Mark Fell, 64 Beautiful Phase Violations

Dalla miniera al rave

Conversazione con Mark Fell, fondatore degli Snd, pioniere dell’estetica glitch, ed eminenza grigia di vent’anni di sperimentazioni elettroniche

Mark Fell è un’eminenza grigia della musica elettronica sperimentale britannica: attivo dalla fine degli anni Novanta con gli Snd – insieme al sodale Mat Steel – ha velocemente calamitato una certa attenzione internazionale anche grazie alla collaborazione con un della etichette chiave dell’epoca, la tedesca Mille Plateaux. Dopo aver attraversato incolume l’inclusione in una varietà di definizioni – dal «glitch» alla «rave deconstruction» – porta avanti un originale ripensamento delle musiche della tradizione house in solitaria o in collaborazioni con personaggi come Errorsmith, DJ Sprinkles, Pita e Gábor Lázár, tra gli  altri. Con il progetto Sensate Focus si è riavvicinato al primigenio amore per la pista da ballo, ma resta attivo anche in ambiti installativi e performativi: in occasione della settima edizione della Live Art Weeks di Bologna, porta in Italia il nuovo progetto INTRA basato su strumenti percussivi progettati dal compositore Iannis Xenakis. Parliamo con Mark di house, di Martin Heidegger e del fare la spesa lasciando lo smartphone a casa.

Mark Fell

Com’è cominciata la tua storia con la musica?
Ho iniziato ad amarla nei primi anni delle superiori: intorno al 1980. Era di moda il synth pop, band come Soft Cell o Human League e per un teenager la musica era fondamentale: bisognava «schierarsi» con un genere o con l’altro. Una situazione tribale. Tutti guardavano Top of the Pops in TV: il giorno seguente alla messa in onda ci si perdeva in lunghe disquisizioni su chi era piaciuto e chi aveva fatto schifo. È stata la mia iniziazione, visto che i miei genitori erano poco interessati alla musica. Intorno al 1980, dicevamo, esplose il pop elettronico e me ne innamorai mentre cresceva in me una forma di consapevolezza politica, l’interesse per il cinema e per la letteratura. Sono cresciuto in una comunità di minatori annientata dalle politiche della Thatcher. Hai presente il lavoro di Jeremy Deller The Battle of Orgreave (2001)?

Sì, quello in cui l’artista ha messo in scena, come una rievocazione storica, lo scontro tra minatori e forze dell’ordine seguite a uno sciopero nel 1984.
Esatto, vengo dal villaggio più vicino. Il mio amore per la musica sbocciava in quel clima. Nel 1982 acquistai una drum machine, poi un piccolo sintetizzatore. Potevi trovarli per due soldi. Adesso un synth analogico può costarti una fortuna, ma all’epoca era considerata robaccia.

Era il periodo in cui andavano di moda i sintetizzatori digitali giapponesi.
Esatto. La mia vita era fatta di musica: ascoltare, cercare, comprare dischi. Una fatica.

Ti rifornivi a Sheffield o andavi a Londra?
Sheffield, anche se capitava ogni tanto di fare un salto a Londra. C’erano fiere con roba rara e un negozio di libri e dischi usati spesso interessanti. Durante gli anni Ottanta vennero fuori house e techno e ne fui immediatamente catturato. Provai anche a produrre in quello stile, ma la tecnica era ancora penosa e i risultati terribili.

