Hai avuto tanti nomi, Cibele. Questo ti è capitato per caso. Ti ho chiamata così perché tra i tuoi nomi è quello più carino. Non è un nome segreto. Ma nemmeno da spiattellare troppo in giro. Non ho mai scritto a una divinità, Cibele, figurati a quella che per i Greci e i Romani era la madre di tutte le divinità. Non è una cosa comune per una persona atea. Da atea posso fare a meno di te, ma in qualche modo sei ancora qui. Voi divinità vi rifiutate di morire. Sei sempre qui, immortale, nella fantasmagoria della vita quotidiana. Sei sempre invocata e coinvolta.
Le persone che hanno meno sono quelle che hanno più bisogno di divinità. Quando non hanno niente, possono almeno avere un dio. Quando nessunə ci aiuta, ci conforta, combatte al nostro fianco, ci sono sempre gli dèi. È una questione delicata. Ci sono gli dèi del potere e gli dèi della gente. Le loro divinità e le nostre divinità – e di solito sono aspetti diversi dello stesso dio. La fede è il fentanil dei popoli, ma anche il callo di un mondo spietato.
In Il balcone di Jean Genet, per esempio, la repubblica va a fuoco e la classe dirigente proietta gli ologrammi della versione più terrificante degli dèi in carica. Qui intorno regna la specie più dominante e testa di cazzo tra gli dèi celesti, cioè il dio dell’ordine e della punizione. Quello che non va d’accordo con gli altri. Ora che la repubblica sta morendo, suppongo ci sia da aspettarselo che il suo dio più violento si senta incoraggiato a chiedere ancora più sacrifici. I rituali decadenti di questo Stato in fallimento sembrano ogni anno più abietti.
La schiavitù di un dio come ordine e l’ordine come dio. Qui a New York, i devoti di quest’ordine si appostano agli angoli delle strade, alle stazioni della metro, devoti ai rosari dei loro telefoni, alle loro uniformi blu, che accarezzano il calcio delle loro pistole. Ogni anno, la città attinge dalle nostre offerte comuni e paga per averne di più. La bile di un mondo bilioso.
Ci sono un sacco di fedeli dell’ordine che sono attratti anche dal tuo culto, Cibele, da grande madre quale sei. Ti chiamano Natura. Mi chiedo però se ti onorano come desideri. Ti trasformano in una madre terra e usano la tua natura come alibi per dichiarare corrotte le ragazze come me. Il culto terreno dell’ordine si allinea così facilmente con il culto celeste dell’ordine. Per loro è tutta una questione di ordine, a prescindere che l’ordine arrivi da sotto o da sopra, dalla terra o dall’eternità, da mamma o papà.
Gli dèi sono sempre tutte le cose che diciamo che sono, seppur contraddittorie: ordine e caos, uguaglianza e differenza, morte e creazione. Io voglio solo altri modi di dire il tuo nome, altri riti per implorarti. Cibele: dea delle soglie, delle transizioni, della montagna e della città, delle grotte profonde e silenti, dei rave di strada più chiassosi. Non sorprenderò te, né altre, dicendo che venero la tua energia disordinata, gioiosa, aperta e stramba. Anche se non è tutta roba tua.
Sei venuta dall’Est, dalla Frigia, e hai sempre avuto un che di esotico, di altro, inquietante, per le sensibilità greche o romane. Eppure ti usarono per i loro intrighi e progetti coloniali, a loro piacimento. Provarono a contenerti. Ma tu te ne stavi seduta lì, con un leone in grembo. Il leone risponde solo a te, e tu non rispondi a nessuno. Il potere vuole rivendicarti, usarti, ma quei felini mordono.
Per i Greci, tu eri un po’ un sentimento sotterraneo. Popolare ai margini, tra gli stranieri e quei cittadini che si sentivano estranei. Si ammantavano della tua alterità e ci ricamavano sopra. Ti resero una delle loro divinità rave. Ballando e cantando e sballandosi come se non ci fosse un domani. I Greci ti hanno messo in mano quel tamburino. A te non cambia niente: gli dèi sono proteiformi. Accettano qualunque lavoro gli venga affidato.
Nel linguaggio del mio tempo, Attis era trans, una t-girl, una ragazza alta, una ragazza come noi. È uno scandalo, perché noi non siamo destinate a essere amate – solo scopate
Il guaio era ciò che portavi con te. Volevano te, Cibele, ma non il tuo amante, Attis, e quello che poteva rappresentare. Dovevano cambiare il mito di Attis per non dover cambiare il loro mondo. Cambiarono la sequenza del tuo mito per adattarlo all’ordine dominante.
