Manifesto per un marxismo queer

Dopo la tempesta borghese, siamo il rosso dell’arcobaleno

Il ueer del marxismo 

Affermiamo che l’oppressione che soffrono le persone dissidenti sessuali della classe operaia debba essere affrontata attraverso gli strumenti dell’analisi e della trasformazione della realtà che il marxismo ci offre. Facciamo nostre le parole delle compagne britanniche di Invert, quando dichiarano che “la dissoluzione delle forme estatiche nelle relazioni sociali si trova al centro della dialettica marxista”. Il potenziale queer del materialismo storico e dialettico si radica, infatti, nella possibilità di mostrare il carattere di classe, e per tanto socialmente costruito, di tutto ciò che ci è stato presentato come naturale e immutabile.

Nonostante questo, in molti casi il potenziale radicale di messa in discussione della normatività è stato storicamente affidato alle organizzazioni rivoluzionarie causando, in tal modo, la perpetuazione delle idee borghesi rispetto alla famiglia e, di conseguenza, all’eros. Sono numerosi i nomi dei compagni queer che a causa della loro dissidenza dovettero abbandonare la lotta per il socialismo: Pedro Lemebel, Mario Mieli, Sylvia Rivera, Nastasia Rampova, Nestor Perlongher, Jeans Nicolas, Daniel Guérin, Pier Paolo Pasolini, sono solamente alcuni di questi. Ma sono senza dubbio i nomi delle compagne queer, come il nome dietro cui si nasconde Amanda Klein, che non conosceremo mai perché i pregiudizi reazionari di chi un tempo anelava la rivoluzione non si resero conto che anche la sessualità fosse e continua ad essere una relazione di produzione da rivoluzionare.

Non studiamo, quindi, né le dimensioni classiste dell’eterosessismo né il cis-sessismo nella misura in cui ci aggrediscono come persone trans, gay, bisessuali e lesbiche. Seguiamo il lascito di Leslie Feinberg: la nostra oppressione non è sempre esistita, ma, invece, è sorta assieme alla società delle classi. Usiamo, come lei, una vecchia chiave per aprire nuove porte. È il momento di lasciar fiorire il potenziale queer che ha sempre avuto il marxismo. 

A favore del rosa, contro la morale borghese

Sebbene il marxismo si senta orgoglioso di essere contrario all’ideologia borghese, esso sta costantemente giudicando se stesso in base ai concetti di decenza o serietà costruiti proprio sulla base di valori promossi dal capitalismo.

Non solamente questo, ma anzi, in molte occasioni si oppone ferocemente a tutto ciò che la morale borghese considera in un qualche modo pervertito, generalmente riguardo ciò che si considera come femminizzato. Così, le estetiche e i valori delle organizzazioni che si dichiarano marxiste acquisiscono tratti arcaici e folclorici – e maschilizzati – con l’obiettivo di darsi uno status concreto. Come Il Rosso dell’Arcobaleno (“El Rojo del Arcoíris”) rivendichiamo tutto ciò che la morale borghese egemonica non considera accettabile o degno, dato che non abbiamo bisogno dell’approvazione di chi si fa forte di standard nati nella culla dello sfruttamento. Per queste ragioni, ospitiamo orgogliose un’estetica femme ed esplosiva oltre ciò che la morale borghese ci ha fatto credere che fosse valido fare. 

Sesso, genere e famiglia 

Sosteniamo che la matrice della differenza sessuale non stia nella biologia, quanto piuttosto nell’economia politica e, nello specifico, nell’istituzione della famiglia monogama borghese. Proclamiamo, quindi, che è la famiglia a produrre l’eterosessualità e con essa le realtà di uomo e donna. L’eterosessualità, come prodotto dell’epoca storica della dominazione borghese, è molto più di un orientamento del desiderio: è il meccanismo che naturalizza la riproduzione dello status quo attuale. Allo stesso modo, l’idea che esistano due sessi separati non precede la produzione – storicamente specifica – dell’eterosessualità.

I mandati della maschilità e femminilità, che oggi sono nominati sotto la categoria del genere, non sono pertanto la politicizzazione delle differenze naturali dei nostri corpi, quanto piuttosto i responsabili della riproduzione della finzione borghese della “naturale” differenza sessuale. La mutilazione genitale sofferta dai neonati intersessuali rivela come il capitale sia capace di adattare, da dietro le quinte, tutti corpi alla norma facendo percepire, in tal modo, come inevitabile la divisione del lavoro così come oggi la conosciamo. Nonostante ciò, né l’uomo né la donna sono destini naturali, ma al contrario relazioni sociali necessarie per la perpetuazione sia di un mondo diviso tra sfruttatori e sfruttati sia del prodotto incarnato da questa stessa divisione. Abolire la differenza sociale, attraverso cui il capitale istituzionalizza i nostri copri come spazi di riproduzione delle classi sociali e della proprietà privata, passa per l’abolizione della famiglia, frutto di una previa abolizione del lavoro retribuito. 

