Sul finire del quarto secolo Evagrio Pontico, leggendario asceta e monaco cristiano, metteva in guardia i suoi fratelli sui pericoli dei demoni; essi «sono infatti freddissimi, paragonabili al ghiaccio», e poggiandosi sulle palpebre dei monaci per scaldarsi inducono una tremenda sonnolenza, spesso proprio quando si è impegnati nell’atto della lettura. Non è un caso isolato: una moltitudine di testimonianze, sparse per tutto il Medioevo, collega insieme distrazione, perdita di attenzione e presenza demoniaca. Come notifiche di una tecnologia infernale, i demoni appaiono quando non li stiamo aspettando: predano la nostra attenzione, la portano altrove da dove ci eravamo prefissati; arroventano l’immaginazione, insieme la eccitano e la sopiscono. Per questo, come racconta Jamie Kreiner nel suo saggio La mente vagabonda, i monaci avevano messo a punto, nel corso dei secoli, un gigantesco campionario di metodologie e regole per esorcizzare la distrazione, scacciandone il richiamo demoniaco. Bisognerebbe pensare alla regola monastica come a un gioco «per piegare la cervice della mente», diceva nel VI secolo il vescovo Ferreolo di Uzès, e commenta così Kreiner: la regola era «una tecnologia per imbrigliare l’energia psicologica». Una tecnologia concepita tanto come una scienza meditativa quanto come una ingegnosissima arte della memoria; in ogni caso, ben prima delle attuali lamentazioni sulla perdita dell’attenzione indotta dagli smartphone e dai loro chiassosi lampeggiamenti, i demoni erano notifiche. E come in qualunque scambio di informazioni, se invece che scacciarli ci mettiamo in dialogo con loro, i demoni ci annunciano oggi un altro oscuro messaggio: siamo ancora medievali.
Certo: è difficile allacciarsi con un’espressione così perentoria a un’epoca come il Medioevo, essa stessa fabbricazione disomogenea, strabordamento di tempi che si inseguono, si contraddicono, si montano a vicenda in un’immagine sempre anamorfica. Peraltro, troppo spesso il termine “medievale” viene impugnato da chi vorrebbe fare dell’oscurantismo la sua unica cifra, il grossolano termine di paragone con ogni difetto o prurito del “sentire” moderno. Non è così. Di quale Medioevo parliamo? Il Medioevo «non si è sviluppato sempre nella stessa direzione né dappertutto né con la stessa velocità» commentava Jurgis Baltrušaitis nel suo studio sulle metamorfosi del gotico, insistendo sui grovigli di epoche e correnti, sulle cesure e sugli improvvisi risvegli che, avvicendandosi, producono un’epoca tutt’altro che statica e univoca. La stessa estetica del “gotico”, che oggi riaffiora in molteplici contesti (si pensi soltanto all’universo di videogiochi plasmato da Hidetaka Miyazaki) ha per Baltrušaitis una genealogia tortuosa:
“La tradizione identifica la genesi dell’arte gotica con il fiorire di un mondo nuovo: al Medioevo contrassegnato da civiltà millenarie fa seguito un Medioevo giovane, essenzialmente moderno. L’universo romanico è sovrumano. Si sviluppa, come un’Apocalisse, sotto il segno della bestia, nel terrore della rivelazione e del mistero. Ma è anche speculazione, geometria e cifra. Sono i ragionamenti e i calcoli più rigorosi a scatenare l’immaginazione. L’universo gotico […] restituisce il volto della vita in un accordo profondo di natura e spirito, nell’armonia e nel raccoglimento. […] Il mondo delle forme e delle immagini gotiche certo non deriva dal mondo delle forme e delle immagini romaniche. Si afferma, al contrario, distruggendo ciò che lo precede”
E tuttavia, questo annientamento delle forme precedenti non può essere assoluto, e anzi contraddice progressivamente il proprio mandato di distruzione. Il gotico mantiene e coltiva in sé un resto di mostruoso, scuote i propri tormenti, ridesta – per esempio nelle numerose decorazioni dei manoscritti – tutta una fauna fantastica, una turbolenza di incroci e mescolamenti “queer” che attingono dall’umano solo per sfigurarlo, sconvolgendone ogni carattere certo. È il supplizio di ciò che si afferma come stabile, e che la pagina invece tramuta in mistero portentoso: uomini con due teste, cinocefali, acefali, con code di cane, di serpente, di sirena, senza zampe o millepiedi.
