LinkedIn Swag

Di LinkedIn non parla più nessuno: eppure è il social media che meglio di tutti racconta come, tra pierraggio professionale ed esistenze trasformate in startup, viviamo ormai una vita «in beta permanente»

Tra i social media più diffusi, LinkedIn è quello con il minore appeal: feriale, amministrativo e perciò sfigato. Allora perché parlarne, nel momento in cui lo stesso Facebook sta perdendo presa sulla Generazione Z e sui millennials? Perché LinkedIn – o meglio il LinkedIn che fu – è rivelatore: la schietta spinta competitiva che esso incarna illumina alcune dinamiche che caratterizzano i social media in generale. Ho mantenuto perciò inalterato il seguente ritratto di LinkedIn, scritto poco prima del drastico redesign che ha fatto del social media privilegiato dai professionisti un facsimile di Facebook, mutuandone la retorica conviviale e la cutesy delle illustrazioni, contribuendo così all’attuale infantilizzazione del Web (vedi Google e Alphabet). Questa propensione a ciò che è già obsoleto è anche un tentativo di sottrarsi, perlomeno a livello analitico, a un’esistenza in «permanent beta», promossa non a caso da Reid Hoffman, cofondatore di LinkedIn.

«LinkedIn è una perdita di tempo»

Negli ultimi anni molto è stato scritto sull’economia del Like di Facebook, sulla nascita spontanea dell’hashtag di Twitter, sulla componente narcisistica di Instagram, ecc. Nel mentre LinkedIn è stato quasi completamente ignorato. Già il Social Media Reader, pubblicato nel 2012, non lo menziona nemmeno una volta. Nell’Unlike Us Reader, pubblicato l’anno dopo e incentrato su possibili alternative ai social dominanti, LinkedIn appare cinque volte, ma solo come esempio fugace.

D’altronde a che serve LinkedIn, una rete professionale nota per il suo spam martellante? Pare che tutti i miei amici e conoscenti, perlopiù designer e «creativi» di varia specie, abbiano un account ma nessuno lo utilizzi attivamente. Come strumento di comunicazione, LinkedIn è vissuto in modo passivo: lo si subisce. Per non parlare delle storie di impieghi ottenuti tramite LinkedIn, che hanno il sapore del mito e della leggenda. Tuttavia quando ci si trova a fare i conti con la disoccupazione, un portfolio patinato può risultare insufficiente. Una situazione che ho vissuto in prima persona: non appena la mia situazione lavorativa ha cominciato a provocarmi ansia, ho seguito religiosamente i suggerimenti automatici di LinkedIn per migliorare il mio profilo. La manodopera creativa si relaziona a LinkedIn con lo stesso scetticismo che nutre nei confronti del CV in formato europeo, rigido e burocratico, eppure la piattaforma fornisce una fievole speranza in tempi di magra occupazionale.

I dubbi sulla sua effettiva utilità rendono LinkedIn irrilevante? La frequenza di utilizzo di un servizio rappresenta il principale indicatore della sua funzione culturale? A dispetto della sua presunta inefficacia, LinkedIn è un emblema della costante e pervasiva urgenza di accumulare contatti e «fare rete», poco importa se online o meno. Il graphic designer Frank Chimero ha modificato una serie di vignette del New Yorker per dimostrare che l’invito standard di LinkedIn («Ciao, vorrei aggiungerti alla mia rete professionale su LinkedIn») funge da perfetta didascalia universale. Le vignette alterate presentano individui che pronunciano tale esortazione promozionale in qualsiasi tipo di contesto, rivolgendosi a chiunque. Si vede ad esempio un uomo ai piedi del proprio letto che prega il Signore di aggiungerlo su LinkedIn. Queste illustrazioni ci toccano perché riconosciamo in esse, non senza un pizzico di amarezza, il modo in cui il pierraggio professionale permea le nostre vite. Da questo punto di vista, l’esistenza stessa di LinkedIn appare paradossale poiché ci assicura che il lavoro e la vita sono sfere distinte. Secondo Jeff Weiner, CEO della compagnia, l’80% degli utenti di LinkedIn desidera mantenere separata la vita personale da quella professionale. In tal senso LinkedIn è qualcosa di più che un insieme di curriculum collegati in Rete. Si tratta piuttosto di un ambiente che attua, esibisce e in qualche modo esaspera le dinamiche sociali dell’etica del lavoro e, come dimostra Chimero, si presta a incarnare simbolicamente le pressioni ansiogene che ne derivano.

