Nell’estate del 2023, il 92nd Street Y – lo storico centro culturale nell’Upper East Side – mi ha chiesto di tenere una conferenza sullo stato della critica oggi. Mi è sembrata una cosa che Susan Sontag avrebbe fatto, un pensiero con cui mi sono immensamente autolusingata, e con l’avvicinarsi del giorno della conferenza ho cominciato ad accarezzare l’idea di avere davvero qualcosa di grosso e serio da dire su come il critico avrebbe potuto affrontare la crisi di cui sentiamo tanto parlare ultimamente. Con «il critico» intendevo me stessa.
Poi una ruspa ha divelto una recinzione al di là del mare, e nel giro di poche ore i combattenti di Hamas avevano massacrato più di mille persone nel Sud di Israele. In rappresaglia agli eventi del 7 Ottobre, il governo di estrema destra israeliano ha dato il via a un brutale assedio di Gaza che, nel momento in cui scrivo, ha ucciso 33.000 persone (la stima è quasi sicuramente al ribasso). Era chiaro che era appena iniziata un’altra sanguinosa fase della lunga campagna israeliana di occupazione e genocidio in Palestina, quella che Rashid Khalidi ha definito la guerra dei cent’anni contro il popolo palestinese. Nelle settimane successive, molte persone del mondo dell’arte e della letteratura che hanno preso le distanze dal consenso quasi unanime a favore di Israele hanno subìto una repentina ondata di repressione. Il direttore editoriale di Artforum, per cui ho scritto due saggi contenuti in questa raccolta, è stato licenziato per aver pubblicato una lettera di solidarietà con il popolo palestinese; una premiata autrice ha lasciato il New York Times dopo aver firmato un’altra lettera aperta per chiedere la fine dell’occupazione; e le folle di studenti che con coraggio protestavano in tutto il paese sono state messe alla gogna pubblicamente, minacciate fisicamente e denigrate dai media, che per settimane sembravano dedicarsi solo e soltanto a rigurgitare la propaganda israeliana e a gettare dubbi sul «vero» numero di persone morte a Gaza.
Tra le istituzioni fortemente schierate a favore della guerra c’era anche 92nd Street Y, che inaugurò nel 1874 nella veste di Associazione dei Giovani Ebrei. L’8 ottobre – il giorno dopo l’attacco di Hamas – il centro aveva diffuso una dichiarazione di appoggio incondizionato a Israele che parlava minacciosamente di «un tempo per la guerra e un tempo per la pace». Due settimane dopo, all’improvviso la direzione annullò la presentazione di un libro con lo scrittore Viet Thanh Nguyen – che avevo conosciuto giusto la sera prima – perché aveva firmato un’altra lettera aperta in cui si faceva appello al cessate il fuoco, pubblicata dalla London Review of Books e firmata da centinaia di scrittrici e scrittori, tra cui anch’io. La decisione di annullare l’invito a Nguyen finì sui media nazionali e attirò rapidamente il biasimo dei vecchi amici dell’Y, molti dei quali annunciarono di volersi ritirare dagli eventi in programma. L’intero staff dell’Unterberg Poetry Center dell’Y, compresa la sua amata direttrice da ben diciotto anni, diede coraggiosamente le dimissioni in segno di protesta, non lasciando alla direzione altra scelta che cancellare tutta la programmazione autunnale del centro.
E così eccomi lì, a cercare di pensare a questa fantomatica crisi della critica mentre una serie di crisi nel mondo reale – riguardo i diritti delle nazioni e le rivendicazioni dell’anima – diventavano impossibili da ignorare. Spero che la guerra a Gaza sia per la mia generazione di scrittrici e scrittori quello che la guerra del Vietnam fu per le generazioni precedenti: ovvero, un evento che getti un po’ di chiarezza morale su un’élite intellettuale compiacente. Perché una guerra come questa richiede ai critici di sinistra di fare le dovute distinzioni tra una crisi politica con attori chiari e poste in gioco materiali, da un lato, e la crisi esistenziale e autocelebrativa che la critica attraversa costantemente, dall’altro.
