questa combinazione tiene in vita uno status quo di oppressione perenne.
Ma l’empatia non è così a caro prezzo come pensiamo. Non sono un genio nella lampada che si chiede come uscirne per cominciare ad agire su stati del mondo che non riguardano me; il pensiero non esaurisce l’essere né costituisce una modalità d’accesso preferenziale: abbiamo cercato l’empatia nel posto sbagliato. In un posto antropocentrico. Probabilmente identificarsi con un leone è più semplice di quanto pensassimo. Wittgenstein, con le sue verità lapalissiane sulla lingua dei leoni (non potremmo mai comprenderne uno, anche qualora parlasse) finisce, ci si perdoni la metafora, per prendere un granchio. Il punto non è comprendere qualcuno o provare a mettersi nei suoi panni. Il punto è che non dev’essere richiesto alcuno sforzo per farlo; ogni volta che si compie uno sforzo, la solidarietà comincia a vacillare.

Secondo la teoria di Adam Smith, l’identificazione estetica (come quella che si prova leggendo un romanzo) è una palestra per esercitare la nostra capacità di immedesimazione e l’empatia è la base dell’etica. Identificarsi con un personaggio di finzione evoca il fantasma rinnegato dal realismo letterario – lo spettro della telepatia – per il quale chiedersi di chi siano i sentimenti e le emozioni con i quali mi ero sintonizzato diventa irrilevante e i confini fra me e qualcun altro risultano meno rigidi di quanto il pensiero occidentale avesse supposto. Come sarebbe possibile esercitare la telepatia (la passione a distanza) se non fossimo già in un campo energetico di connessione, il reale simbiotico e il suo brusio di fondo, la solidarietà? Le passioni del comunismo si depositano in uno strato inferiore rispetto a quello entro cui risiede l’empatia, sono più a buon mercato e meno rare. Bisognerà calarsi attraverso lo strato empatico della sovrastruttura capitalista per trovare qualcosa di ancor più fondamentale dell’empatia. Colpo di scena dialettico: le persone oggi si sono così impoverite che la loro prossimità con i non-umani comincia a mostrarsi sullo schermo della Natura, un costrutto che sin dal 10.000 a.C. è stato la sostanza malleabile delle proiezioni umane – o, nella sua versione moderna, quello schermo su cui gli esseri umani proiettano i loro desideri. Almeno una parte di umani è pronta ad abbandonare i concetti di Natura e a esprimere solidarietà con le altre entità che costituiscono la biosfera.

Il 2015 è stato l’anno in cui una gran parte della popolazione umana ha realizzato di avere più cose in comune con un leone che con un dentista.
Il fatto che la solidarietà tra umano e leone sia stata raggiunta tramite la consapevolezza delle disgrazie altrui potrebbe portarci a non accettarla, ma non molto diverso è quello che succede tra essere umano ed essere umano. La causa di tutto questo è l’antropocentrismo. Marx ha osservato come i lavoratori siano equiparati a esseri non umani e definisce questo fenomeno «umiliazione»: «Quando l’uomo, invece d’agire col suo strumento sull’oggetto del lavoro, non agisce oramai che quale forza motrice d’una macchina utensile, il fatto che la forza motrice si presenti sotto forma di muscoli umani diviene del tutto occasionale, potendola sostituire il vento, l’acqua, il vapore».

Il modo in cui Marx descrive la produzione umana in passaggi come questo è ostacolo alla possibilità di dar conto dei non-umani all’interno del marxismo. Accogliere il non-umano all’interno del capitalismo equivale a essere defraudati della propria unicità di esseri umani. Un essere umano è ridotto a suoi muscoli, e i suoi muscoli a ingranaggi sostituibili, un movimento semplicemente estensionale. Si consideri l’analisi della capacità, tipica del capitalismo vittoriano, di gestire minuziosamente l’organizzazione dello spazio minimo necessario a vivere e respirare, dalla quale Marx può trarre le seguenti conclusioni:

[Il capitale] usurpa il tempo indispensabile al corpo per la crescita, per lo sviluppo e per la sua sana conservazione. Ruba il tempo di cui non si può fare a meno per respirare l’aria libera e per la luce del sole. Lesina sul tempo dei pasti e, dove può, lo incorpora nello stesso processo produttivo, in maniera che all’operaio viene dato il cibo come a un semplice mezzo di produzione, come si dà carbone alla caldaia a vapore, come si dà sego e olio alle macchine. Esso riduce il sonno, necessario per mantenere, rinnovare, rinfrescare le forze vitali, a un certo numero di ore di torpore indispensabili per ridare vita a un organismo totalmente esausto […] Quel che gli sta esclusivamente a cuore è il massimo di forza lavorativa che può rendere fluida in una giornata di lavoro. Raggiunge il suo scopo accorciando la durata della forza lavorativa, al pari di un avido agricoltore che ottiene dalla sua terra una rendita maggiore rapinandone la fertilità. […] Non produce solo il deperimento della forza lavorativa dell’uomo […] produce anche l’esaurimento e il precoce spegnersi della forza lavorativa stessa.