«Il social dei tuoi genitori»

LinkedIn è stato fondato nel 2003 (un anno prima di Facebook) da Reid Hoffman insieme ad alcuni colleghi di Social Net e PayPal. Negli ultimi tredici anni 450 milioni di utenti vi si sono iscritti, un terzo degli utenti di Facebook. Come spiega Evelyn Rusli sul Wall Street Journal, in passato LinkedIn veniva visto come «il brutto anatroccolo dei social media» dagli investitori (a causa del suo modello di business ibrido) e come la «rete di mamma e papà» dagli utenti (per la sua impronta aziendale). Tuttavia negli ultimi anni le cose sono cambiate. Non solo più giovani professionisti vi si sono iscritti, ma, ancora secondo Jeff Weiner, gli utenti tendono a mantenere il loro profilo costantemente aggiornato, piuttosto che aggiungere nuove esperienze solo quando sono alla ricerca di un lavoro. Si potrebbe supporre che questo cambiamento, invece di coincidere con una crescente attrattiva della piattaforma, rifletta semplicemente l’estrema flessibilità e la domanda di costante miglioramento che questi giovani professionisti devono affrontare.

La mission di LinkedIn, quella di «collegare i professionisti del mondo per renderli più produttivi e far sì che abbiano successo», è accompagnata da una visione ambiziosa per il futuro che si concretizza nel cosiddetto Economic Graph. L’idea è semplice: LinkedIn aspira a creare e gestire il profilo di ciascuno dei circa tre miliardi di membri della forza lavoro globale, assieme ai profili di ogni azienda esistente, ogni lavoro disponibile, ogni competenza richiesta e ogni istituzione in grado di inculcare tali competenze. Presentato come la risposta al costante aumento della disoccupazione, l’Economic Graph raffigura qualsiasi tipo di relazione come fosse uno scambio economico tra agenti economici. In pratica, si tratta di un’infografica di matrice neoliberale in continuo sviluppo.

L’Economic Graph non esclude l’ambito educativo, una delle aree in cui il pensiero neoliberale sembra aver avuto un impatto decisivo. Mentre la conoscenza si riconfeziona come skill, l’apprendimento diventa un investimento che assume la forma di uno scambio economico, a volte in senso brutalmente letterale: negli Stati Uniti quasi sette laureati su dieci hanno contratto un debito studentesco. Franco «Bifo» Berardi sostiene (con un’enfasi eccessiva, bisogna dirlo) che «per i giovani che si indebitano per poter studiare […] l’indebitamento funziona come la costruzione di una catena simbolica i cui effetti sono più potenti di quelli delle catene metalliche del vecchio schiavismo». Come conseguenza di questa catena simbolica, lo studente «dovrà iniziare a lavorare subito dopo la laurea, per poter restituire una somma che non finisce mai [accettando] qualsiasi condizione di lavoro, qualsiasi sfruttamento, qualsiasi umiliazione, pur di pagare il mutuo che gli corre dietro».

Ed è qui che LinkedIn torna utile: LinkedIn Students è un’app che collega gli studenti alle opportunità di lavoro. La promessa di questo servizio in stile Tinder è di scavalcare la fase delle umiliazioni per ottenere direttamente un lavoro soddisfacente. Non c’è dunque da stupirsi se uno degli studenti anonimi citati in occasione del lancio del servizio esprima preoccupazione riguardo al suo prestito: «Mi sto laureando con $35.000 di debito, quindi accaparrarmi un buon primo lavoro fuori dall’università è estremamente importante per me». Come spesso accade nel campo dell’innovazione, LinkedIn trasforma una questione sociale dai risvolti drammatici in un’opportunità di business, offrendo una soluzione user-friendly e implementando l’ottimismo del sogno americano nel suo jingle promozionale: From graduation, to a corporation, some adulation, and eventually some serious relaxation («Dall’addottoramento, a uno stabilimento, qualche incensamento e infine del serio rilassamento».)

