Manila underground

Sopravvivere a Justin Bieber nel paese di Rodrigo Duterte: conversazione col dj e produttore italofilippino Toro

Toro mi invia sulla chat Messenger una foto di un panorama industriale. L’ha scattata dalla finestra di casa sua. Mi scrive che sta andando a dormire e che risponderà alla mia mail più tardi, una volta sveglio.

Manila all’alba

A Manila sono le sette del mattino, dalla mia parte di mondo è mezzanotte. Tra i due, quello che dovrebbe andare a dormire sono io. Nella foto il cielo sembra polveroso, ma forse è la grana data dalla camera dello smartphone. Ci sono dei tetti in primo piano e poi, lontano sullo sfondo, grappoli di grattacieli e macchie nere, come immense pozzanghere. Toro vive nell’area di Makati, in un appartamento in affitto di 25mq. Non ci vediamo da tanti anni, da quando si è trasferito nella capitale delle Filippine; ci siamo conosciuti davanti a una consolle, lui dalla parte di quelli che suonano io dalla parte di quelli che fanno suonare.

Qualche mese fa ci siamo sentiti su Skype, gli ho chiesto come se la passasse e abbiamo iniziato a chiacchierare, mi ha parlato di Manila e della scena musicale, di cosa significa provare a fare musica in una città come quella. All’anagrafe lui è Romano Credito ed è nato a Roma; Toro è il moniker che usa come producer. I suoi genitori, entrambi filippini, si trasferiscono in Italia nel 1985 lavorando in coppia come house helper per una famiglia romana, mentre nel weekend vendono cibo filippinodalla loro Ford Fiesta parcheggiata davanti alla Stazione Termini. Nel 1988 nasce Romano, dieci anni dopo il padre si trasferisce a Milano per lavorare in una fabbrica di Cormano.

«Mi ricordo che, per anni una volta al mese, tornava a Roma per passare qualche giorno con noi. Poi, a un certo punto, mia madre decide che dovevamo stare tutti insieme come una famiglia normale, quindi ci trasferiamo a Milano. Lui lavorava sempre in fabbrica e mia madre come donna delle pulizie o badante. Nel 2007, mio padre molla il lavoro, finché un giorno dello stesso anno decide di tornare nelle Filippine. Da solo. L’ho rivisto nel 2013, quando mi sono trasferito anch’io a Manila.»

Toro

Quando gli chiedo perché, pur essendo nato da genitori entrambi filippini, il suo cognome è Credito, mi risponde che anche suo padre se lo è sempre chiesto. Mi dice «I don’t know brother, strano vero? Ancora adesso non so nemmeno perché abbia deciso di mollare me, mia madre e tutto per tornare nelle Filippine. Ora vive in provincia, a Batangas, e ogni tanto mi viene a trovare a casa nel weekend, così me lo porto dietro nei locali dove suono oppure a bere qualche birra insieme ai miei amici».

Gli chiedo perché ha lasciato l’Italia: «Per amore. La mia ex ragazza decide che non le piace più Milano e mi dice che vuole andare in Australia. Allora io le dico che se proprio dobbiamo andarcene dall’Italia, voglio andare nelle Filippine a trovare “papà Toro” che non vedo dal 2007. Per i primi due mesi stiamo a Batangas da lui, intorno a noi ci sono solo campi di canna da zucchero e palme. Dietro casa c’è l’allevamento di galli da combattimento di mio zio. Trecento galli. Immaginati il casino che facevano la mattina. Poi decidiamo di buttarci nella giungla di Manila, cambiamo casa un paio di volte, ma rimaniamo sempre nella zona di Makati, dove vivo ora.»

Makati è una cosiddetta città altamente urbanizzata, nell’area metropolitana di Metro Manila. Toro mi dice che, tendenzialmente, è «un posto tranquillo se stai all’occhio. Durante i primi mesi a Makati ho faticato a realizzare che mi trovavo nelle Filippine. C’era questo costante odore da street food e spezie che si mischiava all’acuto e altrettanto costante odore di smog. Quando finivamo in mezzo al traffico con un taxi, ci rimanevamo per ore, e ti assicuro che il traffico di Milano o di Roma non è niente a confronto. Ogni volta dovevo contrattare con i tassisti e convincerli a portarmi dove dovevo andare, perché a Makati se sanno che rischiano di restare imbottigliati si rifiutano di portartici. Per tutto il primo anno mi è sembrato di essere su un altro pianeta. Non è stato facile».