L’unica cosa giusta nella loro versione del mito di Cibele e Attis è che il vostro amore andava in profondità. L’Attis che amavi tu era un semplice pastore, un lavoratore ordinario, non un gran principe né un re. Ordinario, ma anche no. Il tuo amore non era né per un uomo né per una donna, per come loro intendono certe cose. Nel linguaggio del mio tempo, Attis era trans, una t-girl, una ragazza alta, una ragazza come noi. È uno scandalo, perché noi non siamo destinate a essere amate – solo scopate.
Tu amavi Attis e il tuo amore era incrollabile. Attis ti amava, ma non così tanto. Ləi non riusciva ad amarsi. Fin dall’inizio, Attis era ciò che oggi chiamiamo trans, e tu lo sapevi, e l’amavi allo stesso modo. Ləi non riusciva a credere nel tuo amore, Cibele. Conosco quel sentimento, molte di noi lo conoscono. Quando ho fatto la transizione, pensavo di non poter più essere amata.
Non credendo nel tuo amore, Attis finì per scopare un’altra ragazza. Credimi, tesoro, non significava niente. Ma ti ferì terribilmente. Fulmini e alluvioni, incendi e tempeste. Sono il tuo dolore e la tua rabbia. Ecco perché noi facciamo festa in tuo nome. Come se potesse rallegrarti. Come se potesse farti sentire di umore mite e arioso.
L’unica costante di queste storie è la parte corretta: Attis prende uno strumento affilato e si taglia i testicoli. Ma è la sequenza a essere stata alterata. Da una storia di offerta diventa una storia di classificazione. Attis non si taglia le palle per penitenza dopo averti lasciata per un’altra. Lo fece molto prima. La storia inizia così. Le taglia e le offre a te. È così che vi incontrate. Sono due gesti: il taglio, per sé; il regalo, per te. Non è un sacrificio; Attis sta meglio senza. Attis rifà il suo corpo e ti onora in quanto dea del potere di rifare il mondo.
Alle ragazze come noi non servono spiegazioni per il taglio di Attis. È semplicemente una t-girl che lavora la carne. Ma gli antichi andavano pazzi per la castrazione (come alcuni oggi). C’era bisogno di una storia per giustificare come mai un «uomo» libero avesse fatto una cosa del genere. Al contrario dei moderni, sapevano per esperienza cosa succedeva castrando una capra, un montone, un toro o un cavallo – o uno schiavo. O almeno ne sapevano più di Freud, che non aveva idea di quale parte andasse recisa. Ma potevano solo concepirla come una privazione, una perdita, una caduta.
In tantissimi miti le palle tagliate danno origine a mostri. Come se potesse essere solo un male. Tu e le ragazze come me, Cibele… noi amiamo i mostri. Sono moderni. Mostrano i modi in cui il mondo può diventare altro. Sono un segno di freschezza. Questo è il tuo mondo in tutti i modi in cui va e viene.
È questo che non riescono a capire di te, e delle ragazze come noi: se tu sei la dea della creazione, perché prendi la trans Attis come amante? Perché la creazione non è solo procreazione. Tu sei la dea di ogni fare e creare. Di ogni modo in cui le differenze entrano nel mondo. Dea della prammatica. Ecco perché Attis ti offre la sua pelle recisa. Per amore del mondo.
Nella tua casa di montagna, ti circondi di leoni, e lupi a volte, ma anche di persone che lavorano, fanno i pastori, cacciatori, raccoglitori, fabbri e apicoltori. Ballano per te, ballano con te, seguono le linee che stabilisci tu. Le curvano, le rendono queer, contorcono con te un vivere, un guarire, una casa. Sempre con un passo attento, senza dimenticare che al bisogno i tuoi leoni uccidono.

Il tuo non è un puro fare. C’è sempre un po’ d’arte e un po’ di tecnica. Le ragazze come noi lo sanno bene. Perdona l’anacronismo: hai sempre avuto una relazione speciale con noi t-girls. Con coloro che ti onorano come madre, e che sono a loro volta capaci di farsi madri ma sempre e solo in modi concepiti in altro modo.