Siamo “medievali” non quando siamo grossolani o retrogradi, ma quando ci accorgiamo del crollo dell’umano come unica misura certa
Qualunque forma si versa nell’altra, come in una miniatura dove una testa umana diventa una proboscide e poi, subito dopo, un tralcio attorcigliato alle lettere della pagina. La “natura” riscoperta partorisce il proprio sconcerto, ci dice – a distanza di secoli – che niente è mai davvero “naturale”: «gli artifici contro natura e la natura con gli artifici». Le composizioni proliferano nutrendosi dei propri passati; dappertutto nel gotico sembra insinuarsi l’anacronismo romanico, il tempo di ritorno, la persistenza del prodigio che non vuole scomparire. Leggiamo sempre in Baltrušaitis che
“Il Medioevo gotico non è irrigidito in un unico ordine di leggi, ma evolve incessantemente. […] Sopravvivenze e resurrezioni si susseguono e si aggrovigliano, portando alla fusione di canoni differenti. Una volta superato lo stadio del classicismo, è proprio il mondo gotico a favorire una rinascita di quel mondo romanico rispetto al quale, in origine, era in totale opposizione. Il dramma, la farsa delle forme sovrabbondanti e convulse succedono alla serenità e alla grazia manierata. Con i suoi pittoreschi capricci, le architetture fiabesche, le maschere e le figure patetiche, le statuine e le grottesche, lo stadio «ellenistico» apre la strada a un riflusso del fantastico”
Insomma: l’atto di definire precisamente una fisionomia del Medioevo si scontra con una turbolenza di riflussi, anacronismi e resurrezioni – discorso che vale per ogni epoca che si vorrebbe nettamente contrassegnata, inclusa la “nostra”. Così, nel groviglio di tempi che dimorano in noi, siamo “medievali” non quando siamo grossolani o retrogradi, ma quando ci accorgiamo del crollo dell’umano come unica misura certa; quando il millenarismo stringe attorno a sé il richiamo ineluttabile della fine, ma anche quando insiste a vedere, dopo la sua scongiura, il volto di un mondo nuovo. Siamo medievali soprattutto quando, in maniera avventurosa, reclutiamo immaginativamente alcune ossessioni di quegli “oscuri” passati, le risvegliamo e ne facciamo le figure del mondo contemporaneo: il vegetale, l’animale, lo storto, l’aberrante, il cosmico, il mostruoso – e l’ininterrotta concatenazione tra ciascuna di queste cose. Uno scambio fluido, filtrante in ogni dimensione della vita, che un antropologo dello scorso secolo, Piero Camporesi, nel suo Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue, avrebbe così sintetizzato: «Logica astrale, logica corporea e logica vegetale si muovono sulla stessa ellisse, percorrono gli stessi itinerari, obbediscono allo stesso calendario». Uno sparpagliamento dell’intelligenza in ogni dimensione cosmica, uno scuotimento dell’inerzia che prodiga vita, anima la materia o reagisce alla sua animazione, sia essa magia, miracolo o meccanica. Si pensi a tal proposito al rapporto medievale con le immagini: teatri di statue e crocifissi che parlano, sudano e sanguinano; che vengono strofinati, accarezzati e baciati fino alla consunzione; che agiscono, transustanziando la materia della fede in vera carne; un «senso di meraviglia e godimento nella rappresentazione che rompe i confini della rappresentazione ed entra nella vita stessa» chiosava Michael Camille in The Gothic idol: «in un mondo in cui immagini rare e costruite artificialmente si muovevano e sembravano parlare, […] le rappresentazioni che prendono vita rivelano questa estetica del movimento immanente all’immagine».
Un’estetica dell’animismo, diffusa nella cultura medievale, che oggi torna a visitarci nel nostro rapporto con le immagini, capaci di infiltrare ogni lato dell’esistenza quotidiana, di rivoltare intere campagne politiche, di ridefinire – con le loro magnificazioni scientifiche e i prodigiosi distanziamenti – la figura dell’universo per come credevamo di conoscerla. Un culto che fa della mediazione una forma di fede: che dubita dell’immediato, riconoscendo alla seconda natura delle immagini una potenza più forte, una capacità di agire in noi, di costruire e avverare interi universi. Non importa quanto dubitiamo, quanto siamo capaci di svelare i meccanismi: se lasciate agire – se credute malgrado tutto – le immagini ci muovono. E anche in questa fede potremmo dirci medievali.