Mi dice che Manila è enorme e che Makati è solo una parte, però è molto viva: «C’è una bella scena musicale tra band e dj. Ci sono moltissimo mostre. Makati è un mix di cose underground e hype. Si va dal girly bar frequentato dagli squallidi turisti cinquantenni, al club di lusso al settantunesimo piano di un grattacielo. KTV aperti 24h dove ci entri solo per il karaoke, ristoranti di lusso e “ristoranti da ghetto”, ristoranti cinesi, giapponesi, vietnamiti, italiani, turchi. Ristoranti dove non spendi niente e mangi da dio, street food a ogni angolo, centri commerciali labirintici dove entri e non sai più quando uscirai, da quanto sono enormi. Makati è rasa di grattacieli, uffici e zone residenziali con ville bellissime. È il centro di tutto Makati».

Toro & Anomali, «Time Running»

Io e Toro ci risentiamo ancora, dopo qualche giorno. La sera prima mi manda un’altra foto, c’è un gatto nero davanti ad una finestra. Il cielo che s’intravede è ancora polveroso. Mi dice che è il suo gatto. Decidiamo un orario umano per una nuova Skype Call.

Quando parte la chiamata, in Europa sono le sette di sera, a Manila è notte fonda. Mi dice che lui preferisce stare sveglio di notte, può permettersi di farlo, dato che essere dj è la sua prima occupazione. «All’inizio ho provato a cercare lavoro come magazziniere, ma qui è diverso rispetto all’Italia: per un lavoro del genere ti danno 10.000 pesos al mese, che sono più o meno 200 euro. Ogni volta che ho fatto un colloquio mi hanno riso in faccia. Mi hanno detto “che cazzo sei venuto a fare qui nelle Filippine? I filippini vogliono andare all’estero per trovare lavoro e tu invece, che eri già in Italia, sei venuto qui per fare il magazziniere?” Quindi mi sono messo sotto e ho iniziato a suonare per locali e bar e ogni tanto dipingere quadri per arrotondare. Si riesce a campare, ma devi avere almeno tre date alla settimana. C’è un mio amico italiano, che vive qui da dieci anni, e dice che sono un parassita e dovrei trovarmi un lavoro normale. Ha ragione in fondo, ma a me piace suonare e non mi piace stare sotto padrone. Perché dovrei lavorare otto ore al giorno facendo una cosa che probabilmente mi stresserebbe. Preferisco faticare a vivere e a pagare l’affitto, ma facendo quello che amo e che mi fa stare bene.»

Gli chiedo di parlarmi della scena musicale a Manila. «C’è una scena vastissima, una marea di dj e di band. Sotto casa mia c’era un locale, si chiamava B Side, ha chiuso un paio di settimane fa perché da molti anni i proprietari avevano problemi con il vicinato. Ho suonato per i suoi ultimi due anniversari e qualche volta ad una serata reggae che fanno la domenica. Ho girato anche il mio ultimo videoclip, lì dentro. È un posto storico di Makati, probabilmente il più underground di Manila. È un buco, ma un luogo incredibile. È un peccato che abbia chiuso».