«Tutti gli esseri umani sono imprenditori»

È possibile tracciare i principi che hanno ispirato la creazione di LinkedIn e ne guidano l’evoluzione in termini di design. Aiutato dall’imprenditore Ben Casnocha, Reid Hoffman, attualmente Executive Chairman di LinkedIn, ha illustrato la sua filosofia in un libro di auto-aiuto opportunamente intitolato The Start-Up of You e pubblicato nel 2012 (in italiano Teniamoci in contatto. La vita come impresa). Lo scopo del libro è quello di aiutare i professionisti a progredire nella propria carriera. La strategia è semplice: concepire se stessi come una startup. Questa proposta deriva da ciò che gli autori definiscono una vera e propria rivelazione, ovvero il fatto che «le condizioni in cui gli imprenditori danno vita alle imprese e le fanno crescere sono le stesse in cui noi tutti ci troviamo quando dobbiamo modellare la nostra carriera». «Oggigiorno l’ascensore è bloccato a tutti i livelli» – ammonisce Hoffman, ed è compito di ogni singolo lavoratore quello di investire in se stesso. Un senso di rovina pervade questa narrazione: «se non riesci ad adattarti, nessuno – non il tuo datore di lavoro e nemmeno il governo – ti prenderà quando cadrai».

Il libro si apre con una citazione del bengalese Muhammad Yunus, imprenditore sociale e pioniere del microcredito, secondo cui «tutti gli esseri umani sono imprenditori. Quando vivevamo nelle caverne, eravamo tutti lavoratori autonomi». L’imprenditorialità è qui caratterizzata come uno stato di natura, un’urgenza primordiale, un istinto che emerge dalla frustrazione di non sfruttare economicamente un’opportunità. Non soltanto l’imprenditorialità è codificata nel DNA umano, essa rappresenta anche un bene comune universale: dopo aver attraversato l’Indonesia rurale per giungere in Colombia, gli autori possono serenamente concludere che «l’imprenditorialità è un’idea vitale, non una strettamente commerciale; un’idea globale, non una strettamente americana». Nel libro non c’è traccia del carattere deduttivo di queste scoperte: il modello che gli autori hanno in mente illumina la realtà con cui essi si confrontano. Come una gigantesca partita a Monopoli, il mondo è lì per essere letto in termini di investimenti, rischi e opportunità. L’esaltazione della responsabilità personale e dello spirito imprenditoriale giunge al culmine nel momento in cui si glorificano gli imprenditori in senso stretto: soggetti senza freno che «affrontano incertezza e cambiamento», «valutano i loro beni, le loro aspirazioni e la realtà del mercato», e «aggressivamente cercano e creano opportunità di rottura».

The Startup of You, un bestseller secondo il New York Times, è fondamentalmente un reboot della nozione di personal branding divulgata da Tom Peters nell’influente The Brand Called You del 1997. La differenza principale tra i due approcci è che mentre Peters prende ispirazione dalle grandi corporazioni, Hoffman guarda alle startup (ovvero le imprese create da lui stesso o dai suoi colleghi). Nonostante ciò i parallelismi sono frequenti. Per esempio, mentre Peters sostiene che ci si dovrebbe reinventare regolarmente, Hoffman, prendendo un’espressione a prestito dall’informatica, prescrive una vita in «beta permanente». Nell’universalità dell’attitudine imprenditoriale riecheggia la promessa democratica del personal branding: «tutti hanno la possibilità di emergere», assicura Peters. Sia Peters che Hoffman danno una nuova, positiva spinta alla nozione foucaultiana di «unità-impresa». Sul finire degli anni Settanta Michael Foucault ha descritto l’emergere del cosiddetto homo oeconomicus, le cui abilità innate o acquisite, siano esse fisiche o intellettuali, sono convertite in capitale umano. Il soggetto agisce come «un imprenditore di se stesso […] che in quanto tale è il proprio capitale, il produttore di sé e la fonte dei [propri] redditi».