La macabra frase finale rafforza la sensazione di trovarsi davanti a una versione di riduzionismo scientifico, brutale e realistico. Marx riassume la prima fase di primitivo accumulo del capitale in una frase arguta che tratta allo stesso modo capitale e non-umani: «Prima furono buttati fuori dalle terre gli operai, e appresso vennero introdotte le pecore».

L’unica entità non umana che Marx non pone su un livello inferiore è il capitale stesso. L’aspetto inquietante del feticismo delle merci è che non richiede una forma di credenza (umana); è completamente automatizzato. Ciò che inquieta del «segreto» del capitale non è quanto sia nascosto, già Adam Smith avrebbe potuto sostenere che il lavoro produce valore. Quello che inquieta è che questo segreto stia sulla sua superficie: si tratta del segreto della forma sociale stessa. I teorici dell’economia politica di estrazione borghese sono accecati dalla loro fascinazione per il concetto. L’intelletto diviene irrilevante e, ancor peggio, è, tra le modalità d’accesso al reale, quella privilegiata, dato che Marx eredita una linea di pensiero che si può far risalire a Kant. Essendo l’intelletto la facoltà peculiare dell’essere umano, si svalutano modalità d’accesso tipiche del non-umano (azioni come sfregare, galleggiare, leccare…). L’aspetto inquietante del feticismo delle merci è il suo autonomo potere. C’è dunque qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel conferire potere ai non-umani. Si tratta di un difetto accidentale o di una caratteristica essenziale?

Sostenibilità è il termine chiave, e proprio come Goebbels metteva mano alla pistola quando sentiva nominare la parola cultura, io metto mano alla crema solare quando sento pronunciare la parola sostenibilità.

Neoliberismo e consapevolezza planetaria

La riduzione dell’umano al non-umano e del non-umano al brutale indica però una possibile via d’uscita. Un’ontologia (una logica del modo in cui le cose esistono) che non riduca l’umano al non-umano – che prevenga quindi l’amaro che rimane in bocca quando si è paragonati al vento o all’acqua – contravverrebbe alla logica implicita del capitalismo, con quel suo brusio ontologico che evoca precisamente il riduzionismo materialista.

A partire dall’Earth Summit dell’ONU (Rio de Janeiro, 13-22 giugno 1992), un fatto che ha particolarmente fomentato la destra fascista statunitense è stata la sua opposizione alla solidarietà con i non-umani. Possiamo trarre molte conclusioni da questo fatto. L’annuncio di George Bush padre di un Nuovo Ordine Mondiale post-sovietico suonava senz’altro sinistro, e altrettanto faceva l’interpretazione fascista di quell’annuncio. Ciò che colpisce è proprio quanto i fascisti siano espliciti a tal proposito. Fondono l’immagine di un Nuovo Ordine Mondiale dell’amministrazione Bush con l’Agenda 21, che stabiliva un patto non vincolante firmato dai 168 partecipanti all’Earth Summit, per teorizzare una «cospirazione bancaria globale» che mescola antisemitismo e ostilità per le forme di vita non-umane. 

La prima sezione dell’Agenda 21 alza un po’ la voce sulla riduzione della povertà e sulla necessità di cambiare i nostri stili di consumo, sul contenimento dell’esplosione demografica e su accordi futuri da stipulare in modo ecologicamente «sostenibile». La seconda sezione introduce il concetto di biodiversità. La terza delinea il modo in cui si sono raggruppati i paesi coinvolti nel programma dell’Agenda 21. La quarta si sofferma sulle possibili applicazioni. Sostenibilità è il termine chiave, e proprio come Goebbels metteva mano alla pistola quando sentiva nominare la parola cultura, io metto mano alla crema solare quando sento pronunciare la parola sostenibilità. Sostenibilità è un termine ancora più vacuo di cultura e i due termini spesso finiscono per sovrapporsi. A essere sostenuta è, ovviamente, la struttura neoliberista e capitalista dell’economia mondiale. Non proprio una buona notizia per umani, coralli, uccelli kiwi o licheni. Tutto ciò dà origine a un’agenda politica ed economica esplosivamente olistica. I singoli individui non hanno importanza: ciò che importa è la totalità che li trascende. 