Pensi al synth pop come a un precursore diretto della house, o meglio le persone che seguivano il primo si adattarono velocemente ai nuovi suoni? Ci fu un cambiamento delle priorità? Sai, dagli esclusivi circoli dandistici post-Bowie all’edonismo sotterraneo più «casual»…
Sì, c’è stato uno slittamento delle priorità, ma il synth pop è stato un precursore della house e della scena da club: nascevano a Chicago e Detroit, ma il pubblico europeo era preparato a quello che stava arrivando dagli Stati Uniti. Anche formazioni industrial come Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire erano sempre state molto attente alla musica da ballo. La transizione fu piuttosto indolore: «Oh, questa roba è interessante!». Può suonare semplicistico, ma c’è sempre stato un dialogo tra il mondo musicale nordamericano e quello europeo. Prima della house vera e propria, c’era l’hi-NRG. Anche, l’electro e l’hip hop – ad esempio – erano in relazione con i Kraftwerk. La house e la techno ebbero effetti più dirompenti in Europa che nei paesi dove sono nate. Quello era il mio mondo: continuai a fare pessima musica per dieci anni, circa.

Mark Fell e Mat Steel (ovvero gli Snd) in una Boiler Room del 2013

Andavi molto per club?
Sì, ma a dirla tutta già dal 1988 o 1989 restavo fermo ai lati della pista ad ascoltare. Non ho mai fatto uso di droghe. Ho avuto un periodo un po’ più festaiolo e selvaggio poco prima, ma è durato poco. Sono sempre stato un osservatore più che un partecipante. Mi ero reso conto che volevo fare qualcosa con quei suoni, qualcosa di strano, ma non capivo come. La risposta arrivò intorno al 1995 o giù di lì. C’erano molti artisti che si facevano domande simili in quegli anni: i Pan Sonic, la Mego, Wolfgang Voigt (coi progetti Mike Ink e GAS), Basic Channel, Thomas Brinkmann… Perlopiù in area tedesca: stranirono la house in modo originale, con semplicità.   

In quegli anni studiavi cinema, giusto?
Allo Sheffield City Polytechnic. I politecnici erano le università con lo status più basso. Erano pensati per individui che non si prospettavano carriere accademiche. L’insegnamento era concentrato sul lato pratico. Erano spesso fucine di radicalità e finirono per essere, spesso, le migliori scuole d’arte del Regno Unito. A Sheffield era fantastico: un gruppo di ragazzi folli che seguivano corsi di cinema, video, suono, performance.

Pensi che il cinema strutturalista abbia influito sulla fase successiva della tua carriera musicale?
Ho fatto la scuola d’arte tra il 1989 e il 1992. Esattamente in concomitanza con l’esplosione della house in Inghilterra: passò dall’essere un fenomeno marginale a qualcosa di molto vicino al mainstream. È stato un mix di cose. M’interessava il graphic design, ad esempio, ma non volevo diventare un designer. Desideravo impadronirmi di quelle tecniche per produrre qualcosa di diverso. Il cinema strutturalista, in particolare è stato molto importante: Peter Gidal, teorico e praticante del cinema strutturalista-materialista fu un’influenza enorme. Il punto era: come applicare quell’influenza alla dance?

Prima hai parlato di Germania e uno dei miei pallini è il modo in cui quella nazione ha accolto velocemente la musica dance come materiale con un potenziale politico in modo esplicito e programmatico. Naturalmente esistevano scene contemporanee che possiamo definire implicitamente politiche come la costellazione rave in Gran Bretagna o altrove, ma è interessante il fatto che in area germanica la dance sia stata assorbita così velocemente come trampolino per discorsi teorici e politici.
La techno tedesca è emersa precocemente e aveva un’identità unica. Credo che gran parte dell’infrastruttura della scena derivasse dalla generazione precedente, dalla scena industrial. Le etichette avevano legami con quel mondo e credo che la loro agenda fosse di presentare la techno all’interno di un contesto politico e teorico. La Force Inc., ad esempio, è stata fondata da Achim Szepanski che è tuttora attivo come filosofo e attivista.

Dal primo album degli Snd, 1998.