E poi: «Qui la gente si divide fra quelli che ascoltano la roba americana, tipo Justin Bieber, Bruno Mars e soci e quelli, in minima parte, che ascoltano hip hop, reggae, funk, house e techno e metal. Poi c’è una fetta minuscola, una percentuale bassissima, di gente che ascolta jungle e drum and bass, che però è la roba che ho sempre fatto io. Anche questo è un peccato, purtroppo in cinque anni che vivo qui ho conosciuto pochissime persone che apprezzano la drum and bass e forse saremo in tre o quattro a suonarla. Io che sono un amante, sono rimasto fregato. Durante un party, mentre suonavo drum and bass, una ragazza mi si avvicina e mi chiede, indispettita, come poteva ballare quel tipo di musica. Quando ho l’opportunità di suonarla la suono, ma cerco sempre di capire se quel tipo di pubblico riesce ad apprezzarla. Inizio con un po’ di liquid funk e se intuisco la presa bene, ci butto dentro roba più violenta, altrimenti non la suono. Comunque, raramente ho visto la gente divertita o anche soltanto a proprio agio e non esistono party drum and bass. Questo è uno dei motivi perché mi manca Milano, ma tutto il male non viene per nuocere, dovendomi adattare ho iniziato ad apprezzare molto di più il funk e mi sono messo a produrre anche qualcosa. In alcuni club passano ancora la dubstep, quella commerciale, roba alla Skrillex diciamo, però la suonano, anche se solo nei grossi eventi. È comunque qualcosa. Ho suonato in alcuni festival e in feste sulla spiaggia fuori Manila, veramente belli. Per esempio a Palawan e El Nido. Hai presente il film The Beach? Ecco Palawan è così, un insieme di decine di isole e lagune. Puerto Galera, Cebu, Bohol, Zambales sono tutti posti di mare, tutti luoghi da sogno. Per questo mi piacciono le Filippine, ci sono più di settemila isole, quando vuoi staccare dalla giungla di Manila, ti basta prendere un bus o un volo e in quarantacinque minuti o massimo un’ora ti ritrovi in un paradiso.»

Toro, «Faith»

Toro mi manda il link del suo ultimo videoclip, è un featuring con un mc del posto, Tempes. Le tinte sono scure, s’intravedono scorci di Makati, in un passaggio riconosco lo stesso panorama impolverato e acido delle foto che mi ha inviato qualche giorno prima, la differenza tra il lusso e la povertà estrema di un luogo difficile. Intuisco, grazie alle immagini, come ci si possa sentire a respirare quell’aria, a viverla. «I veri eroi di Manila sono i ragazzi che combattono per mantenere viva la scena underground. Gente come Red I, Don P, Norris King, Big Answer Sound, Soulflower, Breaking Silence, Caliph8 per la scena bass, sperimentale, dub, reggae/dancehall, jungle e dubstep. Mulan e Alinep per la scena techno e house. E poi gruppi rock e metal invece Queso e Greyhoundz. È tutta gente che merita rispetto.»

Domando come funzionano i club. «Ci sono super club ovunque, il problema è che la maggior parte delle programmazioni sono di party commerciali. Durante una serata ti puoi spostare in diversi club, ma la musica resta sempre quella. Magari sei in un locale dove stanno passando Justin Bieber, quindi ti scocci e vuoi andare in un altro posto. Ecco, fidati che come entri nell’altro club ci sarà ancora quel cazzo di Justin Bieber. Di posti dove fanno musica che non sia mainstream ce ne sono veramente pochi. Li puoi contare sulle dita di una mano».

Mi dice che una volta soltanto ha provato a organizzare un party a Manila, un evento con sole dj donne. «Ho portato a suonare Elisa Bee, lei è di Milano. La serata non è andata male, solo che non sono fatto per organizzare eventi, non sono fatto per lo stress che ti devi portare dietro due o tre mesi prima dell’evento pensando ai soldi, alla promozione, al guest e agli altri dj che dovrai pagare anche se bucherai il party. Verrà la gente? Fortunatamente quel party andò alla grande, tutti si sono divertiti, ho ricevuto complimenti dalla gente e dai proprietari del locale. Solo che non fa per me, quindi ho mollato alla prima, preferisco arrivare e pensare solo alle tracce che mixerò, a sbronzarmi e a far divertire la gente e i miei amici.»

Gli chiedo chi tipi sono i suoi amici. «Non è stato facile fare amicizia, anche se avevo già alcuni contatti prima di partire. Penso sia normale, non puoi pretendere di avere immediatamente rapporti di amicizia con gente di cui ti fidi. A Manila i ragazzi sono tranquilli fino a quando non li fai incazzare, come nel resto del mondo probabilmente. Solo che a Manila rispetto, per esempio, ad altre città europee, quando s’incazzano diventa un casino. Non ho mai avuto problemi con nessuno, a parte un paio di volte da ubriaco. Manila è piena di giovani, ognuno con la sua storia e il suo viaggio, i propri problemi e le proprie gioie. C’è anche tanta gente dall’estero, una marea di turisti, oppure chi vive qui da moltissimi anni e ha trovato il suo modo di fare business. Non si differenzia poi granché da una qualsiasi grossa città europea o italiana».

