Mai stati moderni

La crisi della presenza nel mondo pandemico

La mia fantasia è comunque un tuo dono,

Un chiaro alibi in questo mondo senza altrove

Maria Luisa Spaziani

L’evento totale

Molto è stato scritto sul cambiamento politico-istituzionale che la pandemia ci richiede, sottolineando in particolare la necessità di sostituire il modello capitalista a base estrattiva con uno fondato sulle istituzioni a tutela della cura e del mantenimento della vita. Come ha sottolineato, tra le altre, Tithi Bhattacharya, il pensiero femminista e la teoria della riproduzione sociale ci danno una chiave per immaginare un assetto socioeconomico non più basato su istituzioni che mantengano la priorità data al profitto, ma su strutture dedicate alla preservazione e alla creazione della vita che nell’emergenza coronavirus sono emerse come un architrave delle società.

Le analisi politico-filosofiche del mondo pandemico – o meglio, di un mondo in crisi ecologica permanente che dovrà attrezzarsi per convivere con le pandemie – tendono a trascurare un aspetto, ovvero la profonda trasformazione psichica del soggetto che l’esperienza del coronavirus ha provocato e che ancora non siamo in grado di misurare. Ida Dominijanni ha scritto che la pandemia è stata, ed è ancora, un fatto clamorosamente rivelatorio della relazionalità del soggetto, i cui confini si sono mostrati aleatori, porosi, mobili. A mostrarsi ambiguo non è stato soltanto il significato attribuito a termini che costituiscono un vero e proprio «dizionario» del virus, come congiunti o affetti stabili; a traballare è stata la nozione stessa di individuo, scopertosi esposto al contagio, interdipendente, responsabile per le altre e per gli altri oltre che per sé. La pandemia è un evento totale ed è anche, e prima di tutto, un fatto percettivo, sensoriale ed emotivo che coinvolge l’inconscio e l’immaginario. Cosa evoca in noi l’apparizione di un microrganismo sconosciuto? Quali sentimenti e quali nevrosi scatena? Come si desidera, come si sogna in pandemia? È utile intraprendere una discussione collettiva a partire da questi quesiti oggi, dopo la primavera perduta del 2020 e prima di un autunno incerto. Ci troviamo in una congiuntura storica in cui è particolarmente utile «abbandonare la sopravvalutazione di essere coscienti», come diceva Freud, e ammettere che l’inconscio non solo costituisce la nostra unica realtà psichica, ma è anche «indistruttibile».

Crisi della presenza e fine del mondo

All’inizio degli anni Cinquanta, in pieno boom economico italiano, lo storico delle religioni Ernesto De Martino decide di realizzare uno studio etnografico in alcune aree rurali del Sud Italia. In una fase di grande e celebrata modernizzazione nazionale, gli intellettuali e le élite del paese sono poco interessati a una regione considerata marginale nel contesto di un progresso che riguardava essenzialmente il Nord. L’intento di De Martino e della sua équipe di ricerca è politico e provocatorio. Da un lato, si vuole dimostrare la persistenza di culture «remote» rispetto alla modernità e alle sue pretese di egemonia (politica, economica, culturale) anche all’interno dell’Occidente. Dall’altro, alla vigilia della decolonizzazione, si vogliono svelare le somiglianze tra queste aree e i contesti coloniali. Questi due scenari condividono almeno due aspetti: uno è la povertà sistemica provocata dallo sfruttamento capitalista, l’altro il persistere di una serie di rituali sommariamente bollati come «magici» dallo sguardo moderno. Si tratta di pratiche, sostiene De Martino, la cui funzione è di tenere insieme la comunità, di mantenere una presenza in un contesto di forte incertezza esistenziale. Costruire un orizzonte metafisico sul quale proiettare le proprie sofferenze è particolarmente urgente in un momento come il boom economico italiano, in cui la modernizzazione procede di pari passo con – e anzi, implica – l’esclusione e la distruzione della vita dei marginali, dei «non moderni». Emerge così un concetto che sarebbe poi tornato in tutta l’opera di De Martino, quello di crisi della presenza. Si tratta di una sofferenza specifica, intrinseca alla natura umana, data dal rischio radicale di non esserci più. Accompagna gli uomini in tutte le epoche, ma in alcune fasi storiche – ad esempio, durante un processo di modernizzazione accelerato e brutale – può emergere con più forza.