La libertà sessuale o di genere che possediamo non è altro che la libertà di riprodurre l’ordine sociale vigente

Totalità capitalista e autodeterminazione

Come Rosso Dell’ Arcobaleno dichiariamo che l’oppressione delle persone queer non è né anteriore né estranea alle relazioni di classe, ma anzi può inscriversi in esse. Questo è applicabile anche ad altre dinamiche oppressive come il razzismo, l’abilismo e il sessismo che, sebbene si presentino come indipendenti l’una dall’altra, formano parte, invece, delle stesse relazioni di produzione e riproduzione del capitale.

Siamo d’accordo con la visione unitaria della nostra compagna Holly Lewis: “la classe sociale non è un altro vettore di oppressione; tutt’altro: essa è la necessaria mistificazione di tutte le relazioni sociali affinché siano a servizio della produzione di plusvalore”.  Pertanto, non solo rifiutiamo qualsiasi posizione LGBTI interclassista, dal momento che concilia interessi opposti, ma ci opponiamo anche a una postura operaista che perpetui il declassamento della sessualità come estranea alle relazioni produttive in acritica consonanza con la divisione borghese fra pubblico e privato. Tutto questo implica affermare che l’oppressione di una persona operaia trans, gay e lesbica non è solo un’oppressione di classe e, quindi, non riducibile alla sua sola espropriazione dei mezzi di produzione, ma anche che la sua stessa soggettività come dissidente sessuale è un prodotto dell’ordine capitalista. 

Le vite nere che il capitalismo disprezza, le vite queer, le vite diversamente abili e psichiatrizzate contengono il potenziale immaginativo per le relazioni sociali del futuro comunista. 

Facciamo nostre le parole delle compagne di Pinko, dato che nel capitalismo “la libertà sessuale o di genere che possediamo non è altro che la libertà di riprodurre l’ordine sociale vigente”. Mettiamo in dubbio le strategie di falsa inclusione delle persone dissidenti sessuali che porta avanti la borghesia. Come spiega l’antropologo marxista queer Gianfranco Rebucini, questa inclusione nell’ordine capitalista si realizza nella misura in cui ci converte in consumatori accettabili a spesa dell’espulsione di un Altro razzializzato. Inoltre, aggiungiamo che questa dinamica è valida anche per le persone dissidenti che non si adattano alla società, quali le psichiatrizzate e diversamente abili. Non vogliamo l’uguaglianza liberale perché alcune persone possano ascendere nella scala sociale. Lottiamo per una rivoluzione politica che la abbatta. 

Affermiamo che l’“autodeterminazione di genere” non può raggiungersi dentro il capitalismo. Lo sforzo di legiferare l’“autodeterminazione di genere” nel quadro normativo borghese non solo risulta insufficiente, dato che mantiene intatti i meccanismi coercitivi sociali, ma è anche incapace di segnalare la naturalizzazione della divisione sessuale del lavoro. Al contrario, il genere non deve essere analizzato da una prospettiva individuale, dato che, come segnala Pinko, “è attualmente il luogo in cui si naturalizza il lavoro di riproduzione delle classi sociali. Anche se si sperimenta come qualcosa di profondamente personale – incluso come l’essenza della persona – è una delle esperienze politiche vissute come più centrali dalle masse nella società capitalista”. Allo stesso modo, non può nemmeno intendersi come il prodotto di una narrativa biologica, come affermano certe voci che, lontane dal realizzare un’analisi materialista dell’oppressione della donna, persistono una narrativa reazionaria e astorica. 

Distruggeremo le catene che ci opprimono solamente in un atto collettivo, raggiungeremo l’autodeterminazione di genere solamente abolendo la società di classe. 