Se le notifiche sono demoni, le macchine, mediando, funzionano come trasmettitori spirituali
Occorre peraltro sottolineare che la volontà (assai comune nel Tardo Medioevo) di credere all’animazione della materia non si basava semplicemente su una sciocca superstizione, ma su valutazione radicale della mediazione, anche quando patente. Era una fede nella materia come luogo di trasmissione divina; le immagini, i crocifissi, le reliquie sanguinanti potevano cioè agire anche per mano di altri, ma ciò non toglieva la loro capacità di veicolare messaggi, come per esempio nel teatro delle statue parlanti. Si prenda in considerazione, a tal proposito, tanto il saggio di Caroline Walker Bynum sulla Christian Materiality quanto il lungo studio dedicato all’animazione medievale di Jørgensen, Skinnebach e Laugerud, Animation between Magic, Miracles and Mechanics: Principles of Life in Medieval Imagery, dove leggiamo che:
“La mediazione patente non sminuiva il valore spirituale dell’apparizione-audizione divina, perché il busto dotato di una bocca, il tubo parlante che faceva da conduttore e il sacerdote ispirato che prestava la sua voce alla figura erano tutti media – o “bocche” – per il messaggio divino. Dio parlava attraverso la marionetta, attraverso il tubo, attraverso il sacerdote e l’intera animazione, tutti parte del sistema di trasmissione santificato. Era esattamente il carattere mediato dei suoni che assicurava la loro capacità di trasmettere verità superiori al di là della normale comprensione umana”.
Se le notifiche sono demoni, le macchine, mediando, funzionano come trasmettitori spirituali. Questa capacità di santificazione dei sistemi di trasmissioni, che trasforma un meccanismo in una tecnologia spirituale ricorre, in molteplici formati, attraverso tutta un’epopea che dalla statua parlante arriva al telegrafo, all’animismo elettrico e alle sue molte figliazioni – basti solo pensare che uno dei più noti giornali spiritisti prendeva il nome di Spiritual Telegraph, e che una celebre spiritista, Emma Hardinge Britten, spiegava come attraverso il telegrafo «gli spiriti invisibili potevano sibilare messaggi in sequenza».
Con l’animismo elettrico e il suo portato materiale, riemerge qualcosa che nella contemporaneità ammanta il mondo di incanto: l’Internet of Things, la possibilità che ogni oggetto possa perdere la sua prima specificità (la sua funzione inizialmente dichiarata) per diventare trasmettitore di informazioni e messaggi in un ecosistema vastissimo, che ci avvolge. Un bottone-computer, un orologio-telefono, oppure una statua, un frigo, una lampada, fino all’epidermide – alla pelle del mondo. O ancora, e più radicalmente, l’idea che, grazie proprio alle nuove tecnologie, possiamo riscoprire l’intelligenza diffusa nei materiali che credevamo soltanto inerti. Intelligenza disseminata anche dove meno pensiamo, e che ci costringerà nei prossimi anni a congedarci da un’idea di futuro come realizzazione di una fantasia fantascientifica modellata sull’umano per approdare invece al dissomigliante, al bizzarro, all’invertebrato, al mostruoso così vicino alle fantasticherie medievali. Come spiega Laura Tripaldi in Menti Parallele:
“La verità è che in molti casi gli automi che verranno non ci somiglieranno per niente: saranno amorfi e gelatinosi come amebe, o avranno l’aspetto di bizzarri invertebrati, capaci di percepire un mondo fatto di segnali a noi del tutto inaccessibili, e tuttavia saranno sistemi complessi e integrati, dotati di un corpo e capaci di ‘sentire’ con ogni centimetro dei materiali che li compongono”.