Quando sono nati gli Snd?
Mat Steel veniva a scuola con me. La mia migliore amica era una raver: eravamo gli unici due nell’istituto. Conobbe questo tipo che seguiva un corso di gioielleria, appassionato di Derrick May. Iniziarono a frequentarsi e me lo presentò. Intorno al 1991 pensammo che fare musica assieme sarebbe stata una buona idea. Il risultato fu disastroso: le tracce erano davvero terribili. Ci riprovammo cinque anni dopo: «Mat, prendiamo seriamente questo progetto». Avevamo quest’estetica focalizzata su strutture ritmiche semplici, accordi gradevoli e poco altro. Non ci aspettavamo alcun tipo di risposta: il suono non era particolarmente urticante, né seducente. Era questa roba a metà strada che, incredibilmente, ottenne un certo successo. Il primo disco, autoprodotto, andò fuori stampa in pochi giorni.

Di quante copie parliamo?
350. Avevamo attaccato sul retro del disco un adesivo con il numero fisso dell’appartamento che Mat aveva in affitto. Il primo a chiamare fu Thomas Brinkmann.

Davvero?
Sì, e Mat mi fece: «Oh mio dio, ci ha appena chiamato Brinkmann!». M’innervosii enormemente. Qualcosa come una settimana dopo, Achim Szepanski chiamò per proporci se volevamo fare un album su Mille Plateaux (l’altra etichetta che gestiva). Acconsentimmo, ovviamente, e ci portò a un altro livello. Arrivarono inviti per live e tutto il resto. È stato un momento davvero speciale, ma in realtà i pubblici erano piuttosto ristretti, suonavamo davanti a quindici o venti persone.

Snd, dall’album Atavism del 2009

La vostra musica fu inquadrata nel sottogenere della musica elettronica battezzato «glitch» per sottolineare le potenzialità creative del caso, dell’errore delle macchine e l’uso non convenzionale di hardware o software. So che la definizione non ti piace molto.
Il termine «glitch» era diventato uno strumento di marketing. Improvvisamente spuntarono dal nulla gruppi che facevano questa roba chiamata glitch music. Achim amava il termine, ne definì la cornice teorica attraverso scritti, seguito da diversi critici. Era una parola perfetta per i discorsi filosofici di moda all’epoca. Buona per la scrittura, ma concretamente poco significativa. Kim Cascone scrisse un paper piuttosto influente intitolato The Aesthetics of Failure e fui uno degli intervistati per la stesura dell’articolo insieme a Markus Popp degli Oval e altri. Se ascolti i primi lavori degli Oval c’è molto CD skipping: l’articolo insiste sul ruolo della casualità e dell’errore al fine di presentare la tecnica come un’estetica che mina volontariamente la scelta umana. In realtà se chiedi a Markus Popp come lavorava, ti spiegherà che era tutto costruito con cura scrupolosa fino all’ultimo dettaglio in fase di post-produzione. Era un modo di composizione piuttosto tradizionale. Non lo dico per criticare i dischi, perché sono fantastici, sia chiaro: è semplicemente indicativo di come un artista sia stato usato per supportare speculazioni teoriche che non aderiscono alla realtà della sua pratica. Un altro artista associato spesso al termine era Yasunao Tone e, di nuovo, la critica ha frainteso in maniera funzionale il suo lavoro leggendolo attraverso posizioni apparentemente radicali, ma che rinforzavano una metafisica piuttosto conservatrice.