Abolizione della famiglia 

Per la maggior parte delle persone un futuro senza famiglia è inconcepibile tanto quanto un futuro senza capitalismo; è difficile immaginare una quotidianità al di fuori di questo sistema. Lo Stato capitalista riversa sulla famiglia il lavoro di cura, la formazione, il mantenimento e altre responsabilità che dovrebbero essere collettive e, per questo, è comprensibile che alcune persone della classe operai la riconoscano come un rifugio o persino come l’unica forma di sopravvivenza. Questa percezione della famiglia come pilastro dei vincoli operai, di fronte alle forme liquide di affetti dell’epoca neoliberale, ultimamente ha dato un giro nostalgico che rivendica l’ospitalità della famiglia utilizzando retoriche naturalizzanti e binarie che si allontanano dall’analisi storico- materialista del capitalismo e delle sue istituzioni. 

Senza dubbio, la famiglia è innanzitutto la riproduzione non solo letterale – biologica –, ma anche sociale del regime capitalista. Un regime che ha come modello la famiglia nucleare dove la progenie è considerata una proprietà che deve essere indirizzata agli interessi della classe borghese per garantire la sussistenza del plusvalore custodito dall’unità familiare stessa.
Gli individui che, consciamente o inconsciamente, non si iscrivono in questo modello mettono in pericolo la stabilità del regime familiare e, con esso, la stabilità del Matrix del capitale. Pertanto, sono dapprima spinti alla riforma e, quando risultano irreformabili, vengono esiliati dall’economia politica familiare. Lo stato borghese, inoltre, accentua l’impraticabilità e la non trascendenza di qualsiasi forma di solidarietà operaia che chi è rimasto storicamente fuori da questo modello ha costruito al margine della “filialità” biologica. Sono esperienze che attraversano le testimonianze delle più grandi compagne contemporanee che tessono reti di appoggio mutuo, formazione e cura emotiva fuori dalla logica familiare borghese. 

Sappiamo che gli spazi in cui si tessono le reti di sopravvivenza che Nat Raha definisce riproduzione sociale queer non smettono di perpetuare la finzione capitalista in cui possiamo prenderci cura dei nostri cari unicamente in unità intime e domestiche. 

Comprendiamo che l’abolizione della famiglia non si realizza riproducendo la finzione della famiglia attraverso l’idea di “famiglia scelta”, ma al contrario prendendoci cura reciprocamente l’una dell’altra in modo collettivo; cura che costruiamo nel rifugio di tutte le vita che il capitalismo, seguendo la sua logica impersonale, decide che non importano. 

I soggetti politici queer che spesso condividono un ampio lascito storico di marginalizzazione, silenziamento ed espulsione dalla famiglia sono sempre stati coscienti, e devono continuare ad esserlo, che abolire il capitalismo implica necessariamente abolire la sua principale istituzione di riproduzione: la famiglia. Torniamo alle parole di Holly Lewis: “l’abolizione della famiglia non è un richiamo all’abolizione dei legami tra persone che si amano”. Quello che cerchiamo è la distruzione della capacità della classe capitalista di sfruttare e controllare le nostre reti di appoggio e i nostri affetti. 

Intendiamo, in ultimo luogo, che le persone queer operaie, così come altre comunità oppresse, sono avanguardia della riproduzione sociale che verrà. Così, le vite nere che il capitalismo disprezza, le vite queer che il capitalismo disprezza, le vite diversamente abili, psichiatrizzate che il capitalismo disprezza, contengono il potenziale immaginativo per le relazioni sociali del futuro comunista. 

Il mito della realizzazione dell’individuo attraverso il lavoro retribuito è l’antitesi del nostro “lavoro” come Rosso Dell’Arcobaleno. 

Abolizione dello sfruttamento dei corpi

Quando come comuniste facciamo fronte alla problematica del lavoro la nostra premessa è che nessuno dovrebbe lavorare. Il salario nasconde una relazione di sfruttamento da cui desideriamo liberare i corpi. La divisione del lavoro è stata la generatrice delle problematiche di classe e, pertanto, ci dichiariamo abolizioniste del lavoro retribuito.

Inoltre, come persone queer all’interno del marxismo comprendiamo che non potrà esserci libertà in termini di sessualità fin tanto che vivremo in un sistema capitalista. Di conseguenza, l’obiettivo delle persone trans, gay, bisessuali e lesbiche operaie si concreta nella distruzione del lavoro, e non solo con la forma specifica attraverso cui questo sistema esercita pressione sulla dissidenza sessuale. 