Di certo la crisi politica non ci manca. Solo nell’ultimo decennio abbiamo assistito a una militarizzazione della polizia sempre maggiore, alla separazione di famiglie al confine, alla criminalizzazione dell’aborto e dell’assistenza sanitaria nell’affermazione di genere, a una sconvolgente epidemia e alla vera e propria scomparsa del sole qui a New York a causa di incendi scoppiati a centinaia di chilometri di distanza. E in tutto ciò, di cosa gorgheggiavano i cantori di jodel qui sulle Alpi della Kultur? Dell’idea che le persone giovani, ottenebrate dalle proprie categorie identitarie e dal risentimento per ingiustizie inesistenti, avessero preso il controllo dell’industria culturale, costringendola con il ricatto a fare brutti film. Il fatto che la stessa sinistra spesso non riesca a evitare di lamentarsi della «wokeness» – e qui chiamo in causa alcuni dei saggi contenuti in questo libro – mi sembra ogni giorno di più un grave fallimento intellettuale. È indubbiamente vero che nell’epoca dei social media è facile che la coscienza politica diventi una merce; possiamo osservarlo senza stare troppo a discutere, e a dire la verità senza troppi sforzi. Ma dare l’allarme riguardo a un pubblico troppo impegnato a fare la vittima o il fariseo per dedicarsi al serio affare della lettura equivale a unirsi alla gran parata di idiozie che marciano in tondo attorno alla sacra cattedrale dell’arte. Così accade che l’anti-woke di sinistra ricordi con aria cupa ai suoi compagni che l’estetizzazione della politica è uno scopo del fascismo. Ci auguriamo con tutto il cuore che non dimentichi la seconda parte della citazione di Walter Benjamin: «Il Comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte».

Lasciateci fare esattamente questo. Potremmo cominciare dal chiederci se questa presunta crisi della critica sia una crisi storica. Sicuramente è quello che ci dicono. Avrei potuto aprire il mio discorso al 92nd Street Y osservando che oggi i critici si stanno arrendendo alla «dannazione dell’egotismo»; che stanno riducendo l’arte a una «dichiarazione fatta in forma di opera d’arte»; che vedono ogni cosa attraverso un «filtro colorato religioso-politico»; che si stanno costruendo una reputazione sulla «violenza e l’estremismo della loro opposizione ad altri critici»; che stanno fossilizzando i «tessuti vivi della letteratura»; che stanno praticando «poco più che una branca dell’omiletica»; che stanno cercando di «limitare i soggetti a disposizione dell’artista»; che stanno dimostrando di «evitare risolutamente le sfumature e le distinzioni»; che se la stanno cavando con un «sentenzioso e distaccato tono dogmatico»; e quasi tutti sono «dilettanti della letteratura» che stanno palesemente cercando di diventare «formidabili e notevoli con il minimo sforzo».
Penso che oggi nessuna di queste osservazioni solleverebbe troppe polemiche. E comunque nessuna è mia: sono parole di Cynthia Ozick, Susan Sontag, Northrop Frye, T.S. Eliot, Virginia Woolf, H.L. Mencken, Oscar Wilde, Matthew Arnold, William Hazlitt, Samuel Taylor Coleridge e Samuel Johnson, che scrivevano rispettivamente nel 2007, 1966, 1957, 1932, 1923, 1919, 1891, 1864, 1822, 1817 e 1759. Non si può dire che questa illustre compagnia si trovasse d’accordo su molte cose. Eppure quando si sedeva a scrivere sullo stato della propria arte, ognuna di queste persone concludeva che la critica stava attraversando una terribile crisi che portava l’inconfondibile marchio del loro esatto momento storico. La stessa crisi della critica è, sembra, un prodotto esclusivo dell’ascesa del quotidiano britannico e un singolare effetto dell’alienazione sociale che seguì la Prima guerra mondiale e una caratteristica inesorabile della decadenza del capitalismo americano del dopoguerra. Vi renderete conto del problema: ognuna di queste argomentazioni è fatale per tutte le altre.
Con questo non voglio dire che ognuna di queste persone, nel presentare una diagnosi contemporanea, fosse ignara del carattere cronico della malattia. «Non troppo tempo fa mi lamentavo della prostituzione della critica letteraria come una caratteristica dei nostri tempi» scriveva Hazlitt nel 1822, «e mi sono sentito rispondere che all’epoca di Pope e Dryden era altrettanto scadente, se non peggiore». Ma la maggior parte dei critici, o perlomeno quelli che leggiamo ancora oggi, si sono accontentati semplicemente di notare questo schema ricorrente, sminuendolo come una buffa ironia del mestiere o prendendolo per una conferma del proprio istinto di gridare al lupo. Pensate a A.O. Scott, che nel 2016 ammetteva che «senza dubbio la gran parte dei critici di ogni generazione fa male il suo mestiere», ma denunciava, come se stesse inventando lui l’idea sul momento, il «clima polarizzato di belligeranza ideologica in cui troppo spesso la millanteria sostituisce le argomentazioni». È fin troppo facile dire che la critica è sempre stata in crisi. Eppure quasi mai il ciclo perpetuo di amnesie ed epifanie ha portato i critici a domandarsi se questa presunta crisi sia reale, e non soltanto una facciata che nasconde qualcos’altro. È una mancanza di curiosità sorprendente, specialmente per una categoria così presa da sé stessa; viene da chiedersi se sia davvero una mancanza.