Credo che, in parte, fosse una reazione al modo in cui la tecnologia aveva iniziato ad accompagnare in modo sempre più «facilitato» gli utenti verso scelte estetiche: non so, ripetere un certo numero di battute usando il copia incolla, partire dall’idea di loop come unità minima e così via. È piuttosto interessante perché molti di quella generazione sono stati poi assunti in aziende produttrici di software – Ableton, Native Instruments e altre – per creare plug-in, effetti, strumenti virtuali. È una parabola piuttosto interessante. Ma in sostanza vedo quella produzione teorica come il tentativo, più o meno centrato, di immaginare una forma di «resistenza» al modo in cui l’elettronica di consumo aveva iniziato a promuovere, orientandola in diversi modi, l’espressione individuale.
C’erano pensieri piuttosto confusi sul modo in cui interagiamo con la tecnologia per esprimerci e produrre. È indispensabile riconoscere che la tecnologia non è un elemento inerte. Ha un’influenza sul processo creativo e questa influenza non è negativa. Non limita la nostra libertà. Gli individui operano all’interno di sistemi: il linguaggio non limita la tua capacità di parlare o di formulare pensieri. Sono certo che esistano forme di pensiero non linguistiche, ma il linguaggio non ci limita come non ci limita la tecnologia. È una metafora stupida, ma la userò ugualmente: «Un ragno non costruisce la sua tela in aria». Il compositore Edgard Varèse scrisse a inizio Novecento che sognava strumenti in grado di riprodurre i suoni che immaginava. Per me è l’opposto: voglio feedback dagli strumenti per assestare e produrre le mie scelte estetiche. Queste idee si fondano su una concezione di umanità riassunta dalla celebre massima di Cartesio: «Penso, dunque sono» che definisce l’essere umano come un’essenza divisa dal mondo. Il corpo e le esperienze sono degli intoppi e per conoscere in maniera pura bisognerebbe acquisire una logica incorporea. Questa visione del mondo cartesiana influenza le idee convenzionali sull’interazione tra uomo e tecnologia. Gli strumenti informatici ti pongono, come artista, in una relazione molto specifica con i materiali che usi. Credo che l’idea di timeline dei sequencer t’inserisca in una temporalità diversa da quella della musica. La musica è lì, puoi vederla. Sostanzialmente sei un dio. Puoi osservare e controllare. La timeline di Ableton e molti altri software è un’estensione della scrittura musicale, delle partiture. Porta con sé il bagaglio culturale di quanto consideriamo espressione artistica in Occidente, ed è stata formalizzata – nella sua versione moderna – da un monaco italiano. È speculare, in campo visivo, all’invenzione della prospettiva, al modo in cui essa organizza lo spazio: un sistema basato su una griglia che dispone i materiali, separandoli dallo spettatore. È interessante siano entrambe invenzioni italiane.

Quanto dici mi porta agilmente alla prossima domanda. Sul mio taccuino ci sono un nome e un cognome: Martin Heidegger.
Essere e Tempo è un ottimo libro. M’interessa l’idea per cui la domanda stessa «cosa significa essere umani» ci situa in uno spazio mentale che orienta le risposte possibili alla domanda stessa. La risposta che si dà Cartesio per dimostrare la propria esistenza deriva dalla domanda che si pone. Heidegger aveva capito con grande lucidità che, per la maggior parte del tempo, non viviamo in un mondo vuoto svincolato dalla realtà. Facciamo cose e siamo assorbiti dal mondo. La grande invenzione di Heidegger è l’idea di dasein, ovvero un senso dell’esistere che fluttua rispondendo a eventi che incrociamo sul nostro percorso o ad attività in cui ci immergiamo. Cresciuto tra sintetizzatori analogici, ho sempre desiderato contrastare la concezione secondo la quale l’arte nasce su un piano astratto per poi prendere forma materiale, come mera esecuzione. Io lavoro con i miei attrezzi facendo prove, incasinandomi, lasciandomi guidare.

Mark Fell, dall’album Sentielle Objectif Actualité del 2012

Una volta hai consegnato una lista di consigli per giovani produttori alla rivista musicale XLR8R. Quello che mi ha colpito di più è «Resta dove sei».
Volevo essere provocatorio e far riflettere le persone sull’idea di doversi muovere per forza a Londra, Berlino o New York. Essere parte di una scena non ha alcun interesse per me. Non ho bisogno di uscire la notte, di caffè alla moda.