Ci allontaniamo, allo stesso modo, dalla corrente “mitizzante” e operaista del lavoro retribuito come “nobilitatore”, dal momento che non è altro che l’ennesima trappola del capitale. Si richiama al supposto orgoglio di classe quando, in realtà, cerca solo di riprodurre l’egemonia capitalista al tempo stesso in cui ostacola l’impeto rivoluzionario della classe operaia, facendoci pensare che possiamo trarre beneficio dal semplice fatto di lavorare. Questo equivale a dover ringraziare i nostri capi e padroni per “lasciarci” lavorare. Il mito della realizzazione dell’individuo attraverso il lavoro retribuito è l’antitesi del nostro “lavoro” come Rosso Dell’Arcobaleno. 

Non di meno, riconosciamo che lo spazio di sfruttamento è il luogo in cui la classe operaia si relaziona e si organizza, agevolando la collettività e, di conseguenza, contiene un potenziale capace di generare spazi di possibili rivoluzioni e solidarietà. Per questa ragione, la borghesia si sforza di distruggere qualsiasi spazio di organizzazione, specialmente quelli che sorgono nel seno della produzione sociale, in quanto anello debole dell’ordine capitalista.

L’essere umano ha la capacità di sviluppare una tecnologia che automatizza i processi lavorativi perché si liberi tempo dal lavoro e, di conseguenza, ci si possa dedicare altre attività. Tempo per noi, non tempo speso affinché il capitalismo sopravviva. Divertirci, non venderci. Difficile da immaginare in un ambiente neoliberale, dove persino i nostri passatempi e passioni sono stati mercificati per creare capitale. 

D’altra parte, comprendiamo che l’obiettivo dell’abolizione del lavoro include anche l’abolizione del lavoro sessuale. Non vediamo alcuna contraddizione fra questo obiettivo e aiutare le lavoratrici sessuali nella loro lotta per sopravvivere all’orrore capitalista. Come Silvia Federici, diciamo: “anche io sono abolizionista: voglio abolire il capitalismo; voglio abolire il lavoro retribuito; voglio abolire lo sfruttamento”. Però, al tempo stesso, non possiamo dire: “questo tipo di sfruttamento è accettabile e questo, invece, non lo è”. Per noi, l’abolizione del lavoro non implica un’alleanza con le proposte neoliberali basate su fantasie punitive che puntano a dare più potere allo Stato borghese grazie a strumenti repressivi e coloniali. Allo stesso modo, come comuniste, ci opponiamo a esercitare qualsiasi tutorato verso altre lavoratrici, dato che, fintanto che a unirci sarà l’oppressione, potremo solo costruire solidarietà.

Nonostante ciò, analizzando la questione dello sfruttamento dei corpi, è inevitabile nominare la tratta di persone. Come sottolinea Holly Lewis, “la tratta – sessuale o no – è un problema dell’economia politica, non della cattiveria o del patriarcato”. La differenza fra il mercato del lavoro convenzionale e il traffico di corpi risiede nel fatto che il lavoratore si definisce in base allo sfruttamento, mentre le persone schiavizzate sono esse stesse merce. La separazione fra lo sfruttamento e la disumanizzazione è calante, però comporta “un cambio di paradigma”. Riprendendo le parole di Lewis: “il fatto che la transazione economica sia relazionata con il sesso non trasforma magicamente il modo in cui funziona il capitalismo”. 

Emancipare tutti i corpi da tutte le oppressioni per far morire l’eterosessualità, creazione del capitalismo, nel processo. 

Dobbiamo togliere alla borghesia i suoi stessi strumenti. Chi meglio di noi persone queer, che ci siamo appropriate storicamente degli insulti che sono stati utilizzati contro di noi, per cambiare i significati egemonici che condizionano la nostra forma di interpretare il mondo?

Cultura per una nuova società

Il potere del capitalismo sembra inevitabile, come in passato il diritto divino dei re. Tuttavia, l’essere umano può resistere al potere, alterarlo.
Ursula K. Le Guin

Immaginiamoci mondi per poterli creare. L’arte non è esclusivamente borghese, non releghiamo l’estetica – intesa nei termini di Herbert Marcuse – a uno spazio “minore” da emancipare. Seguiamo figure come Raymond Williams, che intendeva la cultura come qualcosa di ordinario che si produce e riproduce costantemente. Puntiamo a offrire nuovi orizzonti per la comunità con una comunicazione vicina: non pretendiamo di imporre nulla a una massa ignorante, perché non vediamo la gente come una massa ignorante. La nostra intenzione non è scrivere per dimostrare le conoscenze che abbiamo. Infatti, la cultura che creiamo qui è dalla comunità e per la comunità. Non vogliamo né la cultura prodotta dal “popolino”, con gli interessi economici che ne derivano, né la tradizione che il capitalismo seleziona come “illustre”. Per la borghesia siamo già i villani che l’oligopolio di Disney ha codificato in termini queer: dobbiamo essere, quindi, chi offre una direzione comunista alla cultura della classe operaia. 