Red I & Friends, Dubplate @ Cubao X, Manila

Io immagino che Manila, nel pensiero comune, sia etichettato come un posto pericoloso, e lui mi risponde che è vero, è così, è una metropoli che è stata rasa al suolo durante la Seconda Guerra Mondiale, che si è rialzata, ma in modo architettonicamente anarchico. Ci sono posti come Tondo in cui anche la polizia fa fatica ad entrare. Mi viene in mente un interessante articolo che ho letto su un numero de Il Reportage, in cui vengono riportati i dati raccolti dal quotidiano nazionale Philippine Daily Inquirer: sono degli aggiornamenti riguardanti la cosiddetta «Lista della Morte», un’ondata di uccisioni di sospetti criminali – tra spacciatori e trafficanti – da parte della Polizia e dei vigilantes filippini. Fa parte della politica di Rodrigo Duterte, Presidente della Repubblica delle Filippine dal 30 giugno 2016. Nei soli primi tre mesi della presidenza di Duterte si contano, tra le vittime identificate e quelle ancora da indentificare, più di millequattrocento esecuzioni di tossicodipendenti e piccoli criminali.

«Duterte ha dichiarato guerra ai narcotrafficanti. Nelle Filippine va moltissimo la crystal meth. Da quello che so io, il presidente ha messo in piedi questo gruppo di presunti vigilantes, chiamati DDS (Davao Death Squad), addestrati ad ammazzare chi spaccia meth. Manila è pericolosa perché alla gente non gli frega niente chi sei e da dove vieni, se li fai incazzare, se sgarri, finisci all’ospedale o non ci arrivi nemmeno perché ti hanno sparato un proiettile in testa. Per la mia esperienza personale, per fortuna, mi è andata bene, ma per alcuni va molto peggio. Devi stare sempre all’occhio, ci sono zone come Tondo dove se ti rapinano ti conviene dargli tutto quello che hai, se provi a reagire finisci accoltellato. Non voglio esagerare, però è così. Ti ripeto, a me in cinque anni non è mai successo niente, grazie a Dio. Però devi stare attento».

Prosegue Toro: «Un giorno ho visto al telegiornale la notizia di una litigata in strada finita in tragedia, tra un ciclista e uno che era in macchina. È iniziato tutto per una stupidaggine, fino a quando non si è passati ai pugni. Alla fine il tizio in macchina, dopo averle prese, tira fuori una pistola e spara due colpi in testa al ciclista. Qui hanno il grilletto facile, devi evitare di avere problemi con la gente che non conosci. Secondo me tutto parte dall’enorme disparità tra ricchezza e povertà. Prima sei in mezzo ai grattacieli e zone di lusso, poi ti allontani di un chilometro, giri un angolo, e succede che ti ritrovi in mezzo a comunità di persone che abitano in case di lamiera, gente che non ha niente, bambini o famiglie intere che dormono sul marciapiede, che fanno l’elemosina. È un mix tra chi ha tutto e chi non ha nulla, tutto insieme.»

Gli chiedo se l’essersi trasferito l’ha cambiato e in che modo. «Musicalmente Manila ha cambiato completamente il mio approccio, ho iniziato ad ascoltare e apprezzare altri generi ed è una cosa eccezionale, soprattutto per quanto riguarda la mia musica: avere la mente aperta ad altre realtà e sonorità è un grosso aiuto. Scoprire le Filippine mi ha aperto la mente. Ho ritrovato, anzi scoperto, le origini dei miei genitori, da dove sono venuti. Mi ha reso più forte avere avuto lo stesso coraggio che hanno avuto loro: mollare tutto e ricominciare da zero. Loro dalle Filippine fino in Italia, io dall’Italia fino alle Filippine. Non è stato per niente facile lasciare i miei amici, la mia casa, i party dove suonavo a Milano, però è stato un training importante. Da quando vivo qui ho fatto molti sbagli, ma ho anche imparato tante cose».

Prima di salutarci mi manda l’ennesima foto di un’alba sbiadita, s’intravede una strada poco trafficata, sporca, dissestata, edifici fatiscenti. È sempre scattata da casa sua con lo smartphone. Mi dice che se ne va a dormire. Gli dico: c’è un bel panorama hardcore, da casa tua. E lui mi risponde: «Ma va bro: in confronto ad altre zone di Manila, qui siamo a Miami».