Neanche a Sheffield?
Non esco quasi mai, in nessuna città. Ma in generale sono contro l’idea secondo la quale per raggiungere un risultato ci si debba trasferire in una metropoli. I benefici sono inferiori ai vantaggi: vieni risucchiato in questo mondo di stronzate tipo «Qual è la cosa giusta questo mese?», «Qual è il club da frequentare?». Non credo, allo stesso modo, che ci si debba isolare. Nella stessa intervista dico: «Trova amici di cui ti fidi ciecamente e parlaci tanto». Non bisogna nascondersi, bisogna reagire alla centralizzazione della cultura. Ad esempio in Gran Bretagna succedono moltissime cose fuori da Londra, ma l’industria dei media londracentrica sposta gli occhi dalla città solo in poche occasioni. Ho lavorato per vent’anni come curatore, insieme a Mat Steel, per un festival a Sheffield, il Lovebytes, e abbiamo invitato artisti meravigliosi. Pensare solo alle grandi città è deleterio perché esclude i diversi tipi di pubblico. Io sono rimasto dove sono nato. Un piccolo villaggio, ho fatto un figlio a vent’anni e sono riuscito a prendermi la libertà di fare le cose che mi piacciono. Certo, devo pagare il mutuo e tutto il resto, ma ogni volta che scendo a Londra e chiamo un amico mi risponde «Oh, peccato oggi sono troppo preso». Voglio dire, cos’è che avete da fare tutto il tempo?

Londra è un caso piuttosto estremo. Volevo chiederti, a proposito della macchina dei media, anche della definizione «rave deconstruction» che qualche anno fa si usava per definire musiche di ricerca che nascevano da una rielaborazione dei suoni da club in modo non funzionale al ballo. Ti senti un precursore di questo tipo di approccio?
C’è molta gente che lavora in quel modo. Credo che la parola «deconstruction» non sia però la migliore per inquadrare queste pratiche. E neanche «rave»: è un formato estetico molto specifico completamente alieno al lavoro della maggior parte degli artisti incasellati in questo modo. Comunque per rispondere alla tua domanda, non mi sento padre di nulla fatta eccezione per i miei figli. Quando ho incontrato la musica house, volevo produrre qualcosa di nuovo cambiandola a livello strutturale. Possiamo dire «dance ricostruita». Operavo all’interno di quella tradizione secondo una modalità che qualcuno potrebbe definire decostruzione. Quello che è sicuro è che tentavo di mettere sotto un microscopio elementi della musica da ballo, rimuovendo le cose che non m’interessavano – come i flussi narrativi, i build-up e i picchi energetici – e mantenendo quel che mi piaceva, ovvero il modo in cui s’incastravano i pattern, le sequenze di accordi con le strutture ritmiche. Per dieci anni sono stato ossessionato da come questi dettagli sottili e questi due elementi potevano interagire in vari modi. La decostruzione è un modo di leggere testi e credo che possiamo considerare la musica come un testo, un oggetto culturale, sottolineandone le sue contraddizioni interne. Se però pensi alla definizione normalmente associata al lavoro di Derrida, credo che il termine «Rave Deconstruction» non sia calzante: è piuttosto l’ingrandimento di dettagli, strutture e formati che compongono il linguaggio della dance.

Mark Fell e Gábor Lázár, dall’album The Neurobiology of Moral Decision Making, 2015

A chi ti senti vicino artisticamente?
A questo punto, probabilmente a nessuno. Ci sono artisti che mi piacciono molto, ma che non lavorano in modo simile al mio. Penso a Errorsmith: amo molto quello che fa, ma credo siamo su binari molto diversi. Con Gábor Lázár abbiamo lavorato insieme anni fa; forse ci sono dei punti di contatto. A te viene in mente qualcuno?

In effetti, no.
C’è un gruppo di artisti che è partito dalla house, dal 1992 in poi, che ha poi preso traiettorie completamente individuali. Penso a Russell Haswell. È qualcosa che succede sempre: quando cresci e maturi come artista, ti preoccupi perlopiù di un numero limitato di elementi che definiscono la tua pratica e ti curi meno di essere in una scena o di piacere a un determinato tipo di pubblico.