Quindi dobbiamo separare le nostre legittime paure sul declino dei vecchi media nell’era digitale da quella che è forse l’idea più vecchia nella storia della critica: l’idea che semplicemente ci sono troppi critici
Bisognerà resistere alla vacuità del presentismo. Quando oggi si dice, per esempio, che Internet ha democratizzato la critica come non era mai successo nella storia – uno sviluppo preoccupante, vista l’idea di democrazia della maggior parte dei critici – sicuramente si ha la sensazione che sia vero: verrebbe da dire che se Gutenberg ha reso tutti lettori, allora Zuckerberg ha reso tutti scrittori. Ma il risentimento della classe degli scribacchini di fronte alla presunta esplosione delle opinioni in rete è il riflesso di un più antico rancore contro l’alfabetismo in generale. «Se tutti gli uomini sono capaci di leggere, e tutti i lettori sono capaci di giudicare, il numerosissimo Pubblico, che la magia dell’astrazione plasma nell’unità di una sola persona, siede come un despota sul trono della critica» scrisse Coleridge nel 1817, ma avrebbe potuto scriverlo per l’Atlantic la settimana scorsa. I cambiamenti più importanti nel mestiere sono quelli materiali: il declino della stampa, la fusione delle case editrici, il volatilizzarsi delle posizioni professionali legate alla scrittura, la pressione per sfornare in quantità industriale dei contenuti supportati dalla pubblicità. E anche questi cambiamenti non sono certo una novità: una volta Henry James descrisse i periodici della sua epoca come una «enorme bocca aperta da sfamare».
Quindi dobbiamo separare le nostre legittime paure sul declino dei vecchi media nell’era digitale da quella che è forse l’idea più vecchia nella storia della critica: l’idea che semplicemente ci sono troppi critici. Nessun altro mestiere ha una più alta opinione di sé o una più bassa opinione di chi lo pratica. «La critica è una dea facile ad ascoltare, pronta a ricompensare» scriveva Samuel Johnson nel 1759, notando che mentre l’arte necessita del genio e la scienza richiede fatica, «ogni persona può adoperare il proprio intelletto sulle opere altrui». Uno dei compiti più importanti del critico responsabile è sempre stato quello di proteggere la critica da «i critici» – tipicamente pronunciato in un imbarazzatissimo plurale (Alexander Pope li chiamava «insetti abbozzati, i quali nascono sulle rive del Nilo»). Solitamente questo implica il bisogno impellente di distinguere tra la critica, che è un’arte, e il mero «recensire libri», che è un lavoro. Cynthia Ozick sostiene che il critico è come un architetto, mentre il recensore è come un muratore – come se per la critica non ci fosse niente di più degradante che essere associata al lavoro manuale. Ma l’enorme mole di insulti che l’umile recensore riceve fin dal diciottesimo secolo è sufficiente a provare che la critica non è mai riuscita veramente a proteggersi dalla plebe. A ripensarci oggi, i tanti trattati sulle buone pratiche non sono altro che una sequenza di cartelli di DIVIETO DI ACCESSO verniciati alla meno peggio, che implicano, soprattutto, l’onnipresenza di trasgressori.