Anche durante la pandemia – un evento totale che ci impone cambiamenti socio-economici di portata sistemica – ci troviamo ad affrontare una crisi della presenza, una paura radicale di non esserci. La totalità dell’evento è in grado di occludere un duplice orizzonte: quello spaziale (l’impossibilità di muoversi) e quello temporale (l’impossibilità di pianificare). Se la precarizzazione delle nostre vite ci aveva in sostanza già imposto la seconda incapacità – la rinuncia al tempo, al futuro – con il venir meno della libertà di muoversi nello spazio anche il presente si è annullato.

In La fine del mondo, ultima opera incompiuta dedicata a una comparazione delle «apocalissi culturali», De Martino dedica una lunga analisi al «caso del contadino di Berna». Si tratta di un ragazzo di ventitré anni che soffre di «delirio schizofrenico di fine del mondo», il cui caso è stato analizzato da molti psichiatri interessati alle implicazioni sociali delle patologie psichiche. Siamo in un momento, quello successivo alla seconda guerra mondiale, in cui psichiatria e scienze sociali si mettono in comunicazione con l’obiettivo di comprendere trasversalmente una società e un individuo segnati dal trauma. Gli episodi che hanno scatenanato il delirio del contadino sono due: lo sradicamento dell’albero più grande del terreno di casa (una quercia) e il rifacimento della porta principale dell’abitazione paterna. La combinazione di questi due fatti rende la casa totalmente irriconoscibile agli occhi del ragazzo. Per lui è avvenuto «il crollo del mondo, il franare del suo ordine, della sua domesticità».

Alla domanda che cosa pensa con la parola «crollo» (Untergang), il malato risponde: quando gli uomini non sono al giusto posto. Ma non soltanto gli uomini ma anche gli alberi, le case, non sono al posto giusto. Si è prodotto un mutamento […] Il mondo di prima non c’è più, il bel mondo ordinato. La gente non è più al giusto posto, e così pure le cose, le case, le strade. Il globo terrestre è rimpicciolito. I monti non ci sono più. Gli uomini non sanno più dove passino i confini. Il mondo si è appiattito.

Lo sradicamento della quercia e lo spostamento della porta, ipotizza De Martino, hanno interrotto il percorso attraverso il quale il contadino di Berna poteva transitare liberamente dalla sua sfera privata a quella pubblica: questa è la fine del mondo. Il delirio viene da una sofferenza specifica, quella per la perdita dell’intersoggettività con il mondo esterno – un mondo non soltanto umano, ma anche animale, vegetale, inanimato. Il mondo privato aveva senso nella misura in cui racchiudeva una «promessa di pubblicizzazione»: il suo significato constava nell’essere il preludio a un rapporto intersoggettivo, nel poter diventare gesto per gli altri.

Non siamo mai stati moderni

Non siamo mai stati moderni è il titolo di un famosissimo saggio di Bruno Latour scritto quasi trent’anni fa. Mentre l’Occidente celebra all’unisono la «fine della storia», il capitalismo liberaldemocratico trionfa su tutto il pianeta e il futuro viene dichiarato concluso, il sociologo francese scrive che la modernità è una questione di fede. In che cosa? In una serie di distinzioni fondamentali su cui strutturare l’esistenza individuale e collettiva: in primis quella tra natura e società, tra fatto biologico e fatto politico. È l’interiorizzazione di queste dicotomie a renderci veramente moderni, a costituire il telaio invisibile delle nostre istituzioni.

Cosa accade quando un evento come la pandemia fa traballare la fede in queste distinzioni? È divenuto chiaro a tutti che è impossibile spiegare l’epidemia di Covid-19 facendo ricorso solo a spiegazioni biologiche o mediche. Allo stesso tempo, inquadrarla esclusivamente entro letture macroeconomiche o filosofico-politiche rimane estremamente parziale. Il punto è che la pandemia presuppone il capitalismo globale – come ordine antropologico ed economico, ecologico e tecnologico – e non può essere pensata senza di esso. Il virus era in circolazione da anni, forse secoli, ma senza questa organizzazione sociale, economica e politica, non avrebbe sconvolto il pianeta.