Si devono analizzare le forme in cui il capitalismo utilizza l’arte per riprodursi, per convincere tutti che non esistono alternative a questo “inevitabile” potere. Hanno cercato di estinguere le nostre energie rivoluzionarie attraverso concessioni che possono essere importanti per gli individui – le rappresentazioni delle persone LGTB nell’arte – e che, però, sono cooptate per convertirci in complici dell’oppressione capitalista. 

Si deve, inoltre, studiare l’arte queer come possibile spazio di rivoluzione per appoggiare e potenziare queste espressioni, per trovare nuove forme di creazioni capaci di scuotere l’immobilismo del presente capitalista. In più, dobbiamo togliere alla borghesia i suoi stessi strumenti. Chi meglio di noi persone queer, che ci siamo appropriate storicamente degli insulti che sono stati utilizzati contro di noi, per cambiare i significati egemonici che condizionano la nostra forma di interpretare il mondo? Dobbiamo recuperare le nostre genealogie. In quante scuole di cinema si continua ad occultare che uno dei creatori del montaggio, Sergei Eisenstein, era omosessuale? Quanti contributi delle persone queer a una cultura emancipatrice si è cercato di cancellare da entrambi i lati? 

Dichiariamo guerra all’egemonia esistente e, anche se conosciamo le limitazioni che ci impone il sistema capitalista, proponiamo di produrre e sperimentare nuove forme di vita in comune. Crediamo che sia possibile un’egemonia alternativa attraverso cui otterremo che queste forme di vita emergenti diventino dominanti. 

Prendersi cura nella rivolta 

Dopo la divisione sessuale del lavoro, le femminilità sono state relegate al lavoro in casa e della casa. La cura della famiglia era il pilastro stabile che sosteneva gli ingranaggi del capitalismo. Stava nelle nostre mani mantenere le bocche che in un certo momento avrebbero mantenuto altre bocche. La cura insegnata era unidirezionale, altruista, morale. La corrente egemonica vi apportò il biologismo che aveva già impregnato i ruoli di genere femminili. 

Durante gli anni più oscuri della storia, le dissidenze sessuali e di genere si sono viste forzate a nascondersi a causa delle persecuzioni o, persino, dell’assassinio. È stato, però, in questi anni di estrema marginalizzazione e criminalità che abbiamo cominciato a incontrarci e a riconoscerci. A unirci per sopravvivere, per legittimare la nostra esistenza. E, con il passare del tempo, a condividere cultura e identità, fino a sembrare accettate dal sistema. Ma a che prezzo? Una volta che Chueca, Torremolinos o il Gaixample vennero conquistati dagli interessi del capitalismo e i cartelli delle trasformiste e drags di quartiere furono sostituiti da RuPaul, tutti gli anni di apprendimento di cura di sé e di creazione di spazi accoglienti vennero permanentemente annichiliti. Si osservò lo stesso processo in passato, nel caso di Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson, oggi totalmente santificate dal capitalismo, ma che vissero nella più assoluta miseria, essendo operaie e queer. Vennero riscattate unicamente con il proposito di generare martiri. 

Dobbiamo trovare nelle nostre relazioni la casa portata via senza stabilizzarci, bruciare tutto finché l’Universo non sarà la nostra casa. 

Con l’aumento della violenza contro le realtà LGBTI e, specialmente contro le persone dissidenti, abbiamo fatto fiorire un altro incendio della radicalità. Come nella crisi dell’AIDS, come nel franchismo, le persone marginalizzate solidarizzano nei momenti di profondo abbandono e rabbia. È nostra responsabilità utilizzare tutta questa forza contro-riproduttiva per organizzarci cercando – o fondando di nuovo – spazi accoglienti dove far nascere progetti pedagogici e rivoluzionari. Vogliamo rivendicare gli spazi che ci appartengono, unendo tutto il corpus teorico per poter dibattere. Vogliamo costruire questi spazi con blocchi di solido lessico e gettare basi di cemento con cura e solidarietà. Riproduciamo, così, le vite che il sistema non vuole vive. Brice Chamouleau ci indica la linea da seguire: “prendere le armi contro un mondo profondamente diseguale e contro chi riproduce queste diseguaglianze sociali”. 