«Fa sì che le opportunità vengano a te»

LinkedIn rappresenta la piattaforma ideale per testare gli esercizi proposti da Peters e Hoffman per diventare rispettivamente un brand e una startup. L’interfaccia enfatizza la necessità di migliorare costantemente il proprio profilo, che idealmente dovrebbe unire valori personali a risultati professionali. Il tuo profilo è aggiornato? Che cosa dice delle cause che supporti? Ti sei mai offerto volontario per un’organizzazione? Quali sono le figure pubbliche a cui ti ispiri? Hai mai vinto un premio?, ecc. Come indicato in un video promozionale, LinkedIn «è un curriculum che non dorme mai» e condivide di default qualsiasi aggiornamento con la rete dell’utente ricompensandolo alla fine con una medaglia «All-Star».
Una funzionalità aggiunta di recente consente agli utenti di ottenere endorsement relativi a competenze specifiche. Queste raccomandazioni costituiscono ciò è chiamato informalmente «mosaico di endorsement», un termine utilizzato dai servizi online che forniscono approvazioni false a pagamento. Analogamente al «Mi piace» di Facebook, gli endorsement non servono solo a confermare abilità e competenze, ma nel contesto di LinkedIn esprimono silenziosamente ma performativamente la speranza di una transazione reciproca: «Ti ho raccomandato, mi raccomanderesti anche tu?»

I tutorial per ottimizzare il proprio profilo abbondano, alcuni dei quali prodotti da LinkedIn stesso, popolando un vero e proprio mercato di auto-aiuto professionale. Una delle tattiche principali riguarda l’immagine del profilo: «il tuo viso dovrebbe occupare almeno il 60% dell’immagine», «sii serio ma non cupo», e via dicendo. In un tutorial pensato per i reclutatori, uno dei suggerimenti è quello di «trasudare approcciabilità». La quantificazione delle soft skill dell’episodio «Caduta libera» di Black Mirror non sembra poi così distante. Viene da chiedersi se ci sia effettivamente qualcosa di nuovo in questo. Tutti sanno che è importante vestirsi adeguatamente per un colloquio di lavoro. Ma il colloquio di lavoro è ora perpetuo e un contegno professionale (qualunque esso sia) è richiesto in modo permanente. La vita sociale diventa così un elevator pitch in un grattacielo dai piani infiniti.

«Curioso di sapere come ti collochi rispetto ai tuoi contatti?»

Secondo Peters, la carriera è diventata «una scacchiera. O addirittura un labirinto». Questo è forse il motivo per cui LinkedIn sente il bisogno di ricostruire artificialmente un sistema di classificazione verticale e univoco basato sulle visualizzazioni del profilo. In questo modo la competitività sottesa alla costruzione di una carriera emerge in termini di design dell’interfaccia. Gli utenti dotati di un account gratuito hanno accesso ai profili con posizioni contigue alla propria e a quelli più popolari. Questo sistema ha una duplice funzione: esso si presenta innanzitutto come prezioso insight da vendere agli utenti premium. Contemporaneamente il sistema offre a tutti gli altri utenti un rassicurante traguardo da raggiungere: la vetta della propria classifica.

Si tratta di una funzionalità unica nell’ambito dei social media dominanti, dato che su Facebook o Twitter la popolarità di un utente può essere soltanto dedotta dal numero di contatti e dalla quantità di Like e Retweet. E non è la sola: LinkedIn consente agli utenti di conoscere chi ha visitato il proprio profilo. Si scopre così che i profili più frequentati sono quelli di «donne giovani e attraenti», come dimostrato da David Veldt. È qui che iniziamo a comprendere il valore indiretto di una piattaforma come LinkedIn: il fatto che i social media generalisti impediscano di riscontrare tali espressioni voyeuristiche non vuol dire che esse non avvengano. In tal senso, la trasparenza utilitaristica di LinkedIn ci aiuta a formulare domande generali sull’utilizzo dei social media e sul modo in cui essi influenzano la percezione dell’avanzamento professionale.

«Congratulati con X per il nuovo lavoro»

Come sottolinea Geoff Shullenberger, uno dei motivi per cui Peter Thiel, il controverso cofondatore di PayPal, ha originariamente finanziato Facebook è perché il sito incarna una teoria a cui Thiel è particolarmente affezionato: la teoria mimetica della vita sociale di René Girard. Secondo Girard, gli umani desiderano alcune cose perché altri umani le desiderano. Il desiderio è quindi triangolare: esso coinvolge un oggetto, un soggetto che lo desidera e infine un altro soggetto che imita il primo. Non è difficile capire come Facebook, attraverso Like e reazioni, sia in grado di materializzare segnali di desiderio e sia dunque in grado a sua volta di plasmare, almeno in parte, il desiderio stesso.