Hai collaborato anche con Terre Thaemlitz, e nonostante congruenze nei gusti musicali mi pare che i vostri lavori siano agli antipodi. Il suo è più concentrato sull’aspetto connotativo e sociale di un certo momento della storia della house, almeno nella sua produzione a nome DJ Sprinkles.
Vero. È divertente perché Terre ed io siamo ottimi amici. Parliamo spessissimo e abbiamo lavorato molto insieme. Ci unisce, come dici, un forte interesse per la house music nordamericana del ‘90 e del ‘91, ma il nostro approccio alla materia è completamente diverso. Non sono parte di nessun movimento probabilmente.

Potrebbe essere una buona cosa.
Già.

Errorsmith e Mark Fell, dall’EP Protogravity del 2015

Prima abbiamo parlato di evoluzione tecnologica, software eccetera. Mi piacerebbe conoscere la tua opinione sul fatto che le innovazioni più rilevanti – anche in termini di ricaduta estetica – accadano più che negli strumenti di produzione, in quelli di distribuzione: c’è un intero apparato economico trasformato dallo streaming e dal download, i ritorni economici per gli artisti sono cambiati (concerti o sincronizzazione per gli audiovisivi). Novità che hanno sopravanzato in velocità e in profondità le evoluzioni stilistiche, certamente a livello di musiche di largo consumo.
Internet ha cambiato tutto. È un passo evolutivo enorme nella cultura umana, importante quanto l’invenzione della stampa. Non sappiamo ancora la forma che prenderà questo cambiamento, ma è certo che il mondo è cambiato drammaticamente intorno al 1996. Ti è mai capitato di rimanere senza cellulare per, tipo, sei ore?

Sì, inizialmente provavo la stessa sensazione di quando ho smesso di fumare anni fa: ogni quindici o venti minuti avevo una specie di riflesso condizionato che mi faceva cercare lo smartphone. Adesso tento di passare almeno mezza giornata a settimana senza connessione.
Una volta sono andato al supermercato con mia figlia e le ho detto: «Sai cosa? Lasciamo i cellulari a casa e vediamo cosa si prova». Ha ventuno anni ed è praticamente nata con internet, le sue prime memorie sono di me e lei seduti davanti al laptop. È stato stranissimo: «Oh, mio dio siamo disconnessi da tutto». Dobbiamo aspettare, ma per me internet è molto utile per comunicare e trovare le cose velocemente. Ha influenzato anche l’esperienza musicale: hai accesso a tutto quello che ti va di ascoltare ogni momento. Quando era ragazzo se trovavo un disco che mi piaceva, lo mettevo su per due mesi di fila. Quella relazione con la musica è scomparsa ora per la maggior parte del mondo. Non proveremo più quell’esperienza. Non sono particolarmente nostalgico o conservatore, ho centinaia di ore di musica in mp3 sul mio computer, ma non ho una relazione molto forte con quel formato. Il modo che preferisco per ascoltare musica è ancora il vinile, come il modo migliore per leggere un libro è la carta e il modo migliore per bere un tè non è da un bicchiere di plastica.

Un’ultima domanda: cosa presenterai a Bologna per la settima edizione del Live Arts Week?
INTRA è un progetto pensato per la prima volta per il museo di Serralves a Porto. Lavoro con un gruppo di percussionisti – Drumming Grupo de Percussão – che suona metallofoni microtonali piuttosto grandi, seguendo ritmi generati da un computer. È un progetto molto formale, modulare, che può avere diverse durate: i percussionisti ricevono istruzioni molto semplici in cuffia riproducendole in tempo reale sugli strumenti. Sono molto soddisfatto di questo formato compositivo, del timbro degli strumenti: a breve uscirà anche un disco.