Avvertenza per le donne trans che stanno leggendo: parlo di noi, ma è un noi che riguarda sempre e solo qualcuna di noi. Noi è un-altro. Per chi non vuole essere inclusa: ci sono un sacco di altre congreghe di cura. Forse possiamo confederare i nostri vari branchi e orgogli senza bisogno di confini attorno a noi.
Diamoci il nostro antico nome: siamo le Galli, le sacerdotesse di Cibele. Il nome forse indica «coloro che hanno bevuto dal fiume Gallo», in Frigia, la nostra casa. Secondo gli altri le sue acque ci rendono pazze, ma secondo noi ci riportano ai nostri sensi. E noi siamo tutta sensualità quando ti onoriamo. Forse «Galli» deriva da «galati», il popolo celtico arrivato in Frigia al tempo in cui i Romani si sono interessati al tuo culto. I Romani credevano che i celtici fossero frocie.
All’arrivo dei Romani, ci siamo scambiate un’occhiata e siamo andate avanti. Indossavamo vesti malva e zafferano, cosparse di ninnoli, avevamo i capelli ossigenati e portati in lunghe trecce, profumati di mirra. Alti copricapi al posto di corone, il trucco luminoso e volgare, icone appese al collo. Ballavamo su musiche selvagge, di tamburi e cimbali, tamburelli e flauti doppi. Sculettavamo sotto la nostra massima drag. Nel giorno di festa, anche i Romani gettavano petali di rosa al nostro passaggio, perché ogni t-girl merita di ricevere rose in vita.
I Romani ci fissavano inebetiti ed esultavano, ma solo quando davamo spettacolo. Eravamo troppo per quei severi riproduttori. Perfino Catullo era sbiancato vedendoci. Aveva capito, se non altro, il desiderio di stare fuori dalla mascolinità, anche se lo spaventavamo. Il resto degli sceneggiatori romani ci ha usato come materiale. Ci ha addomesticate in qualcosa che potesse essere interiorizzato in modo sicuro. Come gatte domestiche.
Roma, ai tempi d’oro: era Hollywood e il Pentagono, tutto in uno. Ha acquisito qualunque mito che le sembrasse buono per tenere alto il morale. Tu sei stata reclutata nella guerra contro Annibale l’Africano. Probabilmente non hai contribuito alla vittoria, ma glielo abbiamo lasciato credere.
La tua pietra sacra è venuta con te a Roma? Le fonti antiche sono poco chiare. È andata persa, ma è ancora nel mondo, da qualche parte. Niente di più calzante di un meteorite nero – un oggetto alieno proveniente da molto al di là dell’orizzonte. Divinità della terra luminosa e della vuota alterità.
Volevano te ma non le Galli, non me né le mie sorelle transessuali. Noi eravamo incluse nel pacchetto. Quegli scribacchini romani non riuscivano a decidersi se fossimo uno scherzo o una minaccia. Le Galli, ragazze trans: siamo semplicemente la partitura, il taglio, in cui appare l’alterità. Il segno davanti a cui i fanatici dell’ordine terrestre e dell’ordine celeste sbiancano e schiumano. Un’alterità aliena ed estremamente intima – qui in carne e ossa.
Quando i Romani acquisirono la proprietà intellettuale del tuo culto, Cibele, tentarono di festeggiarti a modo loro: ammazzando montoni e tori, sguazzando nelle pozze di sangue. Poi via a guardare lo sport. Questi sono i Romani per te. A volte penso che il loro stato di schiavi non sia mai finito. Noi Galli siamo diventate parte dello spettacolo, perché potessero guardarci imbambolati per strada. È un modo di campare.
Poi arrivò il culto cristiano del dio-cielo, che invece ci odiava senza mezze misure. Quell’idea del sacro è una miseria che odia la carne. Non fa per noi. A noi non piace il sacrificio. Noi siamo ora. Balliamo cantando, ululando. Ci tagliamo persino la pelle per sentire il brivido del dolore scelto. Entriamo nella carne, in questa vita ferita, e seguendo il nervo, ci fondiamo con i mondi.
Personalmente, non sono qui per il taglio, ma ricavo piacere dal dolore di un tatuaggio in un punto sensibile. La prima volta ho addirittura evocato il tuo nome, Cibele: ero stesa sul lettino a faccia in giù, mentre nostra sorella Larch Needles incideva le sue linee graziose e contorte dietro la mia coscia sinistra. Un motivo a mano libera disegnato da lei, ispirato al ghiaccio rotto sul fiume Hudson qua vicino.