Oltre al «Ciao, vorrei aggiungerti…», c’è un altro tipo di email che ricevo spesso da LinkedIn. La formula è la seguente: «Congratulati con X per il nuovo lavoro». Ogni volta che i miei colleghi aggiornano la loro attuale carica professionale, LinkedIn mi avvisa, esortandomi a rispondere. Mi si presenta un risultato desiderabile per cui mi dovrei complimentare, materializzando così un segnale di desiderio. Tali avvisi non tengono conto della situazione professionale del ricevente; sono indifferenti alle ansie di chi cerca lavoro, anzi le esasperano, rendendo il successo degli altri a portata di clic.

«Scopri come ti posizioni rispetto alla concorrenza»

LinkedIn è così diverso da Facebook? I social media sono generalmente intesi come piattaforme che facilitano o amplificano la comunicazione interpersonale. Ma oltre a questa funzione fondamentale, i social media promuovono anche l’amministrazione imprenditoriale di un personal brand la cui efficacia viene costantemente misurata e classificata. Al giorno d’oggi, esaminare il profilo Facebook di un candidato prima di assumerlo è questione di buon senso. Inoltre su Facebook gli utenti sembrano letteralmente delle «unità-impresa», in quanto i loro profili hanno lo stesso aspetto di quelli delle aziende. Le cose stavano diversamente qualche anno fa, quando la bacheca di un utente assomigliava a un curriculum mentre quella di un brand, con la sua immagine di copertina, ricordava un spazio pubblicitario. Si sviluppa così l’idea che il curriculum sia uno strumento insufficiente per promuovere l’impresa di sé. Tuttavia non è chiaro cosa possa sostituirlo adeguatamente (non saranno mica le partite di calcetto, come suggerì il ministro Poletti?) L’ansia che deriva da questa incertezza permea tutti i social media ma tendiamo a trascurarla in favore di concetti quali comunità e condivisione. In definitiva, la dimensione individuale dei social media è negata, così come le pressioni subite dall’utente come singolo, e paradossalmente isolato, essere umano.

Acquisizione

Nel dicembre del 2016 LinkedIn è stato comprato da Microsoft per 26,2 miliardi di dollari, una delle maggiori offerte nella storia della tecnologia. Non sorprende che Microsoft abbia promesso di preservare il marchio, la cultura aziendale e l’indipendenza del servizio, ma nessuno sa esattamente cosa succederà. LinkedIn potrebbe presto trasformarsi in qualcosa di completamente diverso, oppure lentamente scomparire.

Sarebbe un peccato.

Quando Facebook chiede «a cosa stai pensando?», incita gli utenti a condividere sentimenti e pensieri, acquisendo al tempo stesso dati che possono essere analizzati attraverso modalità difficilmente deducibili dalla generica domanda originale. Il sociologo William Davies confronta questo ambiguo processo di indagine con il metodo impiegato per esaminare un focus group. Uno specchio a senso unico viene utilizzato per osservare i soggetti, che sono collocati in un ambiente confortevole che favorisce la convivialità. Mentre i soggetti socializzano, le informazioni rilevanti vengono raccolte senza problemi. Questo metodo è particolarmente efficace quando i soggetti non si rendono conto che la raccolta dei dati è in corso.

Controintuitivamente, l’informalità favorisce l’inaccessibilità. Secondo Davies, «le nuove forme di linguaggio emozionale dei social media possono impedire all’utente di sviluppare una prospettiva più obiettiva o spassionata». Questo è il motivo per cui la franchezza di LinkedIn è preziosa: il social dei professionisti tende a esplicitare alcune dinamiche presentate sui social media in maniera edulcorata, pur essendo attuate dietro le quinte in modo brutalmente razionale.

Incarnando apertamente l’ossessione collettiva nei confronti della carriera e del successo, LinkedIn la rende più evidente. Quando il sistema di classificazione è così visibile, ci si comincia a chiedere se la classifica abbia effettivamente senso. Come dimostrano le reazioni ironiche allo spam professionale di LinkedIn, tale sfiducia è plausibile. Purtroppo però le simpatiche illustrazioni tipiche di Facebook stanno arrivando; la «svolta retorica verso la convivialità» di LinkedIn è già in atto. È tempo di prepararsi: presto ci toccherà cercare lavoro inviando scintillanti sticker animati ai nostri futuri capi.

[Saggio pubblicato originariamente in inglese su Modes of Criticism. Illustrazioni di Krisis Publishing.]