La crisi della critica dipende dunque dalla figura mitologica del Cattivo Critico, la cui mediocrità dev’essere continuamente e istericamente ribadita per fare sì che il bravo critico sembri bravo. Menzionare la crisi vuol dire partecipare a una sorta di sacrificio rituale, attraverso il quale una società segreta di persone serie può imputare i propri peccati a scrittrici e scrittori con meno soldi o prestigio. Perché nessun critico sfugge alle insidie del moralismo, o si limita all’opera d’arte nella sua purezza, o resiste alla tentazione di introdurre di nascosto ogni sorta di merce intellettuale di contrabbando; soprattutto, nessuno riesce a strapparsi il cuore e nasconderlo sotto il pavimento senza lasciare una piccola scia di sangue. L’unica differenza tra il critico serio e il comune recensore è un bel cespuglio di capelli. In un libro del 2000, per esempio, Ozick ci mette in guardia dall’idea «estremista» che Jane Austen dovrebbe essere sottoposta a una critica postcoloniale semplicemente perché Sir Thomas Bertram possedeva una misera piantagione di zucchero nelle Indie Occidentali. Eppure nello stesso libro possiamo leggere il celebre saggio dell’autrice su un vergognoso adattamento teatrale del diario di Anna Frank, colpevole niente meno che di «appropriazione» (questa esatta parola!) della memoria dell’Olocausto. Perché cambiare idea all’improvviso? Perché il secondo caso si concilia con la visione politica di Ozick, il primo no.
Ancora oggi, la destra religiosa tratta abitualmente Hollywood come un campo di battaglia per l’anima della nazione
Perciò nella critica non si può vietare l’accesso alla politica. Si può solo regolare il flusso del traffico. L’idea dell’arte per l’arte, che continua a godere di grande prestigio tra i letterati di oggi, può sembrare un tranquillo isolazionismo; in realtà è un frenetico programma di deportazione. Un esempio eccellente si trova nell’introduzione a un volumetto del 1941 dal titolo The Intent of the Critic, curato da Donald Stauffer, un critico letterario minore della metà del secolo. «Quando incontriamo uno scrittore che è soprattutto o esclusivamente il predicatore, il politico, il sociologo, lo psicologo, il filosofo, il retorico, il commesso venditore, il patrono, il parente consanguineo o il compagno di scuola, dobbiamo riconoscerlo come tale» scriveva Stauffer. È chiaramente un invito alla paranoia. Se un critico dice che l’Amleto è una prova del lutto filiale di Shakespeare, è un inconsapevole Freud. Se un altro dice che l’autofiction drammatizza l’alienazione del tardo capitalismo, non è altro che Marx con gli occhiali di Groucho. Solo una vigilanza costante terrà lontano il cattivo critico. Se non gli si può impedire fisicamente di scrivere recensioni, allora dev’essere dichiarato estinto. «Non sa fare il critico letterario perché il suo maggior interesse non è la letteratura in sé», scriveva Stauffer. «Il suo cuore è oltreoceano.» La metafora finale è eloquente: il cattivo critico, come un soldato con la nostalgia di casa che lascia insinuare il nemico dietro al fronte, ha dimenticato il suo dovere non solo nei confronti della letteratura ma, forse, anche nei confronti del suo paese.
Oggi ci sembrerebbe assurdo dire che lo stato di salute della repubblica dipende dalla recensione di una singola persona dell’ultimo film o romanzo. Eppure l’assurdità di questo pensiero è un traguardo ideologico, non un dato naturale. Non sarebbe stato così assurdo nel contesto del Cristianesimo medievale, dove la reazione alla bellezza di una cattedrale, per esempio, era direttamente collegata al proprio posto in una gerarchia spirituale, per non parlare dell’ordine politico basato sul mandato divino. Ancora oggi, la destra religiosa tratta abitualmente Hollywood come un campo di battaglia per l’anima della nazione. Forse ci sembrerà illiberale, ma è proprio questo il punto. Ammesso che la crisi della critica abbia una qualche validità storica, dovremmo intenderla come una crisi di fiducia nel liberalismo – sia come sistema concreto di organizzazione politica che come atteggiamento civico generale – che non è stata ancora sublimata. In sua difesa, Adam Gopnik ha dichiarato che il liberalismo è un’ideologia dal carattere mite. Oggi ci sembra naturale valutare un critico sulla base del suo atteggiamento mentale – il suo essere equilibrato, il suo essere cattolico, il suo essere scrupoloso – e non del contenuto ideologico dei suoi giudizi. È il corollario dell’arte per l’arte: la critica per la critica. Da cui il paradosso di critici rispettati come James Wood, Zadie Smith o Adam Kirsch che dal punto di vista morale scrivono con grande intensità ma poca chiarezza. Dal bravo critico ci aspettiamo che lasci i suoi valori fuori dalla porta ma non il suo fiuto per il valore; allora lo applaudiamo per quanti altri valori riesce a sradicare senza mangiarseli.
Andrea Long Chu è attualmente in tour in Italia. Domani, ore 18.30, sarà in dialogo con Guia Cortassa a Milano (Combo, Ripa di Porta Ticinese, 83)
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