«Il mondo è disseminato di istituzioni morte», scriveva Susan Sontag. Questa affermazione è significativa soprattutto quando le istituzioni riflettono compartimentalizzazioni – capaci di strutturare anche il nostro inconscio – che stanno crollando sotto i nostri occhi. L’esempio più banale è forse quello della famiglia: per molti durante il lockdown non è stato il legame di sangue a emergere come primario; talvolta non è stato nemmeno quello romantico o sentimentale. Ognuno ha costruito la propria «iper-famiglia» come ha potuto e voluto, con le risorse emotive e relazionali che aveva a disposizione, ognuno si è esercitato nell’immaginare una parentela a geometria variabile, nel senso più lato possibile. Making kin, insomma. Ma l’elenco delle istituzioni da ripensare è lungo, ed è nel nostro io alterato che dobbiamo cercare il potenziale per le riforme sociali che ci aspettano.

Un mondo senza altrove

La condizione della modernità, scrive Mark Fisher in Spettri della mia vita, è la malinconia per un futuro che non è mai arrivato. Una sorta di prolungamento all’infinito dell’interregno di Gramsci, in cui il vecchio non c’è più e il nuovo tarda ad arrivare, un intervallo in cui si verificano i fenomeni più morbosi. Nel 2020 è forte la tentazione di dire che il tanto atteso futuro ci sia stato definitivamente negato: siamo al principio di una lunga catastrofe ecologica (a essere pessimisti) o all’inizio di un mondo nuovo che si fondi sul riconoscimento dell’interdipendenza tra umani e non umani (a essere ottimisti). Ma a ben vedere, fuori dall’Occidente il futuro è già stato negato da molto tempo. Nel Sud globale la crisi ecologica sconvolge la vita delle persone da anni, e ancor prima è stato il feroce impatto dell’uomo bianco (epidemie comprese) a cancellare intere comunità. La caduta del cielo è in atto da un pezzo; il mondo è senza altrove.

In La caduta del cielo, l’antropologo Bruce Albert interpella uno sciamano Yanomami sulla visione cosmica ed ecologica del suo popolo che vive nel cuore della foresta amazzonica:

La foresta è viva. Può morire solo se i bianchi si ostinano a distruggerla. Se ci riescono, i fiumi scompariranno sotto la terra, il suolo diventerà friabile, gli alberi seccheranno e le pietre si spaccheranno per il calore. Gli spiriti xapiri non riusciranno a respingere i fumi epidemici che ci divorano. […] Moriremo gli uni dopo gli altri e così anche i Bianchi. Tutti gli sciamani periranno. Quindi, se nessuno di loro sopravvive per trattenerlo, il cielo crollerà.

Eppure è proprio perché abbiamo compreso che non c’è un altrove che il futuro c’è ancora: tutto è già sulla Terra, con buona pace di Elon Musk e degli altri neocolonialisti alla conquista dello spazio interstellare. Il futuro respira già, nella convivenza di umani e non umani – virus e batteri compresi, che modellano la Terra senza sosta da ben prima di noi; nella libertà che ci diamo di generare legami e parentele al di fuori di ogni opprimente dicotomia della modernità, in primis quella tra ciò che è naturale e ciò che non lo è; nell’immaginare istituzioni nuove e mobili per i nostri legami e forme sociali.

«Perché rifiutare le storie del microscopio o le teorie degli atomi?», si chiedeva Ettore Sottsass, che pure nel progresso della modernità credeva appassionatamente, perché pensava che i suoi frutti sarebbero stati redistribuiti con equità e avrebbero concesso a tutte e tutti di vivere una vita dignitosa. «Non sono storie valide, dolci e disperate, degli uomini e del mondo?» Nel mondo senza altrove, il futuro è finalmente arrivato.