Lo sbarco sulla Luna per la generazione internet

Elon Musk e blastatori, science fandom e talent show: la scienza è diventata infotainment, e questo sta uccidendo la scienza

È come se l’edificio scientifico del mondo fisico non fosse, nella sua profondità intellettuale, complessità e articolazione, la più splendida e meravigliosa opera collettiva della mente umana. Eppure la maggior parte dei non-scienziati non ha alcun concetto di questo edificio […] Pare che, per quel che riguarda una immensa gamma dell’esperienza intellettuale, un intero gruppo sia sordo. Una sordità che non è congenita, ma che deriva dall’allenamento, o meglio, dalla sua assenza.
C.P.Snow, The Two Cultures

Scintilla una rossa Tesla Roadster in orbita intorno al Sole. Scintilla l’esultanza sui social media, scintillano le iperboli dei siti di tech – The Verge la definisce «la cosa più vicina allo sbarco sulla Luna per la generazione di Internet». Meglio delle missioni Apollo: è stata una cosa giovane, fresca, cazzona, leggera – e completamente pubblicitaria. Per costringerti ad amarla, l’hanno truccata pesante: facili rimandi geek-chic, dal «Don’t Panic!» che richiama la Guida galattica di Douglas Adams, al disco con la Fondazione di Asimov nel cruscotto, a David Bowie nell’autoradio (chissenefrega se nello spazio non si sente niente). Tutto sfacciatamente calibrato per essere virale. «It’s ad astra, with emphasis on the ad.», scrive The Atlantic.

Marketing: ma a fin di bene, ti dicono, perché ne beneficia l’esplorazione spaziale. Ne beneficia l’interesse del pubblico per una scienza che, come la scocca della Roadster, scintilla, riflette, è glamour. L’entusiasmo collettivo per una Tesla che muore nello spazio è solo la ratifica finale di un processo che è in atto da tempo. Frantumata, memificata, infantilizzata: oggi la scienza è raccontata e digerita dal pubblico prevalentemente come infotainment. Sotto i pale blue likes dei post su Facebook, qualcosa muore.

Una, due, zero culture

La scienza è – o dovrebbe essere – fatta di due cose: meraviglia di fronte alla complessità e metodi per sbrogliarla. Si può discutere di quanto molti dei motivi per cui la scienza si fa abbiano avuto e abbiano tuttora poco a che fare con la disinteressata bellezza, e molto con cose come vincere la Guerra Fredda o gestire risorse di colonie oltremare. Ma in generale parlare di scienza, fino a non molto tempo fa, implicava evocare la vertigine di una realtà controintuitiva e inimmaginabile – ciò che un tempo i filosofi chiamavano sublime e che ora viene chiamato spesso sense of wonder, senso di meraviglia. Di conseguenza la via per la scienza era la poesia, da Lucrezio in poi. Nel primo dialogo de Il Newtonianesimo per le Dame di Francesco Algarotti (1737), una delle prime opere esplicitamente divulgative della storia, troviamo: «Piacemi, disse la Marchesa, che la Poesia e la Fisica abbiano un’Epoca comune, che in tal modo questo passaggio, che noi abbiam fatto per cagion mia dall’una all’altra, non parrà per avventura nè meno a voi così strano.»

E infatti non pareva granché strano, perché le scienze erano filosofia naturale, parte integrante di un’unica cultura. Omero e Newton uniti nella lotta. Poi è successa una cosa brutta. Hanno divorziato.

Il separarsi doloroso delle due culture era ancora in corso quando Charles Percy Snow redigeva il suo famigerato pamphlet.  Le ragioni di questa lenta scissione sono numerose e forse da chiarire, ma se le sue radici sono antiche, negli ultimi decenni sono state accelerate, frantumando non sono umanesimo e scienze «dure» ma separando con foga centrifuga le discipline individuali. L’iperspecializzazione è stata accompagnata da un aumento della competitività dell’impresa scientifica, dove l’impresa intellettuale è diventata una fabbrica ansiogena di articoli. Heidegger è stato deriso per aver affermato che «la scienza non pensa»: di sicuro ora di tempo per pensare ne ha poco. Proprio in questi giorni Nature ha pubblicato un editoriale in cui si dice chiaro e tondo che i corsi di dottorato non producono pensiero critico. Stiamo allevando una generazione di allineatori di laser e pipettatori di DNA che però non sanno riflettere su quello che fanno – e che anzi lo ritengono un fastidio. Il biochimico Erwin Chargaff, forse uno degli ultimi superstiti dello scienziato quale filosofo naturale, scriveva nel 1979, nella sua autobiografia Il fuoco di Eraclito (uno dei migliori libri sulla pratica della scienza mai scritti, disgraziatamente fuori stampa): «Assistevo a una valanga di trionfi, e coloro che formalmente li avevano determinati non si trovavano più in un rapporto adeguato a tali conquiste: qualcosa forse non quadrava, se uomini sempre più piccoli facevano scoperte sempre più grandi.»