Assieme siamo più di tutto il resto. Dobbiamo uscire dal piccolo vicolo in cui siamo tornate a occultarci dopo la rivoluzione sessuale e in cui siamo sempre rimaste. Dobbiamo combattere i pregiudizi fra le diverse comunità. Proviamo a sanare il rancore generazionale. Siamo state un esercito di amanti. E abbiamo lottato. Perché comprendiamo che il nostro nemico è il capitale e –  dato che favorisce la competizione, le nicchie, l’intolleranza e la sfiducia – la cosa più combattiva che possiamo fare è unirci e prenderci cura l’una dell’altra.

Dobbiamo edificare un desiderio comune condiviso dalle persone razzializzate, diversamente abili, psichiatrizzate, migranti, la classe operaia etero-normativa e cis e noi, le dissidenti sessuali.

Vogliamo tutto 

Se lasci che attacchino i comunisti, attaccheranno i neri e se lasci che attacchino i neri, attaccheranno i gay. Siamo tutti connessi, per questo dobbiamo stare uniti. 
National Union of Marine and Stewards

Affermiamo che nulla spaventa la classe capitalista più della solidarietà fra le persone oppresse e sfruttate del mondo. Nella lotta, le persone queer si stringono in solidarietà con le persone razzializzate, le persone diversamente abili, le persone psichiatrizzate, le persone migranti e la lotta delle donne. Costruiamo dalla nostra prassi politica un insieme di solidarietà propositive che condividono un orizzonte di emancipazione comune con il resto delle lotte. Come già dissero le compagne di Third World Gay Revolution: “le loro vittorie saranno le nostre vittorie. La nostra libertà arriverà solo quando tuttə saremo liberə”. 

Sappiamo che la classe dei capitalisti ci vuole atomizzati; come ci insegnarono Marx ed Engels, “il lavoro retribuito riposa esclusivamente sulla competizione fra essi degli operai”. Usano le nostre dissidenze sessuali per mantenerci separatə. Al grido di “frocio”, solidarizziamo. Senza dubbio, la classe operaia etero-normativa e cis non ottiene alcun beneficio dall’oppressione delle persone queer. In questo gioco di divisione fra la classe operaia etero-normativa e cis e le persone trans, gay, bisessuali e lesbiche della classe operaia sono entrati appieno settori reazionari che si autodefiniscono come comunisti. Creano false dicotomie fra le necessità della classe operaia e una presunta lobby queer le cui necessità sono viste come frivole. Sanità pubblica o linguaggio inclusivo? Diritti del lavoro o bagni misti? Noi vogliamo tutto. Vogliamo il pane e anche le rose. 

Abbiamo bisogno di riappropriarci e risignificare la parola “compagni”. Per tessere le lotte del presente abbiamo bisogno di costruire assieme un orizzonte comune, un’ideologia comune, un compromesso comune che vada oltre la condivisione di azioni specifiche. Come ci ricorda la compagna Jodi Dean, una compagna è con chi si può lottare a lungo. Per questa ragione, dobbiamo edificare un desiderio comune condiviso dalle persone razzializzate, diversamente abili, psichiatrizzate, migranti, la classe operaia etero-normativa e cis e noi, le dissidenti sessuali. È questo desiderio comune condiviso che ci permetterà di rompere gli identitarismi e le fratture: dobbiamo fare le cose in grande, trasformare tutto e pretendere tutto, non lasciare intatta nessuna relazione sociale. 

Rivoluzione 

L’emancipazione delle persone dissidenti sessuali della classe operaia ha un solo cammino: dobbiamo rompere le catene delle relazioni sociali capitaliste che ci legano a una vecchia istituzione familiare in cui i nostri corpi e le nostre forme di esprimerci non saranno mai pienamente possibili. Dobbiamo detenere il perno etero-normativo su cui si regge il plusvalore, dobbiamo mettere fine alla violenza disciplinare che la società delle classi esercita sulle persone queer. Non più riproduzione del vecchio mondo in nome della normalità: tutto ciò che è accettabile deve perire. 

Dopo la tempesta borghese, siamo il rosso dell’arcobaleno.

Originariamente pubblicato su El Salto. Traduzione dallo spagnolo di a cura di Melissa Cicchetti, dottoranda in Studi di Genere e delle Donne presso l’Università di Oviedo/Uviéu, insegnante di Italiano per stranieri e traduttrice, militante transfemminista dell’ 8M e attivista di AMA (Asamblea Moza d’Asturies).