In qualunque caso, prima ancora di arrivare agli automi del futuro, oggi a divenire invertebrate sono innanzitutto le nostre teorie, le separazioni nette tra materia inerte e materia animata, tra vivo e morto, utile e inutile, visibile e occultato. Già da tempo l’Internet of Things opera una spiritualizzazione della materia non dichiarata ma onnipresente che, mentre parcellizza le proprie tecnologie fino a renderle invisibili, sembra prendere in carico, radicalmente, il motto deleuziano: polverizzare il mondo, spiritualizzare la polvere. Spirituale e materiale, notifiche e demoni, cloud celeste e logica astrale inestricabilmente riuniti. Ogni cosa santificata. Migrazione che, attraversando statue parlanti, santi, automi e cyborg, riapproda una volta ancora al mago, alla magia nera tecnologica, al suo regno d’incanto – ma anche di dominio sistematico e sorveglianza – che ci penetra quotidianamente per mezzo della Macchina algoritmica. Scorrete “data”, disse il poliziotto, per parafrasare il titolo di un celebre romanzo. Seguendo l’intuizione di Edoardo Camurri: «La Macchina algoritmica spiritualizza la nostra materia, cioè traduce e decodifica i nostri pensieri, sentimenti, comportamenti e, a sua volta, materializza il proprio spirito riversando contenuti per controllarci attraverso una programmazione di significati specifici destinati a ciascuno di noi. Codificare e decodificare. Materializzare e spiritualizzare. Immaginazione e spazio digitale».
Immaginazione e spazio digitale. Negli ultimi decenni proprio l’esplosione dell’Internet of Things che ci ha costretti a ricartografare lo spazio del nostro cosmo, e con esso quello dell’immaginazione. Con il proliferare di dispositivi, siti web, piattaforme e social (sempre sull’orlo di divenire cybercatacombe) abbiamo visto risvegliarsi anche nuove divinità, demiurghi tecnognostici, miti, storielle, creepypasta. Più lo sviluppo tecnologico si affina, invade qualsiasi oggetto, traccia mappe dettagliatissime che si estendono ovunque, più la polvere delle bizzarrie s’insinua in ogni anfratto della vita – la rende autenticamente spiritata. E ancora: più il regno di Internet cerca di urbanizzarsi, di organizzarsi in maniera chiara (con una vera e propria colonizzazione delle frontiere digitali), più esso prolifera le proprie imprendibili aberrazioni. Vale anche qui il principio che Baltrušaitis attribuiva al Tardo Medioevo nel momento in cui l’uso dei portolani – i manuali per la navigazione costiera – mutarono completamente il modo in cui veniva tracciata la mappa della Terra, ampliandone la conoscenza ma anche la congerie di leggende: «La conoscenza della Terra si sviluppa in concomitanza con le sue leggende. Le carte geografiche diventano mappe delle bizzarrie e delle meraviglie». Prendiamo, come caso emblematico, l’Europa mostruosa cartografata da Opicino De Canistris nel XIV secolo e, per corrispondenza, i glitches altrettanto bizzarri raccolti ovunque su Google maps: «Appena restituito alle sue linee reali, il mondo intero viene riafferrato dalla leggenda».
Favole tecnologiche, cybercatacombe, liminal spaces, techgnosis, santificazione e potenza daimonica della rete. Così, al margine della cattura del “reale” e del nostro senso di onnipotenza, s’invera, nei buchi lasciati aperti dall’Illuminismo, un altro senso oscuro del cosmo, sovra-naturale. Da sempre, i luoghi ritenuti più marginali covano immaginazioni prodigiose capaci di avverarsi, di spalancare un nuovo senso dell’ignoto, di diventare improvvisamente centri di produzione di altre realtà: «Il margine del libro ebbe un ruolo capitale nel risveglio generale dei mostri» (Risvegli e prodigi. Le metamorfosi del gotico). Nei confini nuovamente tremolanti del nostro tempo, i tempi tremolano, s’incrociano, producono insurrezioni, smuovono la “realtà naturale” in maniere impreviste: «La reazione contro un ordine naturale svilupparsi tramite i marginalia non tarda a penetrare nella realtà stessa integrandola alla finzione e trasformando la finzione in un fattore della realtà». Tutto ciò valeva per la vita ai margini dei manoscritti, ma vale anche per noi. Siamo ancora spersi, ostinatamente medievali – e forse è meglio così. Ce lo dicono le notifiche. Ce lo dicono i demoni.