Abbiamo bisogno di una nuova forma di olismo per pensare in scala planetaria, che non si accontenti di aggiornare o ritwittare il trito meme della teologia dell’era agricola, un meme che finisce per giustificare l’esistenza di un confine tra umano e non-umano. Il fascismo è una reazione atavica alla realtà di questo opprimente fallimento, il tentativo di sostituire il nuovo dio con un’antica divinità frutto della fantasia, «Making America Great Again». La fusione tra il fascismo tipico dell’immaginario dell’Agenda 21 e gli esiti del Nuovo Ordine Mondiale diventa, come in una triangolazione geometrica, l’immagine virtuale di una cospirazione internazionale bancaria (ebraica). Il sovrapporsi di concezioni antisemite e di un’immagine positiva di una «comunità internazionale» biosferica esplosivamente olistica compensa il vuoto lasciato dalla vera consapevolezza ecologica, così come nel meccanismo di difesa dello schizofrenico le allucinazioni paranoidi tentano di compensare il vuoto lasciato da un’ansia estrema. Il reale simbiotico è necessariamente lacero e butterato.

C’è un’ulteriore conclusione da trarre e potrebbe suonare controintuitiva; abbiamo certamente ascoltato argomentazioni apparentemente più intuitive di recente. Sembra che il razzismo si fondi sullo specismo. Tuttavia, Humankind sostiene che le cose stanno esattamente al contrario: è lo specismo a basarsi sul razzismo. Le violente distinzioni a grana fine tra chi è da considerarsi umano e chi no generano una «valle perturbante» (Uncanny Valley, un termine che proviene dalla robotica) in cui il non-umano (i delfini, per esempio, o R2D2) è nettamente differenziato dall’umano: separato da un abisso incolmabile. Se si guarda oltre questo abisso, ai cosiddetti non-umani, è come se cessasse di esistere.

Ma, lungi dall’essere un confine rigido e netto che potrebbe anche non esistere, la zona perturbante è un antro scivoloso come una fossa comune, stipata di esseri reietti. Il fatto che l’estrema destra basi lo specismo sul razzismo, fondendo la paranoia a riguardo della biodiversità con l’antisemitismo, non dovrebbe sfuggire alla sinistra. La lotta contro il razzismo diventa così un campo di battaglia per le politiche ecologiche. Il «razzismo ambientale» non è solo una tattica per arrecare danni ai poveri attraverso una violenza diffusa. L’ambientalismo, di per sé, può finire per coincidere con il razzismo, quando distingue rigidamente tra umani e non-umani. Pensare il genere umano da un punto di vista non antropocentrico significa pensarlo al di là di ogni razzismo.

A questo scopo, ci approprieremo del concetto heideggeriano di mondo e lo modificheremo. Avere un mondo non deve significare per forza vivere sotto una campana di vetro, isolati dagli altri. Il mondo non deve essere un oggetto speciale costruito dagli esseri umani, men che meno da quel popolo tedesco che per Heidegger era il miglior candidato alla costruzione di mondi. Neutralizzeremo Heidegger dall’interno. Il punto non è che non esiste qualcosa come un mondo, ma che il mondo è sempre necessariamente qualcosa di incompleto. I mondi sono sempre a buon mercato, fatto che deriva da quella interconnessione non esplosivamente olistica che è il reale simbiotico e da quello che la OOO definisce il «ritrarsi dell’oggetto», la verità per cui nessuna modalità di accesso all’oggetto potrà mai esaurirlo. «Ritrarsi» non significa accorciarsi o nascondersi da un punto di vista empirico; significa – motivo per cui talvolta uso «aprirsi» piuttosto che «ritrarsi» – essere così tanto sotto al vostro naso che non riuscite a vederlo

Tutto ciò che ha esistenza possiede un mondo lacero e «zoppicante»: puoi raggiungere piuttosto facilmente la zampa di un leone attraverso la tua cortina sfilacciata, e il leone può fare lo stesso. Un gufo è un gufo, e se ce ne prendiamo cura non è per il fatto che si tratta di un esemplare di una specie in via d’estinzione; non lo facciamo perché pensiamo sia un mattone nel solido muro del mondo, abbiamo semplicemente bisogno di prendercene cura, di giocarci. Ci fornisce una valida ragione che ci spinge a prenderci cura l’uno dell’altro, a prescindere da chi l’altro sia, nonché delle altre forme di vita. Ci fornisce un motivo per dire, da sinistra, che abbiamo delle cose in comune. Che siamo humankind.