Poco dopo è successo qualcos’altro. Verso la fine del XX secolo il cosiddetto deficit model della comunicazione scientifica, secondo il quale bastava prendere il pubblico e foraggiarlo con spiegoni sulle magnifiche sorti e progressive dell’impresa scientifica per illuminarlo, si dimostrò fallimentare. La cultura scientifica e la fiducia nella scienza non vanno di pari passo, né la cultura scientifica non aumentava significativamente a suon di documentari. Bisognava cambiare passo, e darsi a quello che viene chiamato engagement. Creare una connessione bidirezionale tra pubblico e divulgazione, rompere le barriere, abbattere le torri d’avorio e l’elitismo.

A questo punto basta fare due più due. Se la scienza diventa mera benzina per la techné, sistematizzata e industrializzata, non ha più una ragion d’essere intellettuale, ma puramente come potere sociale e politico. Se la scienza perde tale compito – se la scienza abdica al suo essere cultura – allora non ha senso trasmetterla come cultura. Se salire in cattedra non serve e se il valore è puramente strumentale, tanto vale fare pubblicità. La sua comunicazione diventa una forma di marketing sociale, strumentale a un mal concepito bisogno di educazione civica. Il pubblico non deve pensare. Deve digerire e distrarsi.

I primi tre minuti

Per capire cosa sia oggi il concetto ultimo di racconto della scienza, basta vedere il FameLab. Dal 2005 uno degli eventi più noti e celebrati della divulgazione scientifica contemporanea, FameLab si definisce senza vergogna talent show, un po’ alla X-Factor. In massimo tre minuti, senza nessun ausilio informatico (diapositive, video) un partecipante – di norma un ricercatore con l’hobby della divulgazione – deve spiegare un topic di ricerca per un pubblico generico, nel modo più accattivante possibile. Una giuria decide poi chi sono i vincitori che parteciperanno poi al round successivo, fino alla finale nazionale o internazionale. Ai FameLab partecipano ogni anno migliaia di comunicatori. Per capire di che si tratta, la vincitrice 2017 in Italia è stata questa.

Intendiamoci, massimo rispetto per chi si mette in gioco in una cosa del genere. Non è certamente facile, e richiede, almeno in linea di principio, una combinazione di skills di concisione, chiarezza e abilità di intrattenimento non comuni – io non oserei mai, come minimo non ho la presenza scenica. È una specie di sport estremo della divulgazione. Ma cosa rimane da una sveltina di tre minuti semplificata fino all’osso e sceneggiata? FameLab, che si presenta come una «competizione globale per trovare e sostenere i comunicatori scientifici più talentuosi del mondo» è fondamentalmente condannato, salvo rare eccezioni, a premiare la superficialità più assoluta. La presentazione di FameLab sul sito della manifestazione originale, quella del Cheltenham Festival in UK, usa una serie di locuzioni rivelatrici: «…coinvolgere e divertire riducendo concetti di scienza, tecnologia e ingegneria in presentazioni di tre minuti» «stupire amici con fatti sorprendenti» «i vincitori saranno decisi basandosi sull’accuratezza ed equilibrio del contenuto, la chiarezza della comunicazione e il carisma».

Coinvolgere, divertire, ridurre, stupire, carisma. Ogni possibilità reale di affrontare la complessità è bandita: del resto, cosa vuoi fare in tre minuti? L’idea stessa che si possa veramente spiegare un concetto scientifico da zero in tre minuti è preoccupante. Il pubblico di FameLab in un certo senso viene ingannato. Gli viene detto che vedranno delle presentazioni di scienza, ma invece assisteranno delle storielle più o meno accurate su dei concetti «scientifici» , che mettono volutamente sotto il tappeto qualsiasi accenno di complessità che le renderebbe veramente scientifiche.

Sia chiaro, la scienza ha sempre dato spettacolo, fin dalle sue origini. Il quadro Esperimento su un uccello nella pompa pneumatica del 1768 mostra le reazioni di un pubblico dinanzi a un (po’ sadico) esperimento pubblico. Michael Faraday era celebre per le sue conferenze di Natale, che includevano quasi sempre dimostrazioni spettacolari e divertenti. In qualcosa come FameLab di per sé non ci sarebbe nulla di male, anzi: se non fosse che questo tipo di intrattenimento vuoto non è un divertissement laterale, ma è il paradigma quotidiano dell’interazione tra scienza e pubblico. E non parlo solo dei trafiletti dei quotidiani. Pagine social-clickbait come I Fucking Love Science!; format televisivi come Mythbusters! in cui la scienza è un pretesto per una serie di boutade nerd più o meno esplosive; canali YouTube di divulgazione-intrattenimento come Physics Girl; serie di documentari-spettacolo come Shark Week di Discovery Channel, che è stato descritto come «una miscela inebriante di documentario e divertimento, progettata per ammaliare», e che ha volutamente mescolato realtà e fantasia, creando per esempio un discusso mockumentary in cui si dava per vivo e vegeto un gigantesco squalo estinto, il Megalodon – un gioco pericolosamente al limite delle fake news. Numerosi libri nel frattempo cercano di rendere digeribile la scienza passando per la connessione con la fiction o con il quotidiano frivolo: esiste un intero filone, per dire, di opere divulgative sulla scienza a partire da sceneggiati televisivi: La scienza di Star Trek, o La scienza di Game of Thrones, per esempio.