Non è proprio roba mia, ma ho apprezzato lo schiocco e il bruciore di un frustino sulla stessa coscia. Dahlia, prima di diventare professionista, veniva da me per bacchettarmi. Per suo diletto – non le piacevo. La mia soglia del dolore per un colpo di frusta di Dahlia era sette su dieci. Il tatuaggio da Larch Needles lo ha portato a undici – per tre ore. Ho invocato il tuo nome. Invano, lo sapevo. Ma l’invocazione era d’aiuto. Non si contratta con te. Il dolore, le piaghe, sono tutte tue. Non c’è molto altro qui per noi mortali che lo spettacolo effimero della vita. Le tue ragazze ne sanno qualcosa.
Leggendo quello che i Romani e i cristiani hanno scritto sulle Galli, avverto quel misto così familiare di fascinazione e repulsione. Chi studia i classici nel mio tempo non è certo da meglio. Leggo tra le righe. Noi ragazze trans contemporanee dall’altra parte lo sappiamo cosa vedono, o cosa pensano di vedere – e vediamo una vita più piena.
Le Galli che bevevano il piscio della cavalla incinta per mantenere liscia la pelle, e farsi crescere il seno. Le Galli che tiravano su qualche soldo per il tempio vendendo il culo a quei coglioni dei Romani. La ragazza trans che ama il sesso T4T delle Galli e i sentimenti, e i drammi lesbo-trans. O le tresche di basso profilo con i cittadini rispettabili, che non possono mai uscire allo scoperto. Per cui a volte i nostri culi sono la soglia alla tua soglia.
Come quella volta che mi sono vista con Jane. Ci siamo conosciute su una app di dating. Bevute e confessioni. È notevole quello che la gente può dire a ragazze come noi. Siamo tornate al suo hotel. Lavoro, con la lingua e le dita, sulla fica e la clitoride. Si mette a piangere. La abbraccio. Nessunə la tocca così da un po’, e più che altro nessun ha mai ascoltato la sua storia. Quello che mi ha detto mentre bevevamo. Che a volte c’è un altrə. C’è Jane e c’è David.
«Sei David ora?»
«Sì.»
«Vorrebbe venire?»
«Sì.»
Quindi mi sono lubrificata le dita con i suoi fluidi e gli ho scopato il culo con le dita. È venuto e ha pianto, tutto insieme. Allora l’ho stretto per un attimo. Finché lei non mi ha gentilmente chiesto di andarmene.
Quando leggo di te e di noi, tra le righe leggo più che altro che le Galli hanno fatto da madri alle giovani ragazze che accompagnavano nell’esistenza, nella vita. E lo hanno fatto abbigliate in vesti rituali. Senza dover dipendere da dottori cis in divise da ospedale. Vedo le nostre congreghe di cura, senza dubbio attraversate da molte lotte e faide – anche quel lato della nostra vita fragile era tutto lì.
Abbiamo vissuto i nostri giorni speciali a Roma, ci hanno viste e poi spinte di nuovo ai margini. Come il mese del Pride a New York. Le Galli mettevano in piedi dei begli spettacoli drag, così che i Romani potessero alleviare il loro panico gender a una distanza di sicurezza. Non è cambiato granché. Una manciata di t-girls spettacolari ha il permesso di svolazzare ai margini luminosi dell’industria culturale. O, come me, dell’accademia. Quella visibilità simbolica fa poco altro per il resto.
Si penserebbe che Lucrezio avrebbe capito. Lui sa che sei più poesia che cosa, un beat infinito, auto-generante, auto-variante, auto-elaborante. Un mondo in versi, fatto di lettere, macchie più piccole infinitamente ricombinabili. Non gli entra in testa che ci sono molti modi in cui può nascere un mondo, o una poesia. Che non è tutto cazzo-nella-fica, sesso etero-cis attraverso cui si fa quello che è fatto.
Lucrezio non capisce che noi Galli siamo sacre perché siamo l’impronta di un’altra fattura. Un corpo può essere altro. È una cosa sorprendentemente antica, che i corpi possono essere moderni, fatti di carne e rifatti di carne. Eppure: con ingegno transessuale, nostra sorella Luce deLire legge Lucrezio come una di noi: nel poema di Lucrezio c’è un taglio, lì dove parla delle Galli. Qualcosa è assente, forse offerto a te. Un buco trasformato in una poesia; una poesia completata da un taglio.
Per noi contemporanee, il mondo non è un poema. Ha una forma più problematica. Il mondo è autofiction, LOL.