E infatti la scienza è consumata sempre più come se fosse un anime o un telefilm, in un milieu intriso di riferimenti facilmente ironici. Douglas Adams. Stephen Hawking. Neil deGrasse Tyson. Alberto Angela. I ritratti di Darwin o Einstein. I peluche dei batteri. Tizio blastalaggente. Plasmando una sottocategoria geek che potremmo chiamare science fandom; e come ogni categoria di fandom sono impermeabili alla critica e vantano i loro haters, ovvero i sostenitori delle pseudoscienze. In questo senso non solo l’infotainment scientifico, eliminando la profondità intellettuale, contribuisce alla polarizzazione e all’impoverimento del dibattito scientifico nella società, riducendolo a una battaglia tra tribù che difendono i loro memi. C’è anche chi si domanda, come il fisico e divulgatore Stefano Marcellini, se questo modulo di comunicazione non stia contribuendo paradossalmente alla diffusione delle pseudoscienze.

Il popolo non è minorenne

Ma cosa c’è di male nell’imparare divertendosi? La gente non ha tempo. Non ha voglia. Perché dobbiamo sempre essere noiosi? Facce ride. O torniamo a una scienza per le élite? Forse il signorino che vi scrive è troppo snob.

E se invece foste voi, gli snob? Dietro a quel tipo di comunicazione, al di là dell’efficacia grezza nel raccogliere pubblico, si nasconde proprio la mentalità che si vorrebbe combattere: il modello di comunicazione dall’alto verso il basso. Rivolgersi a un pubblico quale eterno minorenne, incapace di apprezzare bellezza, profondità, complessità e sfumature, ma solo di baloccarsi con spettacoli giocattolo, non è certamente un attestato di stima nei confronti del proprio pubblico. Poco tempo fa discutevo su Facebook con un fisico e aspirante divulgatore che affermava candidamente di aver tarato un suo articolo per un pubblico di «analfabeti funzionali». È così che dobbiamo considerare coloro a cui si parla di scienza?

Non è che non ci piaccia divertirsi, ma si tratta di vedere come si gioca. Ridere può essere un gradino che serve a salire o a scendere. Quando scende, succede quello che la NASA fa nei suoi tragici comunicati stampa odierni: «Buco nero gigante rovina la foto della Galassia di Andromeda» ; «Scoperto buco nero supermassiccio che rutta due volte»; «La sonda Chandra campiona il goulash galattico» e via di cinepanettone. Di contro, un libro e un sito come What If? del fumettista Randall Munroe è un eccellente esempio di engagement dove l’umorismo serve a salire. Parte da una domanda apparentemente sciocca o frivola, come «cosa succederebbe a fermare la pioggia con un laser?» e sviluppa con leggerezza il ventaglio di complessità e di questioni che si dipanano. Invece di usare la commedia per fare dumbing down, la usa per fare smarting up.

Altri moduli di comunicazione, allo stesso tempo profondi e accessibili al pubblico, sono possibili e non necessariamente meno popolari. Perché le eccezioni ci sono, e funzionano. Il successo dei libri di Carlo Rovelli dimostra che una divulgazione semplice ma che tratta il suo soggetto come elevato (e che infatti finisce su Adelphi) può avere una enorme presa sul pubblico. Ci sono sviluppi anche di tipo estetico che fanno ben sperare. In Italia i restyling di Wired cartaceo e di Mente&Cervello (ora MIND) sono esempi sicuramente positivi. Anche solo passare da una copertina chiassosa a una elegantemente curata significa ridare alla narrazione della scienza una parte della dignità che rischia di perdere. Qualcosa, insomma, si muove.

In un’epoca dove siamo abituati a filmati HD, è bene ricordare che la più profonda immagine mai presa dallo spazio consiste di un unico pixel azzurro. Il giorno di San Valentino del 1990, a sei miliardi di chilometri dal Sole, la sonda Voyager 1 ormai sulla strada per le stelle, scattò un’ultima fotografia guardando indietro da dove è partita. Nell’immagine, affettuosamente intitolata Ritratto di famiglia, si vedono i pianeti del Sistema Solare intorno al Sole, non più grandi di un punto. Uno di questi, un pallido puntino azzurro, pale blue dot, quasi nascosto da un riflesso del Sole, è la Terra.

Fu l’astronomo e maestro di divulgazione scientifica Carl Sagan a insistere con la NASA affinché il Voyager, prima di chiudere per sempre la sua macchina fotografica, scattasse quell’immagine, che rese tangibile il concetto di prospettiva cosmica. Guardando un pixel azzurro che è tutto, stai fissando l’Aleph. C’è un’altra immagine, meno nota ma che mi è rimasta dentro. È la fotografia di due donne del Bronx, probabilmente due prostitute, che guardano per la prima volta Saturno da un telescopio. Senza bisogno di talent show, senza bisogno di strategie di marketing: basta una lente perché ricevano, come in una comunione laica, la bellezza del cosmo.